Si chiama Alessandra Angeli, ma in arte è già «Angelina per tutti, la make-up artist “cattiva” per definizione». Fa la truccatrice, insomma, e il trucco è che partecipa a Pechino Express 3 il reality-show “di viaggio” trasmesso da mamma Rai. Sguainando banalità che già nel tardo Ottocento sapevano di muffa (ma si vede chi l’email non le è arrivata), Chiara Maffioletti scrive ammirata, e col neretto, sul CorSera web che “Angelina” «non è solo un nuovo volto televisivo ma rappresenta un passo avanti, un segnale di progressismo tutt’altro che scontato». Si domanda «Perché?», con l’originalità di un prodotto in serie pure si risponde «Perché è nata biologicamente maschio e si è sempre riconosciuta donna» e noi, con la medesima retorica fritta e rifritta, ci chiediamo “Tutto qui?”. No, perché l’arma letale nascosta di “Angelina” sta nel fatto che «questo, nel reality di Rai2, non è stato mai usato». «Sagace», sillaberebbe ammiccando Claudio Bisio in un noto spot tivù… Insomma: uno è omosessuale e quindi trans; la cosa si vede lontano un miglio; questo tipo va in tivù; ma, in un mondo in cui fare coming out è diventato tanto plebeo che lo fanno tutti anche per foto e soldi, l’originalità del programma pilotato del nobile Costantino della Gherardesca è quella di lasciar cadere la mano molle di annoiata graziosità dal triclinium mentre sono gli altri a sbatterti. In pagina. Da sbigottire per l’ardire della sottile e arguta contro-tattica. Che “Angelina” dettaglia nel corso dell’ampia succitata intervista dove (a volte tornano, anche i neretti) «per la prima volta, qui, si racconta la sua storia, nella speranza che alcuni messaggi possano almeno spingere a riflettere un po’». Sembrerebbe il ritorno in diretta di Tito Stagno che, finalmente ritrovati con Ruggero Orlando i sensi di una concordia a lungo agognata dai fan, rivela al mondo che sì, fino a oggi vi abbiamo gabbati ma aveva ragione Bill Kaysing perché sulla Luna non ci siamo mai andati. Sembra dal rullare di tamburi, ma è invece è la solita minestra.
«Ho iniziato a truccarmi da piccola, bagnando le punte dei Caran d’Ache acquarellabili», dice lei e caspita dico io. «La mia transizione è iniziata però a 17 anni, in una città come Verona, non facile perché piccolina, ricca, molto cattolica e ideologicamente molto di destra». Che mondo schifoso, pensare che c’è gente che invece se la spassa lavorando in miniera. «Se non ho avuto problemi è perché ho un carattere molto forte». “Angelina” ha insomma gli attributi; operazioni per cambiare sesso, infatti, niente. Quindi (ho cercato sul web ma il web mi si nega) dovrebbe a rigore di cose chiamarsi Alessandro Angeli. Di cose nell’intervista ne dice tante. Così tante che nel mucchio alcune sono persino di buone senso. Alcune. Tipo che «i diritti dobbiamo averli in quanto cittadini, non in quanto transessuali. Perché con la storia degli omosessuali e dei transessuali ci stanno vendendo la teoria secondo cui dobbiamo chiedere dei diritti che in realtà dovremmo già avere, in quanto cittadini e in quanto persone». Perfetto. Quindi dove sta il punto? Chi si batte per evitare che la testa della gente venga ridotta a un mero organo sessuale afferma proprio che, qualunque siano le virtù o i peccati di un tizio o di una tizia, l’irriducibile dignità di ognuno deriva dall’essere persona, non checca, e i diritti pure. Altri non ce ne sono, altri diritti non derivano dal fatto di vestirsi in giacca e cravatta o di lavorare in perizoma e autoreggenti. Solo che la gente che la pensa così la gente come Vladimir Luxuria la graffia. Forse è per questo che “Angelina” s’incazza e dice che «la transessualità o l’omosessualità non sono opportunità lavorative»; forse è per questo che su Panorama “Angelina” chiama Luxuria “populista” e “cerchiobottista”.
Il buon senso di “Angelina” comunque finisce qui. Tra le perle per cui sbellicarsi, la migliore è questa: «Ci sono persone che si operano perché si vogliono vedere nello specchio come si sono sempre sentiti ma c’è anche chi lo fa in risposta alla forte pressione sociale insita nella legge 164 dell’82, una legge molto vecchia. Un documento dovrebbe registrare il genere a cui ambisci: dovrebbe dipendere da quello, non dal fatto che ti operi o meno. Ci sono Paesi, come la Germania, che lo fanno: dopo un anno di test del sesso nel genere di arrivo ti danno i documenti femminili senza che tu ti operi. Questo permette di arrivare alla eventuale scelta di farlo in modo sereno, senza avere pressioni sociali. La trovo una cosa molto civile». Appena finito di spanciarmi ho però capito perché la Rai manda dei trans camuffati da etero a svernare nel Sud-est asiatico a spese del mio canone. La Rai è lo Stato, lo Stato è quello che è e coi miei soldi “Angelina” propone la maggiore riforma dello Stato che mai sia stata partorita da tweet di governo, il fai-da-te. Maschio bella presenza desidera farsi castano con occhi bruni poiché stanco di non riuscire ad abbinare il paltò agl’iridi celesti e alla frangetta bionda? Basta il pensiero. Idem col sesso. Fai-da-te. Cioè pugnette. Fantasia al potere 2.0: non più “io sono Dio” ma “la mia mamma è un uomo”. Basta scriverlo su uno chiffon de papier e pagare una marca da bollo, checcevò. La chiusa vera la merita però ancora “Angelina”: «Se un bambino ha una coppia di genitori omosessuali, con la cultura vagamente fascista che c’è adesso, a scuola diventerebbe subito “il figlio dei froci”».
Marco Respinti
Pubblicato con il titolo Angelina il trans, la noia del già visto e il mio canone Rai
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord, Milano 3-10-2014
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