Un terzo dell’elettorato Repubblicano sostiene entusiasticamente Donald Trump (così RealClearPolitics), tutti gli altri lo temono come il fuoco correndo per di qua e per di là nella casa in fiamme. Eppure basterebbe fermarsi, mirare e prendere a secchiate d’acqua Trump, perché l’incendiario è lui.
Trump con il GOP (il Grand Old Party, l’altro none del Partito Repubblicano) c’entra come i cavoli a merenda. È un drittone, questo sì; sa fare bene i calcoli, sa come mascherarsi, sa inebetire di retorica bombastica, ma fare il leader di un partito conservatore, ancor più sedere alla Casa Bianca, è un’altra cosa. Bene inteso, visto che oramai a questo mondo tutto è possibile magari Trump ce la farà: diventerà l’uomo forte del GOP e alla fine persino pure presidente degli Stati Uniti. Ma a quel punto non resterà che ritirarsi in una capanna del Wyoming, mandare al macero biblioteche di studi e vivere del proprio e di ricordi. Perché come può il Paese che ha generato presidenti come George Washington e Thomas Jefferson, Andrew Jackson e Abraham Lincoln, Theodor Roosevelt e Woodrow Wilson, Franklin D. Roosevelt e Dwight D. Eisenhower, John F. Kennedy, Ronald Reagan e George W. Bush Jr. farsi guidare da un incantatore di serpenti? Gli Stati Uniti hanno avuto presidenti buoni, cattivi, ottimi e pessimi, ognuno compili la propria lista, ma può il Paese comunque più importante del mondo eleggere, dopo il primo presidente nero della sua storia, il suo primo presidente pagliaccio? Ce lo immaginiamo Trump nello studio ovale a vendere il tre per due a reti unificate, ad arringare i consessi internazionali con la prosa della televendita, a gareggiare in faccine e smorfie con Matteo Renzi sul proscenio internazionale, a comandare le truppe contro il terrorismo come un pallone gonfiato del wrestling, a sorvegliare le frontiere nei panni del fiero alleaten Galeazzo Musolesi, a sfornare quantità industriali di ciambelle di pongo e vagonate di panini di moplen con cui inondare il mondo per far “tornare l’America grande”?
Trump con il GOP, con il GOP di oggi non c’entra, e men che meno c’entra con il Paese che, faticando, sudando, sputando sangue, dolorando, ha finito oggi per indentificarsi, almeno elettoralmente, con il GOP. In tempi più chiari e distinti, mica neanche troppi anni fa, quel Paese si chiamava “Right Nation”, mai esistette nome più bello. Intraducibile, sostanzialmente vuol dire “il Paese giusto”, la “gente giusta”, la gente che ha ragione perché quello è suo diritto, la Destra che non è una parte del Paese ma l’unico vero “partito della nazione” possibile perché custode e alfiere delle ragioni stesse del Paese, del suo spirito, del suo essere, della sua tradizione, della sua essenza, anche quando è minoranza, la sanior pars, i veri aristoi, i migliori, gli autentici aristocratici nello spirito e nell’integrità anche se pur solo contadini, farmer, cowboy, pionieri, popolani, redneck.
La “Right Nation” comincia negli Stati Uniti quando gli Stati Uniti ancora non c’erano. Fonda gli Stati Uniti quando di Stati Uniti ce n’è bisogno e poi li plasma, li guida, li difende, li critica alla bisogna, li rigenera. A volte scende nelle catacombe, è costretta a farsi fiume carsico, deve riparare nella foresta di Sherwood, ma poi torna, sempre, se non altro non scompare mai. Dopo la tragedia della guerra fratricida che ha insanguinato il Paese tra il 1861 e il 1865 la “Right Nation” ha penato molto e molto vagato. Tra le tante sue sofferenze vi è stata la mancanza di rappresentanza politica. Tra tutte ‒ l’altro nome degli Stati Uniti è paradosso ‒ non ha saputo fare di meglio che trovarsela poi dentro il GOP, nonostante il GOP, ovvero in un partito nato per disfare e non per conservare. Era il 1964 e Barry Goldwater, detestato dal suo stesso partito, ebbe il genio di voler dare una chance alla “Right Nation” priva di guida politica. Fu stroncato, soprattutto dal resto del GOP, ma innescò un processo senza ritorno. Cominciò allora una impredicibile, inaudita, incredibile svolta. Il GOP prese lentamente, molto, molto lentamente, a trasformarsi dall’interno. Qualcuno cominciò a crederci, qualcun altro a provarci. Il GOP cominciò a pensare di potere essere il partito della “Right Nation”, il partito della Destra giusta, che è nel giusto, che fa la cosa giusta. Il partito della nazione, anche quando è minoranza, perché la giustizia e la verità non sono questioni di maggioranze parlamentari. Specularmente, il Partito Democratico avviò il più spettacolare tradimento dei chierici che si sia mai visto, divenendo il partito non della nazione ma della fazione, il regime sfascista.
Il matrimonio di amore e d’interesse tra un pezzo (allora piccolissimo) del GOP e il movimento conservatore, come prese a chiamarsi quell’incarnazione storica della “Righ Nation”, conobbe i suoi alti e bassi, le sue difficoltà, i suoi tradimenti e i suoi adulteri, ma al 15° anniversario si mostrò finalmente solido mandando alla Casa Bianca Ronald Reagan. Era il 1980. Le cose non erano però affatto finite, incominciavano. C’era ancora una parte enorme del GOP da conquistare. La lunga marcia della conquista, tra sconfitte e vittorie, ha poi generato gli otto anni della presidenza di George W. Bush Jr., un presidente grande amico del conservatorismo non tanto perché abbia messo questo o quel conservatore o neoconservatore al posto giusto, ma anzitutto perché nei gesti politici meno contingenti e nelle decisioni pubbliche ha testimoniato la “Right Nation”, lo spirito giusto del Paese che non si vergogna essere di Destra perché ciò è buono, per tutti.
Dal 2004 (secondo mandato di Bush Jr.) l’opera di conquista interna del GOP al conservatorismo è proseguita come un treno e ha palesato i risultati nelle elezioni di medio termine del 2010, nelle primarie presidenziali del 2012 e ancora in quelle di medio termine del 2014. Dal 2010 in qua il GOP non è mai stato così di destra, mai come da allora l’orientamento medio del partito è stato conservatore. Il conservatorismo, come filosofia e come movimento resta più ampio del GOP e a esso è comunque irriducibile, ma oggettivamente mai come in questi anni i frontmen Repubblicani sono stati tanto conservatori. C’è spesso l’imbarazzo tra chi scegliere, e gli elettori spesso quell’imbarazzo lo sentono per intero. Il famoso “apparato di partito” oggi, dopo l’effetto “Tea Party”, non è più la vecchia macchina cinica sostanzialmente ostile alla “Right Nation” e interessata soltanto a quel potere che, come diceva Lord Acton, corrompe, e se è assoluto corrompe assolutamente; oggi anche l’“establishment” del GOP è conservatore, e questo non perché il conservatorismo si sia snaturato ma perché la “Right Nation” ha finalmente conquistato una forza politica non all’“idea-partito” bensì all’ideale nazionale. Adesso, dopo la Camera, il Senato e molti Stati dell’Unione, gli manca di far accomodare tutto questo alla Casa Bianca. Ed è qui che Trump non c’entra un fico secco.
Con questa storia lui non ha nulla a che fare, con la lenta trasformazione conservatrice del GOP non ha nulla a che spartire, con la “Right Nation” non ha niente a che fare. Essendo un ottimo salesman Trump sa comperare bene all’ingrosso. Ha capito ‒ non ci vuole un genio ‒ cosa sta a cuore alla “Right Nation” e alla gente che dal 2004 ha costretto, a suon di voti, il GOP a farsi sempre più conservatore e ora lo urla in modo sgangherato. Sia come sia, dirà qualcuno, il messaggio di Trump vince, raccogliendo il consenso dei conservatori. Sbagliato. Raccoglie il plauso di un terzo dell’elettorato che adesso vota GOP, composto da almeno quattro insiemi di persone. Quelli che non sanno resistere al discount delle idee (l’imitazione cheap di quelle buone e quelle buone sul serio ma prossime alla data di scadenza). Quelli che non avendo mai votato prima non sanno che c’è il trucco. Alcuni indipendenti che pensano di essere anti-sistema solo perché abbracciano il primo che passa non accorgendosi che, tra i tanti che passano, il primo è in realtà solo il più glamour. E alcuni conservatori già elettori del GOP che scambiano la voce alta per il tono alto.
Il trumpismo è questo: l’ennesima incarnazione del populismo, il peronismo scambiato per “bene della nazione”. Il dirigismo da imbonitore, l’interventismo da strillone, la libertà da supermercato dove ti sembra sempre che ci sia tutto e tu puoi scegliere autonomamente e invece puoi scegliere solo tra quello che hanno prescelto prima per te.
Oltre al 33% e rotti di Trump c’è infatti più del 60% di elettori del GOP che finora hanno brancolato spaesati non sapendo chi premiare come miglior candidato presidente dei conservatori. Succede quando a tavola la scelta è troppo ricca; non c’è da preoccuparsi, salvo decidere in fretta finché restano posto liberi a sedere e piatti puliti.
Oltre a Trump, infatti, le primarie 2016 hanno schierato una variegata gamma di conservatori. Di conservatori, non di grigie mezze tacche sopravvissute all’era in cui nel GOP dominavano i liberal, i maneggioni, i RINO (“Republicans In Name Only”, insomma i falsari). Quelli si sono estinti. Adesso ci sono diverse correnti di conservatorismo. L’unica modo che i Repubblicani hanno per smascherare Trump è cercare una sintesi. Il tempo c’è, ma come sempre corre. Rasenta l’impossibile, ma il polo delle libertà e del buongoverno è già stato inventato. Nelle sua ispirazioni migliore fu inventato in Italia imitando la “Reagan Coalition”. Adesso sono i conservatori americani che debbono reimpararlo.
Jeb Bush ci ha già messo la sua quota, transitando masserizie e voti su Marco Rubio. Rubio ha fatto la sua parte cominciando a ripensare i lati più deboli della sua proposta di sanatoria sull’immigrazione, proprio quelli che agli occhi di molti lo fanno sfigurare accanto a Trump ma anche a Ted Cruz. Dello stesso Rubio s’intravvedono ora tratti reaganeschi nel suo sapere confezionare il conservatorismo più intransigente in un messaggio ottimistico, positivo. Charles Kruthammer, il sagace ad esperto commentatore di cose Repubblicane, invoca una “santa alleanza” anti-Trump. National Review, il più famoso periodico conservatore, le dà addirittura il nome di Cruz e Rubio. Alcuni leader conservatori che sostengono Cruz promettono che se Cruz non si piazzerà bene il 1° marzo al “Supermartedì”, quando i Repubblicani voteranno in ben 14 Stati, allora convergeranno su Rubio. Diversi lo hanno già fatto.
Sono prove importanti di salvataggio della “Right Nation”, del Paese. Tutto l’appeal sganasciato di Trump lo sanno riprodurre per intero e molto meglio i conservatori: lotta al terrorismo, controllo dell’immigrazione ma anche riforma intelligente delle sue leggi oggi spesso superate, riduzione fiscale, dimagrimento dello Stato, contrasto al relativismo in nome di un umanesimo autentico. Pronti per battere Hillary Clinton. Fate presto.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Trumpismi/2.Cosa può (e deve) fare il Gop per fermarlo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 29-02-2016
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