Pubblicità
Batman
Tutti gli articoli con tag Batman
A Hollywood c’è un eroe conservatore che riesce a sbancare il box office ogni volta che sforna un capolavoro, e in quella palude liberal non è mica roba da poco. Si chiama Christopher Nolan, è nato a Londra nel 1970, ha doppia cittadinanza britannica e statunitense, e il suo nome è legato a memorabilia come Memento (2000), Insomnia (2002), The Prestige (2006), la trilogia-reboot di Batman (2005, 2008, 2012), Inception (2010) e Interstellar (2014). Il suo terzo (e ultimo) Batman, Il cavaliere oscuro. Il ritorno (The Dark Knight Rises), è un’allegoria della Rivoluzione Francese da Oscar del pensiero reazionario e il suo ultimo parto, il distopico Interstellar, è la difesa morale dei valori della civiltà Occidentale: l’uomo è un essere unico, non è un prodotto casuale dell’evoluzione, non è il problema ma la soluzione ai mali del mondo e la storia del Dio cristiano che dà il proprio figlio per riscattare l’umanità (il film lo sussurra morbidamente ma distinguibilmente) conquista ancora i cuori e le menti. Insomma, Nolan «è (diventato) un conservatore nel senso di chi si e dato il compito di ristrutturare il cinema hollywoodiano nella sua grandiosità mitopoietica». Una definizione icastica che, scomodando elegantemente portenti come la magia, i sogni, il sacrificio, il doppio, il tempo, la memoria, il labirinto, la paura, l’orrore, il rapporto padre-figlio e i segreti dell’universo (l’amore manca apposta per eccesso d’inflazione), sunteggia alla perfezione il libro-quadro Christopher Nolan. Il tempo, la maschera, il labirinto (prefazione di Roy Menarini, Bietti, Milano 2015, pp. 290, euro 17,00) con cui Massimo Zanichelli già evoca l’empireo degli Alfred Hitchcock, dei Fritz Lang e dei Douglas Sirk («in fondo Hollywood è sempre stata intuita al meglio dagli stranieri») per restituirci la rotondità di un personaggio e l’opera di un cineasta che a soli 45 anni è già un classico.
Ogni volta che entra in sala, e che buca il grande schermo, il regista anglo-americano fa sobbalzare il pubblico sulla poltroncina, spesso scatenando polemiche anche accese. A pennello gli calza quel che J.R.R. Tolkien disse de Il Signore degli Anelli, o esclami wow! o vomiti un bleah!, e Zanichelli ne illustra magnificamente il perché e il percome (motivo per cui gli va perdonato anche lo svarione di definire “neoconservatori” i “Tea Party” americani…).
Perché l’opera di Nolan sia superlativa Zanichelli la spiega richiamando i fantasmi dell’inconscio e della morale che sono la trama d’Insomnia per raccontarci del sonno della ragione e delle false veglie del razionalismo in cui resta fortunatamente la profondità della coscienza a vigilare, allegoria nobile e monito costante della condizione umana al suo meglio. Esattamente come nel momento della lotta suprema contro il nichilismo dei Ra’s al Ghul, dei Joker e dei Bane in cui i personaggi di Batman e di Jim Gordon si sublimano divenendo la medesima persona in un tourbillon di emozioni: l’amicizia, la giustizia, il dono di sé, il martirio, la carità (il caso Harvey Dent). Ed eccola dunque ancora una volta qui, palese, imponente, la cifra autenticamente conservatrice di un moderno racconteur di metafore che sono più vere della cronaca quotidiana. Il libro di Zanichelli (legato al regista anche da ragioni biografiche) è già un meritato premio alla carriera tutta in fieri di Nolan, e il suo pregio maggiore è quello di farci intuire che con tutta probabilità il meglio lo dobbiamo ancora vedere. Al cinema.
Marco Respinti
Importante l’articolo di Rino Cammilleri sulla trasmutazione di tutti i valori nel mondo dei supereroi. Mette il dito in quella piaga purulenta che è l’aggressione ai più giovani nelle loro emozioni e passioni, nei loro ideali e fragilità, nel loro essere uomini già e non ancora.
Amo anch’io i supereroi americani fin da quando ero bambino e il mio preferito è sempre Batman (cavaliere, dotato di poteri solo umani talvolta troppo umani, tormentato, gotico, generoso, in eterno ritorno), perché secondo me è il suo il costume più bello di tutti. Cammilleri non sbaglia un aggettivo né una virgola, il male che si sta facendo al nostro futuro avvelenando quella che T.S. Eliot chiamava rising generation è enorme. Meglio sarebbe buttarsi nel mare con una macina da asino al collo. Forse però c’è persino un modo diverso di affrontare la narrativa della new age dei supereroi.
Ne parlano i grandi quotidiani nazionali. L’insostenibile leggerezza dell’attacco LGBT si nutre anche della malapianta del chiacchiericcio e della calunnia. Ma il disordine omosessualista dilaga tra i supereroi perché (come dice Cammilleri), la società, la società che legge i fumetti, è cambiata; e quindi, in ossequio alle ferree leggi del marketing ‒ lo nota indispettita anche la comunità LGBT ‒, il produttore dà al consumatore ciò che questi si aspetta, che sennò i suoi soldi li spende altrove. Il punto è precisamente questo. Sono mutati, e mutano con una vorticosità esponenziale, i criteri di riferimento del mondo e gli standard di giudizio delle persone. A normalizzare l’ideologia di gender siamo cioè noi, non i supereroi. Il marketing segue a ruota perché fa quello che vogliamo noi, che vendiamo i mutamenti contro denaro sonante. Un circolo autoreferenziale.
Questo però significa che i supereroi, loro, restano sempre sé stessi. Siamo noi, produttori-consumatori, a cambiare, a farli cambiare, a modificare lo scenario di riferimento in cui poi li facciamo agire per non diminuire i dividendi. E infatti loro, i supereroi, catapultati improvvisamente in un mondo diverso, si muovono a disagio, sono goffi, non rendono. Ma li vedete? Nati per combattere il Male, per difendere l’orfano, la vedova e il debole, per far trionfare la giustizia, per propiziare l’avvento di quella che J.R.R. Tolkien chiamava “eucatastrofe” (il capovolgimento improvviso della trama che assicura il lieto fine, la “fiaba” massima essendo dunque il Vangelo, mito che si fa storia vera), si trovano ad abitare disegni in cui stringono la manina di una comparsa del loro stesso sesso, in cui amoreggiano safficamente tra sole donne, magari presto a rifarsi iperbolicamente i sessi (perché infatti accontentarsi di uno solo quando si è super?) grazie, che so, a un improbabile ricondizionamento del Tesseract degli dèi.
Sono impacciati e imbarazzati i supereroi perché l’onda gay e il culto trans non sono normali. Loro super infatti lo sono proprio per questo. Dei normali mortali incarnano il meglio, il massimo, l’ideale, le virtù. Se però il mondo dei normali attorno a loro impazzisce, loro perdono l’orientamento, si sborniano, cadono. Ma la colpa è tutta nostra. Loro sono soltanto la nostra progenie; loro sono solo il massimo delle nostre aspirazioni, il nostro cuore lanciato oltre l’ostacolo. Se le nostre aspirazioni sono infime, e il cuore piccolo e l’ostacolo basso, loro si trasformano in supermeschini. Come superbamente scrive Francesco Guccini (il cui anarchismo puro lo rende simile a un Don Chisciotte almeno in pectore cristiano) nella bellissima Cirano (praticamente L’avvelenata riscritta con l’eucatastrofe): «e voi materialisti, col vostro chiodo fisso,/ che Dio è morto e l’ uomo è solo in questo abisso,/ le verità cercate per terra, da maiali,/ tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;/ tornate a casa nani, levatevi davanti,/ per la mia rabbia enorme mi servono giganti». Dei nostri supereroi abbiamo fatto dei maiali e dei nani a nostra immagine e somiglianza.
I supereroi, però, restano appunto innocenti. Restano maschi i maschi, femmine le femmine, puri i puri, villain e i villain. Sì, dagli anni 1990 in casa Marvel ci sono X-Men che fanno coming out, Giovani Vendicatori gay e Runaways lesbiche a cui l’eterna rivale DC Comics risponde omosessualizzando Lanterna Verde e il mio Batman. Ma il matrimonio lesbico di Batwoman è pur stato bloccato. Se in loro sapessimo vedere ancora l’uomo migliore cui per natura aspiriamo, tutto ci tornerebbe chiaro.
Infatti, nella serie televisiva Flash di cui ci ha ben parlato Cammilleri l’omosessuale è il capo della polizia, non l’eroe Berry Allen che resta se stesso, ama donne e incarna ancora il nostro sogno migliore; a cambiare è lo scenario che gli abbiamo voluto mettere noi produttori-consumatori. Nella serie tivù Arrow, la lesbica è Nyssa, la perfida figlia del supercattivo Ra’s al Ghul (sorella o sorellastra di Talia); per salvare la vita a Oliver Queen, Sara Lance cede alle sue voglie perverse. Ma è una grande metafora. Oliver e Sara erano due farfalloni; Oliver era fidanzato con Laurel, la sorella di Sara, ma viene tradita dagli affetti più cari. I due fedifraghi s’imbarcano sul Queen’s Gambit per un’avventura di sesso e champagne, ma un evento inatteso ne stravolge le vite, li sprofonda agl’inferi e da qui i due risorgono avendo imparato ad amare la vita, il prossimo, la virtù e ogni istante di quel tempo loro concesso che inesorabile scorre e mai ritorna. Sara non è lesbica: si concede alla lesbica Nyssa per difendere il suo vero amore. Un paradosso, certo; ma il mito è fatto tutto così. Insomma, la lesbica della serie è cattivissima, uccide l’amore vero e puro, si danna e danna. Nessuna condiscendenza, ma un’occasione per riflettere. Oliver ne esce votandosi al bene nei panni di Arrow e Sara uguale come Black Canary; alla fine lei paga con la vita il male commesso perché comunque non è lei la donna destinata a Oliver.
Come nella letteratura horror autentica, dove le brave ragazze vanno in Paradiso, le bad girl vanno ovunque e con chiunque, e appunto su di loro, non sulle altre, si abbatte sempre il male. La casa editrice Zenescope, di Horsham, in Pennsylvania, 10 anni di attività a crescita vorticosa appena celebrati, ne ha fatto un vero e proprio genere, rivisitando le fiabe dei fratelli Grimm, Robin Hood, Il libro della giungla e Alice nel paese delle meraviglie tra reggicalze da capogiro e rigore morale impeccabile. E il dio vichingo Heimdall al cinema è nero per colpa delle “quote razziali” con cui vengono selezionati da anni i cast, frutto di quell’assurda Affermative action che invece di emancipare le minoranze ha prodotto razzismi al contrario; nell’olimpo di Asgard, infatti, gli iperborei restano iperborei. Colpa nostra, non degli eroi.
In quelle scuole dove ancora l’obiettivo primo e unico è l’educazione della libertà e alla ragione dei ragazzi nell’età-chiave delle medie (non molte in verità, e per lo più cattoliche, guarda caso) si legge l’Iliade e si rivive Lo Hobbit, ci si cala dentro Bravo, Burro! di John Fante e si recita in teatro L’isola del tesoro di Roberto Louis Stevenson. Storie in cui i ragazzi s’identificano totalmente perché i loro protagonisti sono bambini (o pusillanimi) che diventano uomini, esattamente come loro a quell’età. Esattamente come tutti, sempre, impegnati a tornare evangelicamente ogni giorno bambini per cercare di guadagnarsi il Cielo da uomini compiuti. Gli eroi, a fumetti, in tivù, al cinema, ci aiutano a farlo, se noi lo permettiamo.
Marco Respinti
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.