Il 5 marzo si sono svolte le primarie del Partito Democratico in Kansas, Louisiana, Nebraska (in questo Stato i Repubblicani le svolgeranno il 10 maggio). Lo stesso giorno il Partito Repubblicano ha tenuto le primarie in Kansas, Kentucky, Louisiana e Maine (i Democratici svolgeranno le primarie in Kentucky e in Maine rispettivamente il 17 maggio e il 6 marzo).
Tra i Democratici, il socialista Bernie Sanders ha vinto in Kansas e in Nebraska, confermandosi una spina nel fianco di Hillary Clinton e un giocatore in grado alla fine di esigere molto, in termini politici, dagli apparti di partito che in blocco sostengono l’ex First Lady. Fosse la Clinton ha vincere la Casa Bianca, l’“effetto Sanders” ne radicalizzerà ulteriormente l’orientamento già radicale.
Tra i Repubblicani, Ted Cruz ha vinto in Kansas e in Maine, mentre Donald Trump ha vinto in Louisiana e in Kentucky. Tenendo presente che i sondaggi dei media danno sempre favorito Trump, il risultato è clamoroso, irrobustito dal fatto che in Kansas Cruz ha preso una percentuale di voti più che doppia rispetto a Trump e pure più del doppio di voti popolari. Il che per l’ennesima volta conferma l’unico dato sino a ora asseverato dalle primarie Repubblicane: Trump controlla circa un terzo dell’elettorato che quest’anno ha scelto di votare nelle primarie Repubblicane e da quella percentuale non si scolla.
Trump vince cioè in assoluto meno del previsto (quantomeno stando ai sondaggi e agli echi di stampa) e resta un candidato “forte” che però ottiene meno di quanto ottenuto dal “debole” Mitt Romney, candidato presidenziale Repubblicano nel 2012. Il confronto tra i due è importante. Romney si è appena apertamente schierato contro Trump, forse sperando che alla fine, se le primarie finiranno in un nulla di fatto, il Grand Old Party (GOP, l’altro nome dei Repubblicani) decida di nominare lui. Diversi commentatori hanno irriso Romney per avere osato criticare la “forza” di Trump, lui che nel 2012 era un candidato non unitario dei conservatori, ultimamente incapace di sconfiggere Barack Obama. Ma non è vero; in confronto a Trump nel 2016 Romney nel 2012 è stato un leone.
Il conto è presto fatto. Basta confrontare le percentuali ottenute da Romney quattro anni fa con quelle totalizzate da Trump quest’anno. Calcoliamo gli stessi Stati in cui al 5 marzo di quest’anno nel 2012 si erano già svolte le primarie Repubblicane; i calendari elettorali, infatti, non sono sempre gli stessi e nel 2016 alcuni Stati sono passati, rispetto al 2012, a un formula in base alla quale i delegati votati non hanno vincoli rispetto ad alcun candidato in lizza, ma sceglieranno chi sostenere alla fine, durante la Convenzione nazionale del partito che si svolgerà in luglio.
Romney ottenne la nomination presidenziale Repubblicana con percentuali mediamente più alte di quelle ottenute quest’anno da Trump pur in presenza di avversari conservatori forti come Rick Santorum, Newt Gingrich e Ron Paul, ognuno dei quali vinse diversi Stati (sia in generale in tutte le primarie, sia in particolare per quel che concerne il conto degli stessi Stati in cui al 5 marzo di quest’anno nel 2012 si erano già svolte le primarie Repubblicane). Romney non fu insomma meno insidiato da concorrenti agguerriti nel 2012 di quanto lo sia Trump quest’anno.
Ebbene, nel 2016 Trump ha ottenuto percentuali di voto più altre rispetto a Romney nel 2012 soltanto in Alaska, Georgia, Kansas, Louisiana, South Carolina e Tennessee. E però:
- in Georgia Romney nel 2012 non vinse le primarie, ma le vinse Gingrich con una percentuale superiore a quella ottenuta da Trump nel 2016;
- in Kansas nel 2016 Trump ha ottenuto una percentuale maggiore di Romney nel 2012, ma allora le primarie le vinse Santorum con più del doppio di share di Trump nel 2016;
- in Minnesota Romney nel 2012 non vinse le primarie, ma le vinse Paul con una percentuale superiore a quella ottenuta da Trump nel 2016 (e quest’anno le ha vinte Marco Rubio battendo il risultato ottenuto da Paul quattro anni fa);
- in Oklahoma nel 2016 Trump ha ottenuto la stessa percentuale di Romney nel 2012, ma quattro anni fa Romney perse quelle primarie che andarono a Santorum con una percentuale superiore a quella ottenuta da Trump nel 2012 e pari a quella del vicnitore di quest’anno, Cruz;
- in South Carolina Romney nel 2012 non vinse le primarie, ma le vinse Gingrich con una percentuale superiore a quella ottenuta da Trump nel 2016;
- in Louisiana nel 2016 Trump ha ottenuto una percentuale maggiore di Romney nel 2012, ma quattro anni fa le primarie le vinse Santorum con uno share più altro di Trump nel 2016.
Non solo dunque quest’anno Trump è percentualmente più debole di quel che fu Romney quattro anni fa negli Stati in cui hanno vinto entrambi, ma in alcuni Stati vinti da Trump nel 2016 e non da Romney nel 2012, Trump è ora più debole di chi vinse allora.
Il calcolo delle percentuali è del resto importantissimo. Con le primarie, infatti, il voto popolare determina la ripartizione ai candidati in lizza dei delegati che alla Convenzione nazionale designeranno il candidato presidenziale finale; per ottenere la nomination è necessario assicurarsi un certo numero minimo di delegati e quel numero, dato dalle percentuali di voto ottenute Stato per Stato, è indipendente dal numero assoluto dei voti popolari espressi e quindi totalizzati dai diversi candidati. Basta ottenerne sempre la maggioranza, non importa di quale numero assoluto.
Trump, dunque, è più debole di quanto lo fosse il debole Romney nel 2012.
È vero che, quale che sia l’entità assoluta della percentuale (per esempio superiore quella di Romney nel 2012), chiunque ottenga la percentuale relativamente maggiore si aggiudica le primarie di uno Stato; ma se un candidato, come Trump quest’anno, ottiene percentuali più basse ancorché sufficienti a vincere uno Stato, significa che la sua vittoria pur reale è però debole.
È vero anche che quest’anno il numero assoluto dei voti popolari sino a ora espressi è superiore a quello delle primarie del 2012, ma questo non vale solo per Trump. Se cioè quest’anno Trump ha in assoluto ottenuto più voti di Romney quattro anni fa, così accade per tutti i candidati in lizza quest’anno rispetto a tutti i candidati in lizza quattro anni fa. Per quel che riguarda i rapporti di forza che determinano la nomination presidenziale il numero assoluti dei votanti e dunque dei voti espressi non conta. Importa invece su un altro piano: le primarie del 2016 stanno facendo registrare un afflusso alle urne maggiore di quattro anni fa. Indubbiamente, a livello generale, le primarie di quest’anno sono più partecipate di quelle del 2012, ma questo non è dovuto esclusivamente alla novità (“vincente”) Trump: tutti i candidati in lizza, segnatamente anche Cruz e Rubio, attirano più voti di quanto fecero i candidati in corsa nel 2012. Quattro anni fa una parte dell’elettorato Repubblicano non si recò infatti alle urne convinto che nessuno avrebbe potuto sconfiggere Obama; quest’anno invece molti più Repubblicani sono convinti di poter sconfiggere gli avversari Democratici (e questi sono i voti conservatori ottenuti da Cruz, Rubio, John Kasich e in parte Trump) e in più alle urne si reca un certo quantitativo di elettori nuovi provenienti dagli “indipendenti” che votano Repubblicano perché, non appartenendo al mondo conservatore ma nemmeno a quello liberal e di sinistra, sono attratti dal “fenomeno Trump”. Ovvero: i candidati che non sono Trump si dividono il voto conservatore, mentre Trump assomma in sé una parte dell’elettorato conservatore abbagliato dal suo populismo più elettori nuovi non conservatori.
Trump ha oggi più voti popolari di quelli che ebbe Romney, ma non ha affatto la maggioranza del voto conservatore (che in parte enorme oggi coincide con il voto Repubblicano tout court). E i suoi successi elettorali sono più discontinui di quelli che furono i successi elettorali già discontinui di Romney nel 2012. Se vince la nomination Repubblicana, Trump scombussola l’assetto politico statunitense, ma non snatura, se non in piccola parte, il voto conservatore. Il conservatorismo, cioè, non è scomparso né si è trasformato in “trumpismo”: il suo guaio peggiore resta la disunione.
Alla fin della fiera, significa che, a tutto il 5 marzo 2016, Trump (378 delegati alla Convenzione nazionale di partito di luglio su 1237 di 2472 necessari per ottenere la nomination) non è affatto irresistibile e ancora può essere sconfitto rotondamente dalla “santa alleanza” tra Cruz (295 delegati), Rubio (123), Kasich (34), Ben Carson (8) e Jeb Bush (4).
Marco Respinti
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