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Salmoni in Fiera a Milano
Pubblicato da Marco Respinti in 8 marzo 2018
La Costituzione federale degli Stati Uniti d’America dà ragione a Cathy Miller, e un bravo giudice ci mette la firma e la faccia. Cathy fa la pasticcera; anzi è una designer di creme e pastafrolle, una vera artista creativa, nota e ricercata per il proprio talento. A Bakersfield, in C alifornia, è titolare della Tastries Bakery. Soprattutto è però una cristiana praticante. Quando, a metà agosto, si è rifiutata di preparare una torta di nozze per Mireya ed Eileen Rodriguez-Del Rio, lesbiche “coniugate”, perché il suo credo non le consente di mettere la propria arte al servizio di una pratica che giudica immorale, ne è nato il solito putiferio. Le due donne sono “sposate” dal dicembre 2016, ma dato che non avevano mai organizzato una vera e propria festa di “matrimonio”, ne evavano programmato una – verrebbe da dire “riparatrice” – per il 7 ottobre dell’anno scorso. Davanti al rifiuto di Cathy, sono ricorse al Department of Fair Employment and Housing, l’agenzia dello Stato della California che si occupa delle discriminazioni sul posto di lavoro, nei contratti di locazione e nelle strutture pubbliche, che ha dato loro ragione: siccome la torta non era accompagnata da alcun scritta, non vi è stata alcuna violazione dei diritti tutelati dal Primo Emendamento della Costituzione federale che garantisce la libertà di coscienza, parola, culto ed espresione pubblica della religione.
Martedì 6 febbraio, però, un giudice, David R. Lampe, della Corte superiore della contea di Kern, ha ribaltato la questione. Lo ha fatto stampigliando la parola “irricevibile” sulla pretesa con cui lo Stato della California ha cercato di soggiogare la pasticcera: «Lo Stato non sta chiedendo agl’imputati di vendere una torta. Lo Stato chiede al tribunale di costringere la Miller a usare i propri talenti per progettare e realizzare una torta che ella non ha ancora ideato con la consapevolezza che poi la sua opera verrà esposta nella celebrazione di una unione sponsale che la sua religione proibisce». E questo è limpidamente anticostituzionale. La forza del paradosso rende bene l’idea. Forse che, scrive Lampe, lo Stato costringerebbe un pasticcere pro LGBT a preparare una torta di nozze per una coppia cattolica a cui prima l’aveva negata in odio alla Chiesa Cattolica che è contraria all’omosessualità?
Non solo. Il giudice Lampe è andato oltre, con grande finezza. Se la Miller è nel proprio pieno diritto costituzionale quando rifiuta una prestazione professionale che ne viola direttamente la coscienza, nessun negoziante ha invece il diritto di rifiutarsi aprioristicamente di servire genericamente un cliente perché non ne condivide l’orientamento sessuale, etico o religioso, oppure il colore della pelle. Un rivenditore di pneumatici – questo l’esempio usato da Lampe – non può rifiutarsi di cambiare le gomme a un omosessuale che abbia forato più di quanto possa rifiutarsi di cambiarle a un nero se è razzista o a un cattolico se è laicista: cioè mai. «Non vi è nulla di sacro o di espressivo in un pneumatico», ha scritto per farsi capire bene. Rifiutarsi di cambiare le gomme a un cliente per motivi personali non può essere tutelato dal diritto alla libertà di coscienza, parola, culto ed espressione pubblica della religione, e questo pur restando diritto costituzionale di quel rivenditore di pneumatici ritenere in coscienza inaccettabile l’omosessualità. La Costituzione tutela infatti il diritto di quel rivenditore a ritenere incompatibile l’omosessualismo con il proprio credo e a manifestarlo nei modi leciti, ma non a descriminare una persona. La persona va infatti tutelata sempre, le violazioni della coscienza e le imposizioni idoelogiche mai. Ora, la posta messa in gioco così dal giudice Lampe è altissima.
Il giro mentale di chi combatte l’obiezione di coscienza in casi come questo usa infatti il cortocircuito. Rifiutarsi di preparare una torta per una coppia omosessuale sarebbe cioè un crimine come quello che commetterebbe il barista che rifiutasse di servire un drink a un cliente di colore. Ma è falso. Il giudice Lamp ha risposto perfettamente all’obiezione, introducendo una dimensione ulteriore del caso. Questo.
Perché la Costituzione federale riconosce il diritto alla libertà di coscienza, parola, culto ed espressione pubblica della religione? Perché quella libertà è un valore. La disciminazione del nero al bar invece non è tutela perché è un disvalore. Lo Stato, insomma – che non è mai neutro anche se ci continuano a ripetere il contrario solo per far passere una e una sola ideologia pubblica -, nella misura in cui tutela quelle libertà prende le parti di un principio buono, così come sanzionando la discriminazione del nero al bar impedisce un principio cattivo.
Nessuno omosessuale può gridare all’omofobia se la coscienza di un credente obietta a un suo gesto lesivo del proprio credo, rifiutarsi di farsi calpestare dall’imposizione ideologica dell’omosessualismo è un diritto costituzionale di ogni americano e tutti i cittadini, omosessuali compresi, sono portatori di diritti in quanto persone. Non godono di diritti invece le scelte ideologiche che ledono la coscienza altrui.
La prossima udienza del caso Miller è fissata per giugno. L’avvocato di Cathy – Charles Limadri, presidente del Freedom of Conscience Defense Fund di Rancho Santa Fe, in California – ha già annunciato che chiederà l’archiviazione in ragione della forza inappellabile del parere del giudice Lampe. È purtroppo prevedibile che non sarà così.
Marco Respinti
Uno dei racconti meno citati e più belli dello scrittore e filologo inglese J.R.R. Tolkien (1892-1973) s’intitola “Foglia” di Niggle. Datato 1938-1939, fu pubblicato per la prima volta nel 1945. Un pittore, Niggle, dipinge una foglia; il quadro cresce, cresce, diventa un albero maestoso, poi una selva, così ricca di particolari, talmente lussureggiante di dettagli che il dipinto non viene mai terminato. Sembra il paradosso della Mappa dell’Impero in scala 1:1 contenuto nel frammento Del rigore della scienza, l’ultimo di Storia universale dell’infamia, pubblicato per la prima volta nel 1935 e poi riveduto e corretto nel 1954 dallo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges (1899-1986). Solo che dove in Borges il paradosso esemplifica la vanità di un’impresa prometeica, in Tolkien l’opera che cresce come cosa viva è l’allegoria dell’infinito. Giunse poi il giorno in cui a Niggle toccò di partire per l’ultimo viaggio; pensava di avere sprecato l’esistenza rincorrendo un mito incapacitante e invece, premio per una vita spesa bene, gli fu concesso di entrare nel proprio stesso quadro, di viverlo, di spaziare per sempre nella sua infinità. L’universo in cui viviamo è come il quadro di Niggle più la Mappa dell’Impero, ma concreti, meravigliosi, stupefacenti, sorprendenti, e noi già li abitiamo.
Lo testimoniano una volta in più i Premi Nobel 2017 per la Medicina e per la Fisica. Il primo è stato assegnato lunedì 2 settembre dal Karolinska Institutet di Solna, a pochi chilometri da Stoccolma, in Svezia, ai ricercatori statunitensi Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young scopritori dei meccanismi che presiedono ai ritmi circadiani degli esseri viventi. Il secondo è stato conferito martedì 3 dall’Accademia reale svedese delle scienze di Stoccolma ai ricercatori, pure statunitensi, Kip Thorne, Barry Barish e Rainer Weiss per la conferma (grazie ai rivelatori americani Ligo e all’italiano Virgo) di quanto previsto dalla teoria generale della relatività formulata più di un secolo fa dal fisico tedesco naturalizzato prima svizzero poi statunitense Albert Einstein (1879-1955): le onde gravitazionali esistono.
I ritmi circadiani del Nobel per la Medicina sono le cadenze che regolano le abitudini fisiologiche dei viventi nell’arco delle 24 ore a fronte dell’alternanza luce/buio. Tutto è iniziato con l’astronomo francese Jean Jacques d’Ortous de Mairan (1678-1771), notissimo per gli studi sul ghiaccio e sulle aurore boreali, ma anche con la nostra pochezza di uomini comuni. Infatti, in pieno secolo dei lumi, d’Ortous de Mairan si accorse che le piante di mimosa si aprono in direzione del Sole durante le ore di luce per poi richiudersi la notte; ma noi tutti siamo affascinati sin da che eravamo piccoli dalle distese estive dove biondeggiano i girasoli che il dì sorridono paffuti al Sole e al tramonto si congedano per il “sonno” del giusto. Da tempo si è scoperto che il regolatore di questi meccanismi è un gene, detto period; ai tre Nobel statunitensi è dunque toccato il merito di avere individuato il modo in cui esso agisce codificando una proteina che, accumulandosi negli organismi di notte per poi diminuire il dì, produce i suddetti comportamenti biologici.
Le onde gravitazionali del Nobel per la Fisica sono invece le “increspature” prodotte dallo scontro fra masse enormi, per esempio due buchi neri, nel continuum spaziotempo, vale a dire quel modello matematico in cui lo spazio tridimensionale e il tempo non sono dimensioni separate bensì interconnesse e dinamiche che si allungano e si accorciano. Assai flebili, per essere registrate le onde hanno dovuto attendere l’avvento di apparecchiature sofisticatissime.
Ora, parrebbero entrambe mere questioni per specialisti. In parte lo sono. Però in parte piccola. In parte grande sono invece finestre su un universo incredibile, letteralmente: cioè un universo a cui verrebbe istinto di non credere tanto è fantastico.
Da un lato la ricerca empirica sulla fisiologia – se vogliamo quanto di più materiale e meccanico esista – rivela che tutto è regolato. Che il corpo dei viventi segue uno schema preciso. Che l’essere umano è presieduto da una biologia raffinatissima. Che c’è un ordine meticoloso. Che c’è una natura per cui la realtà, e in essa principalmente l’uomo, è quello che è senza che nessuno possa farci niente. Che tra universo (il Sole) e l’uomo, apparentemente diversissimi, c’è invece una corrispondenza intima che nemmeno il più sofisticato dei calcolatori potrebbe programmare. Come si legge nelle motivazione del Nobel, «la vita sulla Terra è adatta alla rotazione del nostro pianeta», esempio rotondo di simbiosi universale, di reciprocità perfetta, il fine-tuning supremo accordato sul grande diapason cosmico.
Dall’altro le onde gravitazionali tengono viva la memoria di eventi colossali, anche passati, anche delle origini. «La prova che le collisioni fra buchi neri producono onde gravitazionali fa sperare pure che gli scienziati trovino onde gravitazionali provenienti dai primi istanti dell’universo», afferma Jeff Zweerink, astrofisico dell’Università della California di Los Angeles. Infatti, se le onde gravitazionali confermano la relatività einsteniana, confermano anche il modello cosmologico postulato dalla relatività einsteniana che è quello di un universo che ha avuto un inizio. E davanti a un universo che ha avuto un inizio, la ragione empirica si ribella all’ipotesi che non esista un iniziatore. Fra orologio biologico e onde gravitazionali, insomma, ogni secondo che passa la parola “caso” si allontana sempre più dal nostro habitat.
Marco Respinti
Esce il 22 ottobre in contemporanea mondiale, s’intitola Asterix e il papiro di Cesare ed è la prima avventura degl’irriducibili galli targata Panini Comics dopo la staffetta con Mondadori, oltre che la seconda firmata Jean-Yves Ferri e Didier Conrad con la benedizione di papà (di Asterix), Albert Uderzo. Il gioco, elementare come tutte le cose geniali, è quello d’inserire l’historia dentro la story pescando a piene mani nientemeno che nel De bello gallico e sfidare il lettore sul confine dell’una e dell’altra. Per il futuro, Panini ripubblicherà l’intera serie classica (già pronti i primi 12 titoli) restaurando alcuni elementi (onomatopee, note, dettagli minori) andati perduti, epperò ancora non siamo a “La Grande Collection”, sontuosa, che il tandem Hachette e Les Éditions Albert René hanno realizzato in Francia riproponendo tutto in uno splendore mai visto. Una chicca però c’è anche da noi: è Asterix e i pitti edizione de luxe, il formato gigante dell’albo uscito nel 2013 con bozzetti e contenuti speciali, strepitoso. La pozione magica dell’immortalità di Asterix? Quello di non avere mai concesso le proprie grazie alla massificazione, nonostante il cinema abbia tentato di strappargli l’anima e la sporca “operazione gadget” di stritolarlo. A 56 anni questo mese, Asterix resiste ancora e sempre all’invasore (l’incontinenza del comics da edicola), e lotta con noi contro l’assuefazione da fumetto adulterato per il diritto a una ricreazione che è come l’avvenente Falbalà e un pregiato vinello gallico. Gusto dell’attesa e arte del centellinare.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
Arriva il primo «Asterix» targato PaniniComics e sfida Cesare in persona
in Libero [Libero quotidiano], anno L, n. 250, Milano 20-10-2015, p. 13
Delia è una bellissima donna di 28mila anni. Stiamo parlando di uno dei più importanti ritrovamenti paleontologici del mondo, avvenuto in Italia nel 1991. Fu allora che nella grotta-santuario di Santa Maria di Agnano, sulle colline fuori Ostuni, in Puglia, l’équipe del professore Donato Coppola, docente nell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, scoprì una sepoltura unica: lo scheletro praticamente completo e in ottimo stato di una giovane donna incinta di otto mesi. Anche il piccolo scheletrino che stava nel suo ventre è quasi completo e in condizioni eccellenti. Oggi riposano entrambi, la madre accanto al figlio, al 15 di Via Cattedrale a Ostuni, cioè nell’ex monastero carmelitano di Santa Maria Maddalena dei Pazzi, annesso alla chiesa di San Vito Martire, che accoglie il Museo di Civiltà Preclassiche della Murgia Meridionale (Coppola ne è il direttore scientifico), una struttura che gestisce pure il Parco Archeologico e Naturalistico di Santa Maria di Agnano.
Nel Museo, Delia e il suo piccolo sono adagiati in una teca trasparente come le principesse buone delle fiabe. Quando li trovarono, la madre, reclina sul lato sinistro, le gambe rannicchiate e una mano sotto la guancia, pareva dormire. La mano destra la poggiava sul ventre, proteggendo e coccolando la creatura che era in lei. La loro famiglia li ha sepolti così, componendoli in quel gesto che Delia avrà compiuto d’istinto mille volte e che nel silenzio della tomba diventa un quadro indelebile. Per questo gli scienziati non se la sono sentita di perderlo per sempre, realizzando prima un calco che riproduce il ritrovamento esatto (le ossa dei due corpi non più rette da muscoli e fibre che si accatastano mescolandosi tra loro, con i monili e con la terra) e poi un vivido rendering tridimensionale di come potessero davvero essere quella mamma e quel suo pancione.
Affiancati nella teca mettono i brividi. Lei, probabilmente ventenne, alta, circa 1,70 mt., e il piccolo invece così minuscolo. Eppure sono uguali: il feto è solo un uomo in miniatura. Chi ne è rimasto profondamente colpito è il popolare conduttore televisivo Alberto Angela, che ne ha voluto parlare dettagliatamente nella puntata di Ulisse, il piacere della scoperta trasmessa sabato 10 ottobre su Rai3.
La storia della madre paleolitica lo ha affascinate tanto che in un post su Facebook ha scritto: «Non si riesce a nascondere una commozione intima davanti a questa mamma e il suo piccolo (o la sua piccola) che il destino ha unito nei millenni. Non si conoscono al mondo resti di una donna incinta così antica». E in un altro, commentando una fotografia dello scheletrino: «La ragazza è morta per cause sconosciute all’ottavo mese di gravidanza e i ricercatori hanno rinvenuto il suo piccolo ancora in grembo. La cosa che mi ha impressionato di più nel racconto della scoperta è che al momento di estrarre delicatamente le minuscole ossa del feto il prof. Coppola si è accorto che delle falangi della mano (non esposte nella teca) erano ancora a contatto con le orbite, segno che il piccolo aveva i “pugnetti” davanti agli occhi. Come non sentire un istintivo senso di protezione nei suoi confronti anche a 28 mila anni di distanza?».
Quante volte l’abbiamo sentita la storia dei piccoli che nel grembo materno fanno i “pugnetti”, si sfregano il viso, sbadigliano e pure si scansano se c’è un fastidio, un pericolo? Quante volte l’abbiamo sentita la storia dei bimbi che nel ventre materno provano dolore se dolore viene loro procurato? Come si fa a pensare che quello vivo nel ventre di una madre sia solo un grumo di cellule senza diritti che si può abortire a piacimento? Delia e il suo piccolo sono Homo sapiens, cioè uomini esattamente come noi; che grande insegnamento ci proviene da quei nonni paleolitici. Ma non è finita.
Nella tomba Delia portava dei bracciali e un copricapo, una specie di cuffia, fatti di centinaia di conchiglie. Cipree, ovvero quei gasteropodi piuttosto comuni che hanno forma globosa, lucida e porcellanacea, un’apertura longitudinale tra due labbra accentuate e un manto sovente maculato. Ricordando l’organo genitale femminile, per le culture arcaiche sono simbolo di maternità e quindi archetipo della vita. Lo stesso dicasi per l’ocra, di cui è intrisa la “cuffia” di Delia: il suo colore è rosso come il sangue, altro emblema della vita. Delia si chiama così perché Coppola, il suo scopritore, l’ha voluta chiamare come la moglie (da quando hanno divorziato la “madre antica” si chiama freddamente “Ostuni 1”, ma noi tiriamo diritto).
Quel copricapo ricorda quello di una famosa statuetta, la Venere di Willendorf (oggi nel Museo di storia naturale di Vienna), che ha più o meno l’età di Delia. A statuette così si è voluto far dire di tutto: la Dea Madre, il matriarcato originario e il sacro femminino in un pot-pourri di parole in libertà che dall’archeologia seria passano con nonchalance al trash più ridicolo. Invece quelle micro-virago con seni esagerati, ventri gonfi e steatopigia spavalda sono state scolpite da ignoti Botero preistorici “solo” per celebrare il culto e il rito della femminilità generosa, della maternità esuberante e della vita prorompente (quindi delle nozze feconde e della famiglia). Il primo segno attraverso cui si mostra (cioè si comunica e si trasmette) la peculiarità dell’Homo sapiens è la relazione simbolica, un atto di carattere spirituale che l’arte manifesta e che la religione (religio come “legame” ovvero ancora “simbolo”) costituisce. Che fa, cioè, l’uomo appena viene al mondo, all’alba dei tempi oppure oggi? Disegna, colora, scolpisce, incide e poi scrive (che è un altro modo di disegnare) per dire ai suoi contemporanei (orizzontalmente) e ai posteri (verticalmente) ciò che merita di essere detto. Testimonia, insomma, il grande mistero che lo circonda, lo affascina e lo costituisce. Uomini che pregano, madri gravide e scene sociali di carattere propiziatorio oppure apotropaico sono la prima forma di comunicazione umana, l’arte dell’Homo sapiens. Gesti sacrali, sacri, religiosi.
Cosa ci fanno le conchiglie vulvari della nascita e l’ocra sanguigna della vita là nel buio della morte di Delia e del suo piccolo? Dicono, anzitutto a Delia e al suo piccolo, poi a tutti (dal suo clan di 28mila anni fa fino a noi nell’anno del Signore 2015) che la vita continua dopo la morte, addirittura che c’è la promessa di una nuova nascita oltre il sepolcro. Anche per i bimbi morti ancora nel grembo della madre. L’umanità della vita che sta nel ventre materno e la speranza “a tentoni” della risurrezione sono cose antiche quanto l’uomo, che l’uomo si porta dentro ‒ appunto ‒ le ossa perché così l’uomo è stato costituito da chi lo ha costituito. Per questo Delia non ha paura e, serena, conforta il suo piccolino. È il secondo grande insegnamento che ci viene da quella famiglia di quasi 300 secoli fa. La grotta di Santa Maria d’Agnano è stata un luogo di sepoltura e di preghiera dal paleolitico sino al Medioevo cristiano, quando divenne una chiesa rupestre. Dei molti affreschi che un tempo l’adornavano, ne è rimasto solo uno. Quello cinquecentesco della Vergine Maria che stringe in braccio Gesù bambino, contornati dagli angeli e adorati da un orante in ginocchio. Delia e il suo piccino dormivano lì.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 15-10-2015
Roger Scruton da filosofo a compositore:
nel suo nuovo saggio indaga la verità attraverso i suoni.
Ricupera T.S. Eiot e (da destra) gli studi di Theodor Adorno:
«L’arte è la colonna del pensiero conservatore»
S’intitola Comprendere la musica. Filosofia e interpretazione (Cantagalli, Siena, pp. 356, euro 19,00) e compendia le pagine forse più rotonde che all’argomento dedica uno dei pochi pensatori veri del nostro tempo, l’inglese Roger Scruton, classe 1944. In più è esattamente quello che promette. Una lezione dotta (non tutto è sempre per tutti, Scruton ne è convinto da sempre) sulla possibilità di scandagliare con ragione e sentimento quel particolare linguaggio della bellezza che è la musica. Una sfida, insomma, a sopravvivere oggi tra la Scilla del relativismo muto (tutto è solo gusto) e la Cariddi del dogmatismo cieco (tutto è chiacchiere e distintivo).
Scruton sa peraltro come fare. La sua biografia recita: «accademico, curatore, editore, avvocato, giornalista, romanziere e compositore». Un persistente tema del suo lavoro è il suo tentativo di comprendere e difendere le conquiste della cultura occidentale. Comprendere la musica corona un trittico d’indagini auree svolte tra i capolavori dell’arte figurativa non meno che tra piazze e giardini ben temperati (La bellezza. Ragione ed esperienza estetica, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 2011), così come nel bello che coincide con il buono dei cibi e soprattutto dei vini (Bevo dunque sono. Guida filosofica al vino, trad. it. Cortina, Milano 2010). Del resto è un “addetto ai lavori”; oltre che maestro di logica e di estetica, Scruton è infatti anche un compositore affermato, autore di tre libretti di opere, due dei quali musicati e più volte eseguiti in pubblico: l’atto unico The Minister e Violet, in due atti.
Da quattro decenni l’originalità è il suo marchio: dalla politica che non teme di apparire reazionaria alla difesa dell’“indifendibile” (il fumo, la caccia), dall’eros (la perversione è l’impadronirsi degli altri) alle polemiche (gli animali hanno i diritti che stabilisce l’uomo, tra cui quello di essere prede), dall’apologetica dell’Occidente alla ridefinizione politicamente scorretta dei suoi valori fondanti; come quando dice che l’obbedienza è necessaria alla libertà. Perché in fin dei conti la sua è tutta una grande crociata per l’ordine multiforme contro l’uniformità del caos (per lui letteralmente satanico), nella convinzione schietta che, pur tra ombre e dubbi (si definisce un pessimista), esiste sul serio quella cosa che il nominalismo liberal canzona e che invece in Comprendere la musica è l’ultima parola dell’ultima pagina: «verità».
Prof. Scruton, colpisce che il suo libro finisca con quel vocabolo… In queste sue pagine la verità ha il “suono della musica”, che lei spinge a riscoprire. Cosa significa nell’epoca del rumore?
«Significa insegnare alle persone a distinguere i toni dai suoni, e quindi i suoni dai rumori. La musica fa appello all’immaginazione e ci offre compiutamente tutta la propria gestualità solo in un mondo gravido di silenzi. Uno spazio, questo, in cui ci si deve addentrare per ricrearsi, non per distrarsi. Oggi il rumore si è travestito da musica, il volto della musica si è nascosto dietro una maschera e questo ci ha sottratto la percezione stessa di ciò che la musica è davvero. Occorre allora ricomprendere daccapo quel caleidoscopio delle immagini che ci chiama dal silenzio».
Nella musica (come nell’arte) è tutto gusto personale o vi sono parametri oggettivi di significato, di bellezza e di armonia che si possono insegnare, imparare e dunque trasmettere?
«Indubbiamente esistono dei parametri, ma non tutti sono oggettivi. Il loro è un richiamo per affinità e per sintonia; i parametri artistici sono un invito ad abbandonare la distrazione per concentrarsi su ciò che nella musica vi è di reale e di oggettivo».
Cosa significa comporre musica alta in un’epoca di banalità?
«Come in tutte le cose umane, bisogna prendere in mano la vita e trarne il meglio per sé. Redimere cioè la propria solitudine. Creare attraverso le proprie parole e le proprie attività artistiche quella comunità di amicizia ideale (opposta cioè all’utopia) cui si aspira (senza per ciò perdersi nei sogni) da cui dipende il proprio consolamento. L’arte è sempre stata questo, e per dare significato all’opera che si genera è sufficiente trovare due o tre persone che entrino in sintonia profonda con essa».
Il suo libro si chiude con una esortazione – un capitolo straordinario… ‒ a ristudiare Theodor Adorno, il marxista tedesco nemico giurato di un concetto che le è caro, quello di autorità…
«Lo consiglio come critico della musica popolare, intesa come parte della cultura di massa e del regno del kitsch. Ma la sua critica andrebbe intesa con lo spirito dell’Antico Testamento, da cui comunque deriva: ripudio dell’idolatria e riaffermazione dell’antichissima distinzione tra veri e falsi dèi. Ora, in Adorno il problema è l’impianto marxista che individua il dio vero nell’utopia di una libertà senza regole e quello falso nel cosiddetto “consumismo”. Ma la verità del suo preoccuparsi per il declino del gusto popolare resta, pur se basato su premesse sbagliate».
Si tratterebbe di una provocazione, insomma …
«Il poeta T.S. Eliot ha svolto critiche analoghe pressoché nei medesimi anni, ma da posizioni culturali diametralmente opposte. Adorno era di sinistra, Eliot di destra: e questo è bastato a garantire a uno l’influenza che all’altro è invece stata preclusa».
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
«Faccio musica per redimere la mia solitudine»,
in Libero [Libero quotidiano], anno XLIX, n. 224, Milano 21-09-2014, pp. 1 e 25
Matthew Alderman is a sacred artist designing and working today, in our world, with a profound and beautiful taste that really seems to belong to another age. That is how he effectively shows the importance of the via pulchritudinis, the “way of beauty” that approaches God, knowing Him and loving Him, by means of the road that the reflection of His splendor, full of meaning, traces among the things of the world and in history, impelling man the artist to imitation.
Matthew Alderman è un artista sacro che disegna e realizza oggi, nel nostro mondo, con un gusto profondo e bello che davvero parrebbe appartenere ad “altri tempi”. È così che egli dimostra efficacemente l’importanza della via pulchritudinis, vale a dire la “via della bellezza” che giunge a Dio conoscendoLo ed amandoLo attraverso il cammino che il riverbero colmo di significato del Suo splendore traccia tra le cose del mondo e nella storia, spingendo pure l’uomo-artista all’imitazione.
Con Alderman si comprende bene poi un’altra cosa importante: ovvero che la categoria del bello e del buono, cioè del bello colmo di significato che eleva a Dio, non è peculiarità solo di un determinato stile artistico o architettonico, né tantomeno di un unico un tempo storico, purtroppo inevitabilmente passato. Il bello artistico è cioè possibile, come Alderman mostra, hic et nunc, ancora oggi, e questo attraverso stili che uniscono – con grazia e gutso, miusra e intelligenza – sia la tradizione sia l’innovazione, sia il talento individuale sia la storia dell’arte nel suo sontuoso complesso. È possibile cioè essere tradizionali vivendo nel tempo moderno , e non soltanto perché si riproducono pedissequamente stilemi antichi. La bellezza, come la verità, è infatti una tradizione: si muove immutabile nel tempo per modificare il tempo stesso pur rimanendo sempre se stessa anche quando assume nuove forme espressive la cui legittimità è data proprio da questo inscindibile “cordone ombelicale” con ciò che è permanente , e persino ‒ nel suo senso teologico essenziale e fondativo ‒ non negoziabile.
Matthew Alderman, statunitense, laureato all’Università Cattolica Notre Dame di South Bend, nello Stato dell’Indiana, è un illustratore specializzato in arte sacra, architettura ecclesiastica e arredamenti liturgici. Scrive per diverse pubblicazioni cattoliche, specializzate e non, quali Sacred Architecture, First Things, Antiphon: A Journal of Liturgical Renewal e The Living Church, periodico dell’omonima fondazione anglicana fortemente filocattolica.
Le sue realizzazioni grafiche e artistiche fanno oggi parte delle collezioni di mezzo mondo, dalla California a Singapore, dalla Spagna all’Australia.
Nel 2010 Alderman ha realizzato 15 illustrazioni a tutta pagina per l’importante edizione del Missale Romano Riveduto pubblicato dalla Liturgy Training Publications di Chicago. Nel 2011 ha realizzato oltre 50 illustrazioni per i messalini domenicali e quotidiani editi nel Regno Unito da HarperCollins. E nel 2013 ha collaborato con il colosso editoriale cattolico statunitense FAITH Catholic (che negli Stati Uniti edita ben 29 pubblicazioni cattoliche diocesane) celebrandone il decimo anno di attività attraverso immagini e illustrazioni spesso a forma di trittico “come si usava un tempo”.
Oltre a immagini sacre, Alderman realizza pure stemmi araldici, blasoni, sigillo e stendardi per scuole, diocesi, personale ecclesiastico e semplici privati, e talvolta mette mano anche a soggetti artistici “laici”. In questa veste, nel 2013 ha disegnato il nuovo stemma dello Josephinum, di Columbus, in Ohio, ovvero l’unico collegio pontificio che non sorge a Roma.
Alcuni esempi della bellezza e della profondità dell’arte di Alderman si possono ammirare al link sottostante, ma tutte le sezioni in cui si articola il sito Internet dell’artista americano sono colme di immagini, studi e realizzazioni di grande potenza e suggestione.
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