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La Chiesa madre della comunione anglicana, la Chiesa d’Inghilterra, si appresta a consacrare, il 26 gennaio, il suo primo vescovo donna. È uno strappo clamoroso, di per sé naturale dopo l’ordinazione al sacerdozio anglicano della prima donna nel 1994, ma comunque dirompente. Con questo gesto, la Chiesa anglicana inglese – meglio: quel che resta della Chiesa Anglicana inglese – rende il solco che la divide dall’ortodossia incolmabile.
Le resistenze sono state infatti forti, ha riportato il quotidiano cattolico italiano Avvenire, e diversi i sinodi in cui la proposta è stata respinta, negli ultimi anni a motivo della contrarietà dei rappresentanti dei laicato anglicano. Solo con l’arrivo del nuovo arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, la situazione si è sbloccata in senso “aperturista”. Il passo è storico per il ruolo della Chiesa d’Inghilterra all’interno dell’orbe anglicano e anche per l’entità dello “strappo” che rappresenta: strappo nei confronti della tradizione apostolica e della storia plurisecolare della stessa Chiesa d’Inghilterra, che complica il dialogo ecumenico soprattutto con la Chiesa cattolica e le Chiese orientali. Il nuovo vescovo si chiama Libby Lane, ed è stata assegnata nella sede di Stockport.
Madre di due figli, 48 anni, Lane ha studiato all’università di Oxford prima di entrare nel seminario di Cranmer Hall, a Durham, ed è sposata con un altro sacerdote anglicano: i due sono stati ordinati insieme. Viva soddisfazione per la sua nomina è stata espressa anche dal premier inglese David Cameron, che da sempre ha caldeggiato questa svolta nel mondo anglicano. Alla faccio del poltiico conservatore…
L’annuncio è stato dato ufficialmente da Downing Street, dopo l’approvazione della regina. Libby Lane sarà consacrata il prossimo 26 gennaio nella Cattedrale di Yor, ma non entrerà nella Camera dei Lord (come spetta di diritto ai vescovi anglicani) perché la sua è una sede episcopale suffraganea, insomma junior.
Adorava l’Italia, da noi era di casa ed è stata un’eccezionale italianista pur di fatto essendo autodidatta. Tutt’uno con il Warburg Institute dell’Università di Londra, la mecca degli studiosi dei secoli XV e del XVI dove ha insegnato per un quarantennio, ha lasciato pietre miliari quali Giordano Bruno e la tradizione ermetica (che quest’anno compie 50 anni e non li dimostra), L’arte della memoria (1966 in edizione originale) e L’illuminismo dei Rosa-Croce (1972). Sì, è Frances A. Yates (1899-1981); e finalmente la sua storia la svela Marjorie G. Jones in Frances Yates e la tradizione ermetica, pubblicato ora in italiano da CasadeiLibri di Genova (pp. 302, euro25,00).
La Jones vive a Filadelfia, ha studiato Legge alla Rutgers di Newark (Stato di New York), ha lavorato per 20 anni nel settore bancario, poi ha mollato tutto, è tornato a scuola, si è innamorata della Yates e, con una tesi su di lei, si è laureata in Storia alla New School della Grande Mela. Oggi insegna l’arte di Clio e questo è il suo primo libro, uscito negli USA nel 2008 e già tradotto in giapponese nel 2010. La sua passione è la storia al femminile, quella che Oltreoceano viene persino chiamata “herstory” (perché l’aggettivo his, involontariamente contenuto nel sostantivo history, sa troppo di maschio…). Surreale, certo; ma solo con una Jones così si riesce a vedere la Yates oltre i panni pur sontuosi della studiosa, riguadagnandone pure le forme di donna ‒finché le due sagome si sovrappongono
perfettamente.
Nessuno come la Yates ha saputo convincerci (e allora era autentico pionierismo) che nel Rinascimento a rinascere furono soprattutto il misticismo neoplatonizzante, le arti teurgiche e l’esoterismo, e che dunque, lungi dall’essere solo il rifiuto della cattolicità dei “secoli bui”, l’alba del mondo moderno è stata una miscela, potenzialmente esplosiva, tra illuminatismo e illuminismo. Non cioè la negazione del rapporto tra uomo e Dio, ma un mondo diverso di pensarlo. Ed è qui che la studiosa si è fatta tutt’uno con l’oggetto studiato.
Figlia di un anglicano arciconservatore, la Yates mescolò quel certo scetticismo coltivato sin da piccola a una cultura anglicana di fatto cattolica che amava il ritualismo e rigettava il puritanesimo “nazista” protestante. La sua vita e la sua carriera hanno incrociato le strade di più di un talento, dal rinascimentalista Edgar Wind (1900-1971), che la reclutò al Warburg Institute ammaliato dai suoi primi e innovativi studi su Giordano Bruno (1548-1600), allo storico austriaco dell’arte Ernst Gombrich (1909-2001), per non voler che solo accennare degl’influssi virtuosamente subiti da personaggi purtroppo dimenticati come il fisico francese Pierre Duhem (1861-1916). Ma questa grande messe di riferimenti e segnacoli ha sempre flirtato con lo spaesamento più angosciante. Studiando l’anima ermetica di Bruno (agli albori della carriera) o (alla fine della vita) il cabalismo cristianizzante di John Dee (1527-1608) è stato come se la Yates (la Jones lo intuisce benissimo) volesse gridare al mondo la fragilità di una esistenza in bilico, perduta oramai la rassicurante condizione dell’Inghilterra vittoriana e in costante ricerca di un nuovo approdo, di un ubi consistam, di un criterio confortante. Il mondo visibile alla Yates, però, soprattutto dopo i disastri delle guerre mondiali, non è stato capace di offrire nulla di veramente alternativo alla precarietà, e così lei (e chissà quanta gente come lei) non è mai riuscita a sganciarsi da quel loop che, partendo dall’eroismo eretico del Rinascimento, sapeva inesorabilmente tornare sempre e soltanto lì. La Yates percorse insomma la tradizione ermetica come se cavalcasse alla cerca del graal: l’armonia capace di risanare il mondo in frantumi, ma costantemente sfuggente a causa dei peccati dell’uomo. Una donna perfettamente novecentesca. Coltissima e per anni fumatrice impenitente, priva di padri e persino di un uomo da amare, dilacerata e nostalgicamente bella come un cammeo preraffaelita. Con un lascito scientifico impagabile.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
La bella accademica autodidatta che viveva immersa nell’occulto
in Libero [Libero quotidiano], anno XLIX, n. 305, Milano 27-12-2014, p. 25
Per i postumi di un incidente motociclistico occorso in Gran Bretagna, e dopo lunghe ore passate in sala operatoria, il 20 luglio è scomparso Anthony Joseph Palmer, vescovo della Comunione delle Chiese Evangeliche Episcopali (Ceec), fondata nel 1995 e aderente alla Comunione Anglicana. Nato nel Regno Unito, cresciuto in Sudafrica, ex assicuratore medico, sposato a un’italiana, convertito adulto, “Tony” Palmer (così era noto) è stato un grande amico di Papa Francesco. Lunedì 28 luglio avrebbe dovuto esserci anche lui all’incontro “segreto” di Caserta con il Pontefice e il pastore Giovanni Traettino della Chiesa Evangelica della Riconciliazione.
La loro non era certo un’amicizia all’insegna di un irenismo oramai senza sapore. «Io capisco Tony Palmer perché ho vissuto lo stesso percorso», ha commentato don Dwight Longenecker, americano ex protestante ed ex anglicano, oggi sacerdote cattolico, e vera e propria “personalità” del web. «Cresciuto in una famiglia evangelica nordamericana, ho cercato la Chiesa storica e sono diventato anglicano. Questo passo mi ha avvicinato al cattolicesimo e ho finito per essere accolto nella piena comunione della Chiesa cattolica. Percorrendo questa strada, ho affermato tutta la pienezza della fede nella Chiesa cattolica e tutti gli aspetti positivi delle tradizioni evangelica e anglicana allo stesso tempo. Non ho negato gli aspetti positivi della mia ma diventando cattolico li ho affermati ancor di più». Aggiunge infatti sempre don Longenecker che «da un po’ di tempo oramai la vera divisione nel cristianesimo non è più tra cattolici e protestanti. È tra i cristiani che credono nella religione rivelata e quelli che credono in una religione relativa. La vera divisione è tra i progressisti che vogliono alterare la fede storica in base allo spirito del tempo e chi crede che lo spirito del tempo vada sfidato dalla verità eterna e immutabile del Vangelo cristiano. Coloro che credono in una forma relativa, progressiva e modernista del cristianesimo disprezzano l’elemento miracoloso della religione e pensano che la Chiesa debba adattarsi completamente ai bisogni della società moderna».
Il giovane Palmer era tra quelli che a Cristo ci credevano sul serio ed è così che ha incontrato il Papa. La Ceec di cui Palmer è stato un rappresentante di spicco è sorta all’interno del cosiddetto “movimento della convergenza”, che, a partire dagli anni 1970, ha portato un certo numero di protestanti conservatori degli Stati Uniti di tendenza evangelical, molti dei quali con uno stile di preghiera carismatico, a riscoprire la tradizione liturgica ed episcopale della Comunione Anglicana, diffondendosi poi in Europa grazie agli sforzi dell’arcivescovo missionario Robert L. Wise e in questo modo anche in Italia con la Comunità “L’Arca”, fondata a Todi proprio da Palmer.
Il vescovo anglicano e il Papa cattolico si conoscevano da tempo, ma per Palmer il momento forse più decisivo e incisivo è arrivato il 14 gennaio quando, in qualità di responsabile dell’International Ecumenical Officer della Ceec, lo ha ricevuto il Pontefice. Tra le molte cose di cui immaginiamo (e mai sapremo) si siano parlati, c’è stata anche la Charismatic Evangelical Leadership Conference, in programma per il febbraio successivo in Texas, sotto gli auspici di Kenneth Copeland, un famoso leader del movimento evangelical pentecostale Word of Faith. Palmer l’ha sicuramente illustrata, spiegata e commentata a Francesco; gliene avrà certamente sottolineato l’importanza, magari insistendo proprio sulla quasi unicità di un evento così. I dettagli saranno stati quel che saranno stati, ma la realtà di fatto che tutti hanno poi potuto vedere con gli occhi e ascoltare con le orecchie è che il vescovo anglicano e il Papa cattolico hanno deciso di provare a sfruttarla quell’occasione speciale. Come? Con un messaggio del Papa, la prima volta di un Papa cattolico alla grande kermesse dei protestanti pentecostali. Anzi, con un video registrato nella stanza del Papa a Santa Marta dall’iPhone di Palmer.
Un filmato casereccio, domestico, in cui il Pontefice balbetta un poco l’inglese e poi si fa sottotitolare, ma che importa? Quando l’anglicano Palmer ha preso la parola davanti agli evangelical, tutti lo hanno ascoltato come un fratello sincero. E Palmer di cos’ha parlato? Praticamente solo del cattolicesimo: dei carismatici cattolici italiani, della Chiesa Cattolica per intero, dell’antica amicizia con l’arcivescovo Jorge Mario Bergoglio, del Conclave che poi lo ha eletto al Soglio di Pietro, dell’emozione che ha provato nel vedere Papa quello che lui considera uno dei suoi tre padri spirituali, di sua moglie che ha riscoperto il cattolicesimo e dei loro figli educati in questa stessa fede. E subito dopo, quando nessuno se lo aspettava, Palmer ha annunciato l’impossibile, il video del Papa cattolico. La sala protestante lo ha ascoltato, attonita e ammutolita; qualcuno (d’importante, d’influente) ha poi addirittura deciso di convertirsi al cattolicesimo. E Papa Francesco ha parlato di nostalgia, un sentimento forte, fortissimo: il languore più profondo, lo struggimento viscerale, la mancanza strutturale di qualcosa, il senso dell’incompiutezza, il desiderio di un compimento profondo. Ai protestanti manca il compimento autentico del cristianesimo, e tanto loro quanto i cattolici soffrono per la mancata unità del corpo di Cristo. Con una parola spesa via smartphone in Texas, “nostalgia”, Francesco ha fatto più passi avanti di mille discorsi ecumenici, di mille dialoghi interreligiosi.
L’anglicano Palmer parlava del Papa con una reverenza e con una carità che molti cattolici hanno purtroppo scordato. Avevano un piano, Palmer e Francesco, le cui radici risalgono ai tempi in cui il vescovo anglicano avvicinò la Chiesa di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Lavorare per l’unità dell’unica Chiesa. Che è la nostalgia di una cosa bellissima, perduta e da riguadagnare, non un sogno futuribile aperto a qualsiasi sperimentazione. Diceva l’anglicano Palmer, lo diceva in faccia ai protestanti: «La protesta di Martin Lutero è finita. E la vostra?».
Marco Respinti
Pubblicato con il titolo
Palmer, l’anglicano che non voleva più protestare
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 28-07-2014
Ultima opera dello scienziato e filosofo della politica statunitense (ma oriundo tedesco) Gerhart Niemeyer (1907-1997), Within and Above Ourselves: Essays of Political Analysis è stato pubblicato (Intercollegiate Studies Institute, Wilmington [Delaware]) nel 1996 con introduzione di Marion Montgomery (1934-2002), uno dei grandi letterati “sudisti” del Novecento, studioso raffinato di Eric Voegelin (1901-1985), Flannery O’Connor (1925-1964), T.S. Eliot (1888-1965), Aleksandr Solzenycn (1918-2008). Lo stesso Niemeyer è stato allievo diretto, e quindi interprete attento, di Voegelin.
Quel suo ultimo libro annuncia sin dal titolo le cifre del pensiero del beato Giovanni di Ruysbroeck (1293-1381), mistico fiammingo del secolo XIV secolo di cui Niemeyer scelse parole a prima vista strane per battezzare un volume di analisi politica. “Dentro e sopra di noi”: queste, secondo Niemeyer, sono infatti le coordinate della vera filosofia politica intesa come ratio dell’organizzazione della civitas humana (per dirla con l’“economista dal volto umano” Wilhelm Röpke [1899-1966]). “Dentro di noi”, perché la politica è morale sociale e perché la civiltà si regge sull’intima connessione (non identità stretta) fra ordine interiore e ordine della res publica. “Sopra di noi”, perché l’ordine temporale è preceduto da un ordine spirituale che il primo può assecondare o contestare in radice, originando quindi da una la filosofia conservatrice e dall’altro l’opzione rivoluzionaria, ma mai ignorare.
Niemeyer si riconosceva nella prima, conosciuta, studiata e apprezzata negli Stati Uniti d’America (dove emigrò all’avvento del Terzo Reich). Il suo debito nei confronti di Voegelin è dichiarato. Niemeyer ‒ che a quasi novant’anni si mise a studiare la lingua italiana a Parma, riuscendo in tempo piuttosto breve a padroneggiarla discretamente ‒ è infatti stato uno dei massimi interpreti, analizzatori e continuatori delle speculazioni del grande studioso dello gnosticismo moderno, ai cui insegnamenti egli ha pure saputo unire le sapide lezioni desunte dalla filosofia classica e medioevale, dalla tradizione costituzionale britannica, dal pensiero del citato Solzenicyn e da quello di Albert Camus (1913-1960).
Within and Above Ourselves è una densa e significativa raccolta di saggi che si divide nelle quattro parti in cui la lettura niemeyeriana dell’indagine voegeliniana articola la “distinzione nell’unito” della vera filosofia. La prima prende in considerazione la natura, la storia, la fede e i rapporti che legano fra loro queste diverse realtà; la seconda indaga il quadrinomio Dio e uomo, mondo e società; la terza s’incentra sulle credenze dell’uomo e sulle strutture del suo vivere comunitario; la quarta s’interroga sulla pluralità delle culture e delle ideologie umane, nonché ‒ specularmente ‒ sulle concezioni di ordine che alla disgregazione del relativismo si oppongono con forza. Un vero testamento.
Niemeyer ha svolto per anni attività di analista politico per una serie d’istituzioni private e di organismi ufficiali del governo statunitense, scandagliando nei minimi particolari la mentalità dell’agire comunista ‒ sovietico in particolare ‒ per discernere con chiarezza nell’oscurità delle sue pieghe e dei suoi anfratti quel seme ideologico distintivo che ha fatto del marxismo-leninismo il vertice della Modernità politica. È certamente a uomini come lui che si deve l’atteggiamento “maccartista” e “goldwateriano” di una certa parte degli Stati Uniti ‒ e delle loro Amministrazioni politiche ‒, decisi a non fermarsi al contenimento del nemico sovietico, ma a puntare al suo completo annientamento militare ed economico in quanto (come dirà Ronald W. Reagan [1911-2004] negli anni 1980) «impero del male».
Alle analisi del comunismo «intrinsecamente perverso» (per riprendere una famosa espressione di Papa Pio XI [1857-1939 nell’enciclica Divini Redemptoris, del 1937]), Niemeyer ha dedicato volumi, tempo, sudore e passione nemmeno sognate dalle derisioni della “sindrome di Rambo” nordamericana in cui un po’ tutti, prima o dopo, cadiamo. Per lo studioso tedesco-americano, infatti, la base ultima e fondante della guerra senza quartiere in cui necessariamente l’Occidente doveva impegnarsi contro l’Est è stata di natura etica, filosofica e addirittura teologica. Una sorta di guerra di religione. Dicendo che il “maccartismo” e il “goldwaterismo” sono stati tagliati dal tessuto niemeyeriano non si getta affatto discredito su un pensatore di alto rango quale è stato l’autore di Within and Above Ourselves, ma si conferisce dignità nuova a due fenomeni ‒ epifanie di una “fede” certa ‒ tanto importanti quanto travisati. In Niemeyer, l’intransigenza dell’analisi filosofica si accompagnava a una dolcezza di animo davvero singolare.
Un provincialismo culturale di antica origine ideologica ha per decenni permesso che autori e commentatori di prima grandezza come Gerhart Niemeyer scomparissero senza quasi batter colpo nel nostro Paese. Filosofo dell’Essere e dell’Ordine dalla straordinaria fecondità intellettuale, lo studioso tedesco-americano meriterebbe davvero ‒ anche post mortem ‒ di entrare in dialogo con certi stantii intellettuali di professione di casa nostra.
Niemeyer era un gran cultore dell’opera dello scrittore, critico letterario e apologeta irlandese anglicano C.S. Lewis (1898-1963). Negli Stati Uniti, Niemeyer riscoprì (dopo un abbaglio “socialistico” di gioventù) la fede cristiana e la prese tanto sul serio da diventare diacono (sposato, con figli) della Chiesa episcopaliana. Ricordo ancora benissimo la sera in cui, in un ristorante di cucina tradizionale lombarda, nel cuore della mia Milano, città in cui si trovava per conferenze, Niemeyer mi comunicò, con le gote un poco arrossate, di essersi convertito al cattolicesimo. Aveva 86 anni. Brindammo con dell’ottimo vino.
Marco Respinti
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