La candidatura di Bernie Sanders per il Partito Democratico alle primarie del 2016 ha prodotto una Hillary Clinton a due teste: moderata in confronto a lui e a causa di lui radicale. Moderata perché i salotti buoni preferiscono certamente lei al socialismo caciarone di Sanders, ma al contempo radicale perché quella spina nel fianco sinistro la costringe a scendere a patti con il massimalismo. Nella versione di Sanders (un tweet del 3 febbraio) il concetto suona così: «Si può essere moderati. Si può essere progressisti. Ma non si può essere sia moderati sia progressisti». Ma non sempre è vero. Tutta la storia politica dell’ex First Lady è infatti uno sforzo per vestire l’estremismo dell’abito buono.
Hillary si è formata in quello che noi chiameremmo “il Sessantotto” e che invece negli Stati Uniti dura tutti gli anni 1960: la “contro-cultura”, la contestazione al “sistema”, il superamento della famiglia, la diffusione dei contraccettivi (che ai giovani danno un brivido di autonomia inedito), insomma il radicalismo di massa, ma che alla scuola di uno dei più influenti guru del tempo la Clinton impara a rendere efficace attraverso il gradualismo. Il guru è Saul Alinsky, un agit-prop comunista convintosi dell’impossibilità di radicare il marxismo negli Stati Uniti e pertanto trasformatosi in un abilissimo organizzatore di minoranze etniche. Alinsky operava a Chicago, nella Chicago di Hillary, e fu a Chicago che Alinaky ebbe un altro discepolo famoso: Barack Obama. Quando nelle primarie Democratiche per le elezioni presidenziali del 2008 Obama e la Clinton si scontrarono frontalmente, il loro fu un conflitto tra due modi complementari di promuovere per via democratica la stessa rivoluzione socio-culturale, praticamente due tattiche del medesimo gramscismo american-style. L’una, quella di Obama, più “proletaria”; l’altra, quella di Hillary, più borghese. Il partito decise che allora toccava a Obama, ma sulla distanza si è capito che non era affatto una gara di velocità bensì una staffetta. Una volta sconfitta la rivale, Obama (e il partito) fece quello che di solito nessun vincitore fa: salvò le aspirazioni presidenziali della Clinton rimettendola nel “gioco grande”, prima con la nomina alla Segreteria di Stato, poi con la sua sostituzione a favore di John F. Kerry, di modo che Hillary potesse, nel rush finale di quest’anno, osservare tutta la terzietà utile a prendere le distanze dall’Amministrazione in carica senza però ripudiarla.
Oggi il programma elettorale della Clinton parla di parità retributiva per le donne, aumento del salario minimo, ampliamento dei crediti d’imposta per le famiglie povere, revisione del fisco per le imprese, estensione dei congedi parentali retribuiti e diritto universale all’asilo nido. A monte ci sono però due idee chiave che illuminano i suoi concetti di donna, famiglia, figli e povertà: l’aborto e il “matrimonio” omosessuale. Di entrambi è un’accesa sostenitrice. Quanto al primo, la Clinton ha sempre difeso persino il partial-birth abortion, ovvero la soppressione del feto estratto vivo dall’utero materno. Quanto al secondo, la sua posizione (come quella del marito presidente) è stata altalenante, ma non più da quando Obama ne ha fatto un fiore all’occhiello della propria Amministrazione.
Negli Stati Uniti, la staffetta tra il primo presidente nero e l’aspirante primo presidente donna è oggettiva proprio su questioni capaci di ridisegnare il volto del Paese come queste. Nell’“era Obama” il primo dei diritti politici dei cittadini americani, sancito dalla Costituzione federale come origine e significato di ogni altro diritto politico, vale a dire la libertà religiosa, ha subito attacchi e riduzioni (il controllo delle nascite contenuto nella riforma sanitaria, per esempio, che calpesta fedi, credi e coscienze). Una ipotetica “era Hillary” non farà di meno. Lo ha detto programmaticamente la Clinton stessa il 23 aprile 2015 al “Women in the World Summit”: «A un numero davvero troppo grande di donne è negato l’accesso alle cure sanitarie riproduttive e al parto sicuro», ovvero alla contraccezione e all’aborto, «e le leggi non contano molto se non sono imposte con la forza. I diritti debbono esistere nella pratica, non solo sulla carta. Le leggi debbono essere supportate da risorse e da volontà politica. E codici culturali profondamente radicati, credenze religiose e condizionamenti strutturali debbono essere cambiati».
Del resto, quando l’aspirante presidente parla di risorse e di volontà politica sa benissimo a cosa riferirsi. Utilizzando dati accertati dalla Federal Election Commission, il quotidiano The Washington Post ha calcolato che tra donazioni fatte da hedge fund, banche, compagnie assicurative e società di servizi finanziari, Wall Street e altre compagnie hanno irrorato la campagna elettorale di Hillary Clinton di 44,1 milioni di dollari, portando la cifra complessiva racimolata dai coniugi Clinton in 41 anni di attività politica a 3 miliardi di dollari.
Marco Respinti
LA VITA DI HILLARY IN PILLOLE
Hillary Diane Rodham nasce a Chicago il 26 ottobre 1947. Diplomatasi nel 1969 al Wellesley College nel Massachusetts, alla prestigiosa Law School dell’Università Yale, di New Haven nel Connecticut, conosce il futuro marito, William Jefferson “Bill” Clinton, nato nel 1946.
Impiegata per il senatore Democratico Walter Mondale e in prima linea nella campagna presidenziale del Democratico George McGovern nel 1972, l’anno seguente si laurea in Diritto a Yale, entra nel pool di giuristi che indaga la possibilità d’impeachment del presidente Repubblicano Richard Nixon durante lo “scandalo Watergate” e quindi insegna nella Fayetteville School of Law dell’Università dell’Arkansas dove pure insegna Bill Clinton.
Bill e Hillary si sposano nel 1975. Nel 1978 Bill diviene governatore dell’Arkansas e l’anno dopo Hillary diventa partner del blasonato studio legale Rose Law Firm di Little Rock. Nel 1980 dà alla luce la figlia Chelsea. Dal 2001 al 2009 è senatrice federale Democratica per lo Stato di New York.
Le sue biografie sottolineano il piglio femminista con cui Hillary ha continua a utilizzare il cognome da nubile anche dopo le nozze almeno finché le ha fatto comodo, cioè fino al doppio mandato presidenziale del marito, dal 1992 al 2000. E questo, spregiudicata come pochi, soppesando attentamente i vantaggi che un cognome comunque popolare le poteva arrecare anche a prezzo di un’umiliazione enorme, quella di un marito-presidente al mondo intero ammette di essersi tolto la voglia con una stagista.
Lo scandalo, vero o presunto, ha del resto sempre accompagnato la Clinton. Anzitutto lo “scandalo Whitewater” legato agli investimenti immobiliari dei coniugi Clinton quando Bill era governatore dell’Arkansas e a certi prestiti concessi illegalmente. Poi lo “scandalo di Bengazi”, quando l’11 settembre 20012 l’ambasciata statunitense venne presa d’assalto da un gruppo islamista che assassinò l’ambasciatore J. Christopher Stevens: la Clinton, allora Segretario di Stato, è stata accusata di avere sottovalutato il pericolo più volte palesemente annunciato. E infine lo “scandalo delle email” di Stato finite su un server privato e forse contenenti segreti assai sensibili. M.R.
Versioni complete e originali degli articoli pubblicati
il primo con il titolo Gli USA tentati da Trump e il secondo con il titolo Scheda
in il nostro tempo, anno 71, n. 10, Torino 13-03-2016, pp. 1 e 6-7
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