C’è, laggiù nella patria dei cow-boy, un professore già di una certa età, Felix D. Almaraz Jr., emerito alla University of Texas di San Antonio, cattolicissimo, un gran signore, perfettamente ispanofono, che t’indirizza le email chiamandoti “don” (non per clericalismo, come pensava il mio portinaio credendomi un prete nel vedere certe buste che mi arrivavano da quel latitudini, ma perché nello spagnolo degli hidalgo vuol dire “signore”, dal latino dominus). Esperto di storia e di anfratti del Southwest americano dell’epoca coloniale, si diletta anche di cuisine e ci deve aver scritto anche su qualcosa. Va matto per il filete Milano ovvero la milanesa de res, che altro non è che la cotoletta alla milanese piatto seminazionale in mezzo Sudamerica da che i lombardi colà immigrati l’hanno esportata. «No matter where I was ‒ on the pampa humeda or the pampa arida ‒ a milanesa was a treat. Back home in Texas, a so-called chicken fried steak is not the same as una milanesa!».
Gira, don Felix, ogni posada tex-mex di qua e di là di quel confine che unisce due bei mondi oltre che dividere dai narcos, sempre in cerca della cotoletta con l’osso, quella prelibatezza che i buoni austriaci ci han copiato nella Wiener Schnitzel giacché (lo ricordava per iscritto il gran lombardo Romano Bracalini) ve n’è traccia sin dal 1148 – il lumbulus cum panicio, lombata impanata – e quella traccia è un documento ammirabile dei locali adiacenti alla Basilica di sant’Ambrogio a Milano. Mi ha promesso che se riesce a venire ancora nella mia città, lo debbo portare a gustare l’originale.
Don Felix mi è venuto alla mente sabato sera, cenando con la famiglia in una locanda di tipica cucina milanese affacciata sulla darsena del Naviglio appena risistemata in un happy-hour permanente di gente di tutte le età hanging around, giovanotti di ogni tribù, giovanetti seduti sul marciapiede che si baciano (di sessi diversi), famiglie con carrozzine o senza, coppie attempate, insomma un pezzo di vita normale nel cuore di una bella città strappato al degrado e restituito all’orgoglio dei milanesi. E la locanda milanese e don Felix mi sono tornati in mente ascoltando il tripudio del sindaco di Milano Giuliano Pisapia per i successi di Expo 2015 e vedendo la serata Expo della Caritas in Piazza del Duomo. «I risultati, i numeri, vanno al di là di ogni aspettativa», ha detto Pisapia, «Sia in città che a Expo vedo gente felice».
Ma davvero? Non bisogna essere dei geni per vedere che la gente che gira libera, compera quel che vuole con il suo sacrosanto denaro frutto delle sue responsabilità, produce, vende e scambia genera cultura e rispetto, crea civiltà e pace, rende tangibile uno degli aspetti concreti della felicità, per la precisione quello che in francese si dice laissez-faire, in inglese leave me alone e in milanese ten giò i man dal nichel. Non bisogna essere dei vecchi comunisti né dei nuovi sinistrati per vedere che l’Expo è, potenzialmente, la vetrina dei successi dell’Occidente, la fiera campionaria del meglio di noi, il biglietto da visita del capitalismo. Quello bello, puro, pieno, totale, senza “se” e senza “ma”, nessun aggettivo politicamente corretto a smorzarla sì da farlo digerire a certi papaveri. Il capitalismo sano e avventuroso, rischioso e intraprendente, coraggioso e spavaldo. Quello che ha trasformato il mondo, che ha vinto malattie e la fame, e che serve ancora in dosi da cavallo affinché qualche milione in più di persone in più la sfanghino almeno come noi.
Sì, certo Expo 2015 in Italia significa pure troppo Stato ancora, magna-magna, intrallazzi e cerchi magici, corruzione e ruberie, maneggioni e crony capitalism, ma non cambia. Expo 2015 rappresenta comunque il benessere, la ricchezza, il necessario e il suo surplus, lo strumento per rendere il mondo migliore. Già perché anche il surplus è d’oro. Gli statalismi lo vanificano negli sprechi, mentre i sagaci (come già notava bene Frédéric Bastiat) lo usano, “reinvestendolo” in carità. Non bisogna essere credenti per capire che l’elemosina è un buon investimento: meglio le donazioni liberali della tasse, meglio un mondo dove la proprietà privata è diffusa, meglio più padroni, proprietari e ricchi che miseri, poveri e schiavi. E qui arriva il collegamento con la serata Expo della Caritas, con delegazioni da ogni dove. Se non ci sono i ricchi i poveri, a chi chiedono aiuto?
La Caritas è un privato. Agisce bene e aiuta meglio se non ci sono Stati ficcanaso, governi impiccioni, tasse esagerate, corruzione diffusa, ingranaggi burocratici da oliare. La serata Expo all’ombra della Madunina (quella che resta bellissima anche se all’Expo l’han cacciata in un cantuccio), sul sagrato del Duomo, ha detto tutto questo in una festa di popolo vero e in un trionfo di parlate e di accenti lombardi che parevano musica, dal laghée di Davide van der Sfroos che davanti all’arcivescovo Angelo Scola ha eseguito la straordinaria (sua) Ave Maria a quella di Giacomo Poretti in arte Giacomo Poretti, cabarettista e attore comico impagabile, buon cattolico, che te lo puoi vedere sgambettare davanti quando passeggi per la suddetta darsena o al Parco Nord alla campestre scolastica dei tuoi e suoi figli.
I Milanesi. Nel cuore della città a celebrare l’industria e il dono, la gratuità e il guadagno, e soprattutto il cibo, testimone supremo di civiltà dal “Medioevo a tavola” di Léo Moulin a Il pranzo di Babette, dal G.K. Chesterton di «La Chiesa Cattolica è come una bistecca alta così, un bicchiere di vino rosso e un buon sigaro» all’Ultima Cena di Domineddio. Imprenditori, carità, laicità e fede. Eccola qui la capitale morale dell’Italia. C’è ancora, tranquilli, anche se l’han nascosta bene (tradurrò tutto anche per don Felix).
Marco Respinti
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