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Il 27 gennaio si è svolta a Washington la 44a Marcia nazionale per la Vita, la madre di tutte le marce per la vita e per certi versi di tutti i Family Day. Accade puntualmente ogni anno in concomitanza della sentenza con cui il 22 gennaio 1973 la Corte Suprema federale legalizzò la soppressione della via umana nascente in tutto il Paese attraverso un vero e proprio abuso giuridico (compito della Corte Suprema è infatti quello di vegliare sulla costituzionalità delle leggi approvate dal Congresso federale, non quello di legiferare in proprio come appunto fece invece allora).
Per la prima volta nella storia, sul palco dei pochi e selezionatissimi oratori che aprono la manifestazione è salito un rappresentante dei vertici delle istituzioni statunitensi, il vicepresidente Mike Pence. Non era mai accaduto, è un fatto enorme, straordinario, bellissimo.
Ora, Pence è un amico della vita da sempre: è pubblicamente noto per questo e anche per questo è stato scelto per la vicepresidenza dall’allora aspirante presidente Donald J. Trump in difficoltà con l’elettorato sensibile alla difesa dei “princìpi non negoziabili”. Ma sul palco della 44a Marcia per la vita non è salito soltanto il pro-lifer Pence, vi è salita la Casa Bianca. Così ha espressamente detto dal palco della Marcia Kellyanne Conway, sondaggista e stratega Repubblicana, cattolica, voluta da Trump come manager della propria campagna elettorale e ora “Counselor to the President”. Così ha chiaramente ripetuto il vicepresidente Pence. E così ha nuovamente ribadito lo stesso Trump tweettando: «Avete il mio appoggio pieno». È più di quanto sia accaduto negli otto anni di presidenza di George W. Bush Jr., grande amico della vita umana nascente, che usava telefonare plaudente in diretta ai marciatori di Washington o (come fece l’ultimo anno del suo secondo mandato) invitarli per la colazione alla Casa Bianca con tanto di passeggini e bambini vocianti. Ed è più di quanto fatto da Ronald Reagan (1911-2004), che la vita l’ha difesa con le unghie e con i denti, prendendo addirittura carta e penna per scriverlo solennemente e utilizzando tutto il peso della propria suprema carica istituzionale per appoggiarne la tutela in sede legislativa.
I mai contenti potrebbero aggiungere che allora tanto valeva che su quel palco ci salisse Trump in persona. Condivisibile ‒per certi versi. Ma l’ottimo è sempre nemico del bene, e voler cercare il pelo nell’uovo perdendo di vista l’eccezionalità di alcuni gesti politici è sciocco, se non persino in malafede. Non bisogna essere dei ciechi adoratori di Trump, che resta sempre il Trump caciarone, rozzo, sbruffone e persino ambiguo di sempre, per ringraziarlo ora di questo gesto unico. Ringraziarlo ora: domani si potrà, e se sarà il caso si dovrà, criticarlo per eventuali cadute di tono, errori e malefatte, ma non è oggi quel momento. Oggi chiunque abbia a cuore la costruzione o la restaurazione o la preservazione di quel che resta, per poco che sia, di una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio deve inchinarsi a questo atto eminentemente, squisitamente e nobilmente politico che nessuna Amministrazione statunitense ha avuto l’occasione, l’opportunità o la voglia di compiere.
Il vicepresidente Pence su quel palco significa che, in barba ai giochetti di parole sulla laicità delle istituzioni e ai sofismi sulla (falsa) libertà di coscienza, le istituzioni del Paese oggettivamente più importante del mondo prendono posizione davanti a questo stesso mondo, e anche più su, a favore di uno dei pilastri principali su cui si regge la convivenza umana, la vita, negare la quale è un crimine che grida vendetta al cospetto del Cielo. Vada come vada da domani, questo è un fatto che resta e resterà: unico e svettante come fino a poche settimane fa nemmeno la più rosea delle previsioni poteva immaginare.
E la Marcia per la vita guidata dal vicepresidente degli Stati Uniti segue di solo poche ore un altro avvenimento straordinario. Con 239 voti contro 183, martedì 24 gennaio la Camera federale dei deputati a guida Repubblicana ha reso permanente una buonissima legge che per decenni si è dovuto invece reintrodurre anno per anno e quindi lasciare in balia delle maggioranza politiche del momento. Si tratta del cosiddetto “Hyde Amendment” con cui nel 1976 (ma entrò in vigore solo nel 1980 quando la Corte Suprema ne stabilì la costituzionalità) il deputato Repubblicano conservatore Henry J. Hyde (1924-2007), cattolico, riuscì a imporre il divieto di finanziare l’aborto praticato su territorio nazionale con denaro statale. Fino a oggi è stata una misura non permanente poiché, incidendo sulla legge annuale di previsione del bilancio, come essa valeva solo annualmente.
L’“Hyde Amendment” è tra l’altro l’estensione appunto al territorio nazionale di quanto precedentemente stabilito dall’“Helms Amendment” al Foreign Assistance Act del 1961, allorché nel 1973 il deputato Repubblicano conservatore Jesse A. Helms (1921-2008), battista, riuscì a impedire che le Ong attive all’estero beneficiate dagli aiuti esteri americani usassero quei fondi per promuovere e operare aborti, anche se nel Paese straniero in cui esse operano l’aborto è consentito dalla legge. Per dare corso reale a queste due leggi, durante la Conferenza internazionale dell’ONU sulla popolazione svoltasi nella capitale messicana dal 6 al 14 agosto 1984, l’Amministrazione Reagan varò la cosiddetta “Mexico City Policy”. La misura fu introdotta con un ordine esecutivo del presidente (sostanzialmente un decreto-legge) che ogni suo successore ha poi avuto la facoltà di confermare o di abolire. Dopo Reagan il presidente Repubblicano George Bush Sr. nel 1988 proseguì la “Mexico City Policy”, il presidente Democratico Bill Clinton la negò il 22 gennaio 1993, Bush Jr. la reintrodusse il 22 gennaio 2001, Obama tornò a negarla il 23 gennaio 2009 e il 23 gennaio scorso Trump l’ha nuovamente introdotta. Da oggi però, con l’“Hyde Amendment” divenuto permanente, i presidenti che vorranno sostenere la “Mexico City Policy” avranno un ostacolo in meno. A chi scrive piace a questo punto ricordare che quando militanti di Alleanza Cattolica incontrarono, anni fa, il deputato Hyde nel suo ufficio di Washington accanto a lui torreggiava una statua alta così della Madonna di Fatima del 1917 e che il primo firmatario della legge che nel 2017 ha reso permanente l’“Hyde Amendment” è il deputato Repubblicano Christopher H. Smith, cattolico, che militanti di Alleanza Cattolica hanno avuto più volte occasione di frequentare.
L’Amministrazione statunitense in carica oggi è quella del Trump caciarone, rozzo, sbruffone e persino ambiguo di sempre, ma pure del Trump che si mette, per motivi che non spetta a noi giudicare, al servizio di qualcosa di più grande di lui e che forse lui nemmeno immagina. Questo è un fatto, e chi lo nega ha torto a prescindere. Mai si è visto dal palco di una manifestazione così tanto partigiana, e al contempo espressione della vera anima del Paese nordamericano, la Casa Bianca gridare dai tetti al mondo una verità che qualunque studente sa perfettamente ma molti, troppi scelgono d’ignorare: gli Stati Uniti sono un Paese pro-life sin dal principio, lo sono nel loro stesso DNA, motivo per cui l’aborto è quanto di più antiamericano esista. «Noi asseriamo che queste verità sono per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di determinati diritti inalienabili, che tra questi vi sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità». Lo dice la Dichiarazione d’indipendenza del 1776, lo ha detto il vicepresidente Pence. Il corsivo è suo.
Marco Respinti
Pubblicato con il titolo Marcia per la vita sul sito Internet di Alleanza Cattolica il 27-01-2017
Maurizio Blondet firma un vergognoso articolo, Dell’importanza di Hillary per Francesco, colmo di falsità e scempaggini. Visto che il sottoscritto vi è citato con un articolo, Ma lo sapete che Putin perseguita i cristiani?, ecco alcune precisazioni.
1)
- Massimo Introvigne non ha fondato Alleanza Cattolica.
- Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) non è «Correo» o forse l’estensore voleva prodursi in una battura che non fa ridire, disgrazia di ogni comico?
- A Parigi in Rue Cadet non c’è la Gran Loggia ma il Grande Oriente.
- Introvigne non ha mai messo piede nella Università Herzliya.
- La prima idea dello OSCE (‘Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) è stata della Santa Sede
2)
- Il sottoscritto sarebbe un «fanatico teocon americanista»: sono in realtà soltanto un osservatore quanto più mi è possibile attento (qualcuno dice persino studioso) del mondo conservatore statunitense dal 1989 (anche per partecipazione), ma soprattutto non ho mai fatto mistero.
Ho portato in Italia il termine «teocon» (o «theocon») ‒ come riconoscono in molti, tra l’altro il senatore Gaetano Quagliariello in Cattolici, pacifisti, teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del Muro (Mondadori, Milano 2006) ‒ attraverso un articoloa suo tempo pubblicato su Il Foglio per rendere ragione (e l’ho fatto poi ancora successivamente con altri articoli) di una particolare “corrente” dentro il mondo conservatore. Al tempo il termine «teocon» era poco usato negli Stati Uniti stessi, poi in Italia è diventato – antipaticamente – un termine passepartout usato e abusato dai media.
Sarebbe come se ‒ putacaso – io dicessi che Maurizio Blondet è “un fanatico sostenitore di Lyndon H. LaRouche Jr.”, complottista patentato di professione, per molti pure antisemita, già trotzkysta, eterno “candidato” alle primarie del Partito Democratico statunitense, condannato 1988 a 15 anni di carcere per violazioni della normativa fiscale e truffa postale (è stato rilasciato sulla parola nel 1994), solo perché per decenni (ancora?) ne è stato l’oracolo parlante in Italia. - Io «americanista»: chissà cosa significa.
- Io «ammiratore di Leo Strauss»: falso, falsissimo, a meno che una persona che legge e studia un autore o autori che s’ispirano a un certo autore onde parlarne e scriverne sia automaticamente un suo o loro “ammiratore”. Ma a questo punto sarebbe meglio frequentare di più il vocabolario e il lago nei week-end: fa bene. Di Strauss nella mia vita ho scritto pochissimo, e mai direttamente. Ho partecipato a un solo convegno sul suo pensiero (e dintorni) a Roma, nel maggio 2005, organizzato dal Centro Studi Americani (cui erano relatori anche William Kristol, Giuliano Ferrara, Raimondo Cubeddu ed Amy K. Rosenthal). In quella sede tenni una relazione sulle origini culturali del conservatorismo americano moderno e parlai quasi esclusivamente di Russell Kirk (198-1994) e di Eric Voegelin (1901-1985), apposta, facendo trasparire una differenza tra Kirk e Strauss e la mia predilezione per il primo (suscitando tra l’altro il grande interesse di Ferrara), a costo pure d’irritare un gentile signore del pubblico che non rinunciò all’occasione di farmelo notare. Una volta mi si accusava (sic) di studiare Kirk che sfido chiunque, a prezzo del ridicolo, a definire “neoconservatore”: ricordo distintamente che Blondet, nel 1996, quando il libro uscì, fu uno tra i primi volonterosi a presentare in pubblico con il sottoscritto (che ne è il traduttore e il curatore) il volume di Kirk Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea dei valori del Nuovo Mondo (Mondadori). Era ovviamente un Blondet diverso, lo stesso Blondet che conosceva bene e frequentava, da esterno, Alleanza Cattolica (e conosceva bene anche il suo fondatore, Giovanni Cantoni): presentando con me in pubblico il volume di Kirk, in quell’occasione Blondet si sperticò in lodi degli Stati Uniti (e in genere del mondo anglofono), giacché, a suo dire, “medioevali”, e della tradizione culturale conservatrice per motivi analoghi.
Se dovessi stilare una apologia pro vita mea, richiamerei la mia prolungata critica ai neoconservatori americani (testimoniata in decine di articoli lungo gli anni) e la mia per certi versi propensione per il mondo detto “paleoconservatore”; ma i “neocon” sono però mutati in seguito al mutare della storia (del mondo, non solo americana) e lo stesso movimento conservatore statunitense è mutato: di questi mutametni io ho preso atto, spero con intelligenza e professionalità. Tra l’altro noto come i neocon, che per Blondet & Friends avrebbero dovuto dominare il mondo fino all’Armageddon, rendendoci tutti schiavi, sono scomparsi come neve al sole il giorno stesso in cui gli statunitensi, nel novembre 2008, hanno votato per Barack Obama. Tutto qui il loro “complotto”? - «Credente negli USA»: è un blondettismo non attestato nella civiltà occidentale e soprattutto a casa mia. Come sei io di Blondet dicessi “credente nel citato LaRouche”.
- Per il sottoscritto gli Stati Uniti sarebbero «il nuove Sacro Romano Impero, la Cristianità armata»: rileggere supra alla voce «La mamma degli stupidi è sempre incinta».
- Blondet virgoletta la mia frase «la libertà religiosa è il primo diritto politico dei cittadini americani, sancito dal Primo Emendamento della Costituzione federale varato nel 1791» e la usa come corpo contendente:dov’è che ho sbagliato a scrivere?
- Mi spiace per Giovanni Sallusti, che ne è il direttore, ma l’intraprendente, giornale online con cui collaboro da tempo, non è noto a Blondet. L’articolo “incriminato” mi è stato richiesto dal direttore Sallusti a seguito di un post d’Introvigne su Facebook. A Introvigne ho poi rivolto via email una domanda per precisare una certa circostanza di cronaca presente nel mio testo (il suo trovarsi a Odessa dove ha raccolto la testimonianza di sue colleghe provenienti da Kiev). L’articolo è responsabilità solo mia, Introvigne ha la paternità esclusivamente dei virgolettati che riporto dal suo post e della suddetta precisazione. La discussione, nel mio articolo, del Primo Emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti d’America è mia e non concordata con alcuno. Leggendo l’articolo, chiunque può comprendere (che lo gradisca o meno) il ragionamento che sostengo. C’entra con i blondetttismi come i cavoli a merenda.
- Sono geloso perché Blondet degna Andrea Tornielli del grassetto, Massimo Introvigne persino di un titoletto e me invece solo del tondo.

Papa Francesco abbraccia Paul Bhatti in Piazza san Pietro il 18 maggio 2013, vigilia di Pentecoste (©AP Photo/Alessandra Tarantino)
Con gli islamici si riesce certamente a dialogare, anche in un Paese-limite come il Pakistan. Così martedì sera, a Bergamo, Sara Fumagalli, coordinatrice delle missioni dell’Umanitaria Padana Onlus, che ha promosso l’incontro, assieme all’Associazione Pakistaini Cristiani in Italia, ha accompagnato la testimonianza di Paul Bhatti. L’esperienza di Bhatti, però, ex ministro federale per l’Armonia nazionale e le minoranze, oggi presidente dell’APMA, All Pakistan Minorities Alliance, va oltre. 《Ci sono valori comuni importanti》, dice a La nuova Bussola Quotudiana, 《su cui si può concretamente costruire la convivenza fra cristiani e musulmani. Il primo di tutti, inderogabile, è il pieno rispetto della vuta umana».
Medico con esperienze di lavoro in mezza Europa, già allievo dell’Università di Padova e dell’Università Cattolica belga di Lovanio, missionario nei molti luoghi della sofferenza vera, Paul Bhatti è il fratello di Shahbaz (1968-2011), caduto per mano talebana tre anni fa per il solo fatto di essersi seriamente preoccupato dei “reietti” tiranneggiati dal potere pakistano in qualità di ministro per le Minoranze religiose e di essersi per una vita intera battuto in favore dei cristiani pakistani perseguitati, sfidando i malvagi e accettando la croce. A “furor di popolo” Paul Bhatti subentrò allora al fratello, abbandonando la professione e rientrando stabilmente in patria. La sua esistenza corre sempre sul filo del rasoio; le minacce alla sua vita si ripetono; ma Paul, come Shahbaz, non demorde. Sa quale potrebbe essere il prezzo, e, come suo fratello, ha messo tutto in conto. Ciò che strabilia è la sua serenità.
Di Shahbaz i vescovi pakistani hanno avviato l’iter di canonizzazione. La Chiesa Cattolica indica ai cristiani i santi perché sono modelli da imitare, e il “modello Shahbaz” è fra i più attuali. È infatti il primo martire della libertà religiosa, magari un giorno il patrono. La libertà religiosa, infatti, non è u aspetto del relativismo, secondo l’idea che una fede varrebbe un’altra. Al contrario ‒ come ha sottolineato Marco Invernizzi, responsabile lombardo di Alleanza Cattolica, che a Bergamo ha introdotto l’ospite pakistano ‒, è il diritto primo e non negoziabile dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio di cercare con onestà il rapporto fondante con il proprio Creatore (religione) e di esercitare appieno la prima caratteristica di quella somiglianza (libertà). Garantire all’uomo la libertà religiosa è dunque una messa in pratica seria, doverosa e necessaria della dottrina sociale della Chiesa, e proprio per questa la più concreta e sensata alternativa ai due mostri dell’ora presente: il fondamentalismo della religione impazzita (vedi l’islamismo della galassia jihadista) e il fondamentalismo della religione atea (vedi il laicismo aggressivo del “mondo libero”).
Con Shahbaz in Cielo, Paul svolge la sua missione in terra. In Pakistan la violenza è all’ordine del giorno, la miseria pure. I cattolici sono un’infima minoranza, solo il 2%, e in questo clima la Chiesa Cattolica fa quel che può. Cioè tantissimo. Solo le suore assistono i malati di mente. Solo i volontari aiutano i cristiani analfabeti e poverissimi, ai margini della società. Per tutta risposta, la famigerata legge sulla blasfemia in vigore nel “Paese dei puri” è un mannaia che cala inesorabilmente sul capo di chiunque, di norma cristiano, sia in qualche modo finito di mezzo a qualcosa. Ma Paul Bhatti non si perde d’animo. Nella desolazione più totale è convinto, come lo era suo fratello, che non tutto sia perduto per principio. Ogni volta che si scatena un pogrom contro i cristiani o un cristiano viene accusato ingiustamente, ogni volta che un villaggio viene saccheggiato, le abitazioni bruciate, la gente spogliata (e picchiata, e abusata) o le parrocchie distrutte, Paul Bhatti cammina tra la gente. Conforta i confratelli cristiani, invitandoli alla speranza fondata, e va in cerca dei leader musulmani. Non si arrende ancora all’idea manichea che i cattivi siano una causa persa.
In più di un’occasione, si è seduto fra i mullah e ha ragionato con loro. Ha spiegato che non ha alcun senso vessare, persino uccidere i cristiani in nome di Dio. Che non è questo il modo per onorare Allah. Mica sempre i musulmani lo hanno ascoltato, ma delle volte sì.
Tutti in Pakistan ricordano, ma fuori dei suoi confini pochissimi conoscono, il caso di Rimsha Masih la ragazza di Mehrabadi, un quartiere d’Islamabad, che nell’agosto 2012 finì in carcere con l’accusa di avere bruciato pagine del Corano. Rimsha, di età imprecisata (chi dice 15-16 anni, chi una ventina, all’epoca dei fatti), è affetta da Sindrome di Down. Sul suo capo pendeva la sentenza di morte dopo la denuncia urlata dell’imam della moschea locale, Hafiz Mohammed Khalid Chishti. Fu allora Paul Bhatti che prese di petto la questione. Alla fine appurò, scientificamente, che le prove fornite dall’imam alla polizia (la cenere rimasta dal rogo delle sacre pagine) era una menzogna costruita ad arte. Così il 7 settembre 2012 Rimsha è stata scarcerata e trasportata in aereo, con la famiglia, in una località segreta che ne protegge ancora la vita, forse in Canada, mentre l’imam fellone, è finito dietro le sbarre il 1° settembre, lui stesso accusato di spergiuro e bestemmia.
Anche in quel frangente Paul Bhatti ha saputo cercare e persino trovare il sostegno di alcuni musulmani, musulmani diversi dall’imam Chishti. Proprio come quando l’anno scorso fu capace di portare le autorità musulmane locali a sottoscrivere pubblicamente la condanna della distruzione di un quartiere di Lahore, Saint Joseph Colony, evacuato appena in tempo su indicazione della polizia ma raso al suolo da una folla islamica inferocita per l’ennesimo caso inventato di blasfemia. Sì, Paul Bhatti ci crede. Crede fermamente che gli uomini non siano riducibili al solo loro lato peggiore. È questo che fa di Paul Bhatti un cattolico.
Marco Respinti
Ultima opera dello scienziato e filosofo della politica statunitense (ma oriundo tedesco) Gerhart Niemeyer (1907-1997), Within and Above Ourselves: Essays of Political Analysis è stato pubblicato (Intercollegiate Studies Institute, Wilmington [Delaware]) nel 1996 con introduzione di Marion Montgomery (1934-2002), uno dei grandi letterati “sudisti” del Novecento, studioso raffinato di Eric Voegelin (1901-1985), Flannery O’Connor (1925-1964), T.S. Eliot (1888-1965), Aleksandr Solzenycn (1918-2008). Lo stesso Niemeyer è stato allievo diretto, e quindi interprete attento, di Voegelin.
Quel suo ultimo libro annuncia sin dal titolo le cifre del pensiero del beato Giovanni di Ruysbroeck (1293-1381), mistico fiammingo del secolo XIV secolo di cui Niemeyer scelse parole a prima vista strane per battezzare un volume di analisi politica. “Dentro e sopra di noi”: queste, secondo Niemeyer, sono infatti le coordinate della vera filosofia politica intesa come ratio dell’organizzazione della civitas humana (per dirla con l’“economista dal volto umano” Wilhelm Röpke [1899-1966]). “Dentro di noi”, perché la politica è morale sociale e perché la civiltà si regge sull’intima connessione (non identità stretta) fra ordine interiore e ordine della res publica. “Sopra di noi”, perché l’ordine temporale è preceduto da un ordine spirituale che il primo può assecondare o contestare in radice, originando quindi da una la filosofia conservatrice e dall’altro l’opzione rivoluzionaria, ma mai ignorare.
Niemeyer si riconosceva nella prima, conosciuta, studiata e apprezzata negli Stati Uniti d’America (dove emigrò all’avvento del Terzo Reich). Il suo debito nei confronti di Voegelin è dichiarato. Niemeyer ‒ che a quasi novant’anni si mise a studiare la lingua italiana a Parma, riuscendo in tempo piuttosto breve a padroneggiarla discretamente ‒ è infatti stato uno dei massimi interpreti, analizzatori e continuatori delle speculazioni del grande studioso dello gnosticismo moderno, ai cui insegnamenti egli ha pure saputo unire le sapide lezioni desunte dalla filosofia classica e medioevale, dalla tradizione costituzionale britannica, dal pensiero del citato Solzenicyn e da quello di Albert Camus (1913-1960).
Within and Above Ourselves è una densa e significativa raccolta di saggi che si divide nelle quattro parti in cui la lettura niemeyeriana dell’indagine voegeliniana articola la “distinzione nell’unito” della vera filosofia. La prima prende in considerazione la natura, la storia, la fede e i rapporti che legano fra loro queste diverse realtà; la seconda indaga il quadrinomio Dio e uomo, mondo e società; la terza s’incentra sulle credenze dell’uomo e sulle strutture del suo vivere comunitario; la quarta s’interroga sulla pluralità delle culture e delle ideologie umane, nonché ‒ specularmente ‒ sulle concezioni di ordine che alla disgregazione del relativismo si oppongono con forza. Un vero testamento.
Niemeyer ha svolto per anni attività di analista politico per una serie d’istituzioni private e di organismi ufficiali del governo statunitense, scandagliando nei minimi particolari la mentalità dell’agire comunista ‒ sovietico in particolare ‒ per discernere con chiarezza nell’oscurità delle sue pieghe e dei suoi anfratti quel seme ideologico distintivo che ha fatto del marxismo-leninismo il vertice della Modernità politica. È certamente a uomini come lui che si deve l’atteggiamento “maccartista” e “goldwateriano” di una certa parte degli Stati Uniti ‒ e delle loro Amministrazioni politiche ‒, decisi a non fermarsi al contenimento del nemico sovietico, ma a puntare al suo completo annientamento militare ed economico in quanto (come dirà Ronald W. Reagan [1911-2004] negli anni 1980) «impero del male».
Alle analisi del comunismo «intrinsecamente perverso» (per riprendere una famosa espressione di Papa Pio XI [1857-1939 nell’enciclica Divini Redemptoris, del 1937]), Niemeyer ha dedicato volumi, tempo, sudore e passione nemmeno sognate dalle derisioni della “sindrome di Rambo” nordamericana in cui un po’ tutti, prima o dopo, cadiamo. Per lo studioso tedesco-americano, infatti, la base ultima e fondante della guerra senza quartiere in cui necessariamente l’Occidente doveva impegnarsi contro l’Est è stata di natura etica, filosofica e addirittura teologica. Una sorta di guerra di religione. Dicendo che il “maccartismo” e il “goldwaterismo” sono stati tagliati dal tessuto niemeyeriano non si getta affatto discredito su un pensatore di alto rango quale è stato l’autore di Within and Above Ourselves, ma si conferisce dignità nuova a due fenomeni ‒ epifanie di una “fede” certa ‒ tanto importanti quanto travisati. In Niemeyer, l’intransigenza dell’analisi filosofica si accompagnava a una dolcezza di animo davvero singolare.
Un provincialismo culturale di antica origine ideologica ha per decenni permesso che autori e commentatori di prima grandezza come Gerhart Niemeyer scomparissero senza quasi batter colpo nel nostro Paese. Filosofo dell’Essere e dell’Ordine dalla straordinaria fecondità intellettuale, lo studioso tedesco-americano meriterebbe davvero ‒ anche post mortem ‒ di entrare in dialogo con certi stantii intellettuali di professione di casa nostra.
Niemeyer era un gran cultore dell’opera dello scrittore, critico letterario e apologeta irlandese anglicano C.S. Lewis (1898-1963). Negli Stati Uniti, Niemeyer riscoprì (dopo un abbaglio “socialistico” di gioventù) la fede cristiana e la prese tanto sul serio da diventare diacono (sposato, con figli) della Chiesa episcopaliana. Ricordo ancora benissimo la sera in cui, in un ristorante di cucina tradizionale lombarda, nel cuore della mia Milano, città in cui si trovava per conferenze, Niemeyer mi comunicò, con le gote un poco arrossate, di essersi convertito al cattolicesimo. Aveva 86 anni. Brindammo con dell’ottimo vino.
Marco Respinti
Il pensatore e statista angloirlandese Edmund Burke (1729-1797) è la figura centrale del conservatorismo dell’area culturale anglofona. Perché lui? Perché fu il primo, immediato critico della Rivoluzione di Francia intesa come evento separatore tra due civiltà radicalmente antagoniste: da un lato quella cristiana e della “grande tradizione” occidentale; dall’altro quella ideologica che nasce con l’illuminismo e con il giacobinismo.
Nello storico delle idee nordamericano Russell Kirk (1918-1994), l’influenza temperante della via media della grande tradizione classico-cristiana ‒ da Aristotele (384?-322 a.C.) al teologo anglicano “tomista” Richard Hooker (1554-1600), fino appunto a Burke ‒ è lo strumento in grado di smorzare ideologismi forti e deboli. Secondo un’ottica di sequela della “grande tradizione” intesa anche come “tradizione purificata”, Kirk conta insomma sul passato per costruire il futuro. La sua preoccupazione è, infatti, tutta protesa ‒ secondo un’espressione desunta dal poeta e critico anglicano americano-inglese T.S. Eliot (1888-1965) alla rising generation, alle generazioni di domani.
«Ideologia‒ scrive il filosofo della politica tedesco-americano Eric Voegelin (1901-1985) all’inizio del primo volume del suo monumentale Order and History, intitolato Israel and Revelation, pubblicato nel 1957 ‒ è l’esistenza in ribellione contro Dio e contro l’uomo. È la violazione del Primo e Decimo Comandamento, se vogliamo usare il linguaggio dell’ordine israelitico; è il nosos, la malattia dello spirito, se vogliamo usare il linguaggio di Eschilo e Platone. La filosofia è l’amore dell’essere attraverso l’amore dell’Essere divino come sorgente del suo ordine».
Per questa ragione Kirk ha sottolineato, per tutta la durata della sua intensa carriera di uomo di lettere, di pensatore, di storico e di critico sociale, nonché nelle migliaia di pagine che compongono i trenta libri da lui dati alle stampe in vita, che il conservatorismo non è affatto un’ideologia, bensì il contrario stesso dell’ideologia. Delle ideologie vecchie e nuove, si potrebbe dire; sia forti, sia deboli.
È sempre Voegelin, sempre in Israel and Revelation, ad affermare che «l’ordine della storia emerge dalla storia dell’ordine». La cifra del conservatorismo è tutta qui: nel reale esiste un ordine oggettivo precedente la volontà umana e impermeabile ai suoi capricci; un ordine che va venerato, preservato e tramandato perché è il riflesso di quell’ordine metafisico che dà dignità alla via umana terrena e speranza alle aspirazioni ultraterrene dell’uomo.
Il “canone” del conservatorismo articola la battaglia culturale e politica a difesa dell’ordine in una serie di princìpi irrinunciabili. L’esistenza di Dio come dato di senso comune, ben prima e oltre ogni dimostrazione razionale; la convinzione dell’intima unione, non della rigida identità, fra ordine morale interiore e ordine socio-politico; la rivendicazione del fondamento trascendente della socialità umana; la fede in una Provvidenza ordinatrice della storia, quest’ultima sede dello sviluppo e della maturazione dell’uomo attraverso il dipanarsi e il chiarirsi alla sua comprensione di un diritto naturale dato; la difesa della natura normativa e della sacralità della vita umane, altrettanto date, e la difesa dell’origine storica delle costituzioni politiche, affatto prodotte da esperimenti di ingegneria socio-politica; il rispetto “sacrale” del pluralismo sociale e della struttura gerarchica ‒ ossia ordinata, cioè dotata di un senso e di uno scopo, di un’origine e di una meta ‒ dei modelli di vita socio-politica a fronte dell’unica eguaglianza fra gli uomini che venga ammessa, ovvero quella morale di fratelli perché figli di un unico Padre; l’orrore nei confronti di tutto quanto sappia anche solo lontanamente di egualitarismo, di collettivismo, di coercizione, di dirigismo, di dispotismo, di utilitarismo, di positivismo e di radicalismo ideologico; la tutela e la garanzia, soprattutto, con argomenti di natura morale, dei princìpi di libertà ‒ libertà concrete, plurali ‒ e di proprietà privata; nonché la fiducia nei confronti della trasmissione delle consuetudini, degli usi, dei costumi e delle leggi positive (prescprition and precedent) quale forza positiva in grado di plasmare il vivere comunitario degli uomini.
È per certi versi straordinario che a ricordare queste verità siano da qualche decennio autori eminentemente d’Oltreoceano: tanto del subcontinente americano boreale, quanto di quello australe. La forza della loro testimonianza può davvero solo spingere a innamorarsi nuovamente di un patrimonio che noi europei dovremmo orgogliosamente rivendicare come nostro, sempre e comunque e in ogni luogo. È come se Cristoforo Colombo (1541-1506) avesse invertito la rotta per ricordare ai patri lidi le ragioni del suo viaggio a Occidente.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo sul sito
Comunità Ambrosiana di Alleanza Cattolica in Milano,
nella rubrica USA.. e non getta l’8-05-2014
George Mason (1725-1792) è uno dei molti eroi virginiani del “Founding”, l’epoca di fondazione della nazione statunitense che grosso modo può essere racchiusa tra il 1776 (anno in cui le colonie britanniche dell’America Settentrionale proclamarono l’indipendenza dalla Corona londinese) e il 1789 (anno in cui entrò in vigore la Costituzione federale degli Stati Uniti). Lo storico delle idee Russell Kirk (1918-1994) lo ha senz’alcuna reticenza descritto come un esponente dell’«aristocrazia naturale americana». Favorevole a una graduale abolizione della schiavitù, fiero avversario dello statalismo centralista, deciso alfiere degli “States’ Rights” ‒ i diritti sovrani dei singoli Stati dell’Unione federale nordamericana, in nome dei quali nel 1861 diversi Stati del Sud dichiareranno l’indipendenza dagli Stati Uniti ‒, tra i più significativi ispiratori della Dichiarazione d’Indipendenza e poi del Bill of Rights del 1791 (i primi Dieci Emendamenti alla Costituzione federale voluti per tutelare i diritti degli Stati e da allora parte integrante della legge fondamentale del Paese), per Kirk Mason è il simbolo dell’autentico eroe culturale americano. Sembra dunque appropriato ricordare il ventennale della scomparsa di Kirk, il “padre” della rinascita conservatrice statunitense nella seconda metà del Novecento, che cade il 29 aprile di quest’anno, rievocando la figura-chiave di quel grande “padre della patria”.
Parlando di Mason, Kirk richiama l’attenzione sui primi otto dei dieci articoli di cui si compone il Bill of Rights: essi inglobano infatti alcune provvisioni di legge che già avevano trovato spazio nella Dichiarazione dei Diritti dello Stato della Virginia, varata nel 1776, e scritta − assieme a gran parte della Costituzione di quell’ex colonia britannica, che pure porta la data del 1776 ‒ proprio da Mason. Più del Repubblicano-Democratico Thomas Jefferson (1743-1826) e del Federalista George Madison (1751-1836) ‒ famosi il primo come “autore” della Dichirazione d’Indipendenza degli Stati Uniti e il secondo come autore appunto del Bill of Rights ‒ fu quindi Mason il padre delle libertà costituzionali nordamericane. Kirk lo illustra magnificamente in uno scritto di rara bellezza e puntualità.
Si tratta del saggio breve The Marriage of Rights and Duties, “Il matrimonio fra diritti e doveri”. La sua versione originale risale al 1991, quanto il testo fu pronunciato come “Henry Salvatori Lecture”, la lectio magistralis che l’Intercollegiate Studies Institute (con sede allora a Bryn Mawr in Pennsylvania, oggi a Wilmington nel Delaware), una cioè tra le più importanti e serie fondazioni culturali conservatrici, sponsorizza annualmente in omaggio al geofisico e mecenate italoamericano Henry S. Salvatori (1901-1997), presidente in California della omonima e prestigiosa “Henry Salvatori Foundation”. Salvatori è stato infatti un grande finanziatore delle principali iniziative politiche e culturali conservatrici, sempre particolarmente attento alla promozione di una retta comprensione del “Founding”. Successivamente, The Marriage of Rights and Duties è stato pubblicatosul fascicolo della primavera1992 di The Intercollegiate Review, il periodico pensato dall’ISI specificamente per fornire agli studenti universitari una cultura alternativa rispetto alla cattiva vulgata dominante.
Ora, da questa sua breve storia editoriale risulta chiaro che quel gran saggio kirkiano può essere considerato come uno degli ultimi scritti originali del “padre” dei conservatori americani. In quei ultimi suoi anni, infatti, Kirk ebbe più volte occasione di tornare su alcuni “pezzi forti” del proprio pensiero e quindi di riprendere, pur se in parte riformulandoli, temi e argomenti abbondantemente presenti nei suoi libri. Ma il bicentenario dell’entrata in vigore della Costituzione federale statunitense, nel 1989 (un anniversario praticamente solo americano), aveva aperto a Kirk una “nuova stagione” d’interventi sulla centralità di quel documento, e quindi sulla sua natura intrinsecamente conservatrice. Per il “padre” del conservatorismo americano fu anche l’occasione per tornare a spiegare le differenze fondamentali, anzi la vera e propria antiteticità, fra la cosiddetta “rivoluzione” americana (1775-1783) e la Rivoluzione Francese (1789-1799) proprio nell’anno in cui il mondo intero (e non solo la Francia) celebrava il ben più “popolare”, concomitante, bicentenario della seconda. Del resto, proprio di questi temi parlò Russell Kirk in quel 1989, ospite, in varie città d’Italia, di Alleanza Cattolica (cfr. il suo Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto”, a mia cura, Centro Grafico Stampa, Bergamo 1995). Gli anni che immediatamente precedettero e che poi seguirono il “bicentenario americano” misero dunque “in cascina” le abbondanti messi da cui scaturirono i due ultimi libri pubblicati in vita da Kirk: America’s British Culture nel 1992 eThe Conservative Constitution, nel 1990 (infatti, The Politics of Prudence, del 1992, è la riedizione in volume singolo di alcuni cicli di conferenze già precedentemente editi in diverse forme, mentre l’autobiografia, The Sword of Imagination: Memoirs of A Half-Century of Literary Conflict, a cui pure egli lavorò fino agli ultimi giorni di vita, uscì postuma nel 1995).
Di quei due libri, America’s British Culture è fondamentalmente la ripresa ‒ sintetica quanto al quadro generale e analitica quanto ad alcune singole questioni ‒ del classico kirkiano del 1974 The Roots of American Order (con un Epilogo di Frank J. Shakespeare Jr., trad. it. a mia cura dell’edizione del 1991, Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, Mondadori, Milano 1996), e dunque dell’antiteticità si potrebbe dire “macroscopica” tra Francia illuministico-giacobina e Stati Uniti conservatori; mentre The Conservative Constitution è il luogo privilegiato in cui Kirk enuclea e spiega come e perché, sul piano istituzionale, gli Stati Uniti sono conservatori da sempre. Insomma, se America’s British Culture rinnova il senso culturale della natura conservatrice dell’esperienza storica che prepara e avvia gli Stati Uniti, The Conservative Constitution mostrail modo in cui quella cultura s’incarna concretamente nelle istituzioni politiche e giuridiche del Paese.
Ebbene, la “fabbrica” che in quegli anni produsse i due citati “ultimi” volumi kirkiani, in specie The Conservative Constitution, generò pure altri materiali che, in forma di “integrazioni”, sono state accolte nella seconda edizione ampliata di The Conservative Constitution, postuma e definitiva, pubblicata nel 1997 con il titolo Rights and Duties: Reflections on Our Conservative Constitution, a cura di Mitchell S. Muncy e con una introduzione di Russell Hittinger, allora docente di Studi cattolici e ricercatore di Diritto presso l’Università di Tulsa, in Oklahoma, vale a dire uno dei migliori costituzionalisti e giusnaturalisti statunitensi contemporanei. Del resto, Kirk aveva in animo di raccogliere in un volume a sé, il progettato e mai realizzato The Sword of Justice, quelli che in Rights and Duties diventano i “materiali” che “integrano” The Conservative Constitution: segnatamente il saggio The Case for Natural Law, sulla centralità del diritto naturale nella cultura giudeo-cristiana dell’Occidente, e, appunto, finalmente, il saggio The Marriage of Rights and Duties.
Torniamo allora a George Mason, al George Mason di Russell Kirk.
Alla scuola del grande “Padre fondatore”, infatti, il “padre” del conservatorismo insegna ‒ una volta per tutte ‒ che tra i diritti della persona e la natura sociale dell’uomo, dunque l’idea di comunità, non vi è contraddizione, laddove invece l’incompatibilità esiste fra le libertà individuali e la politica oppressiva. Parrebbe una riflessione scontata, ma non lo è affatto. Una delle costanti del pensiero kirkiano è infatti sempre stata la conciliazione fra libertà e ordine; del resto, gran parte del pensiero antirivoluzionario successivo all’Ottantanove francese si concentra sullo stesso oggetto; ma su questo stesso oggetto pure si divide. La storia del pensiero antirivoluzionario successivo alla Rivoluzione Francese, infatti, è anche la storia di una “guerra civile” fra scuole diverse, e talora opposte, di pensatori, gli uni principalmente preoccupati per le ferite arrecate dall’ideologia rivoluzionaria al concetto di libertà e gli altri per quelle che essa arreca al concetto di ordine. Contro le divisioni create dall’ideologia rivoluzionaria sin dentro il pensiero antirivoluzionario, Kirk si fa dunque alfiere di una concezione non tanto di compromesso, ma di soluzione a monte.
In Mason, Kirk vede pertanto l’emblema del “padre della patria” conscio che non può mai esistere libertà senza comunità, tanto quanto consapevole che nessuna comunità politica può sopravvivere se non fondata sulle libertà dei suoi membri. Anzi, che la libertà personale cresce solo dentro un ambiente ordinato giacché è l’unica che impedisce l’involuzione oppressiva della “cosa pubblica”.
Con una formula contemporanea (e se il termine “Stato” non fosse così fatalmente gravato da essere pressoché inutilizzabile fra i conservatori americani) si potrebbe dire che in Mason Kirk vede la cifra dell’idea “tanto Stato quanto necessario, tanta libertà quanto possibile”, e questo come sigillo non solo di un pensiero antirivoluzionario fra i molti possibili, e quindi più o meno compiutamente storicamente realizzatisi, bensì del vero spirito contro-rivoluzionario, dunque della matrice conservatrice da cui sgorgano per esempio eminente le istituzioni statunitensi.
Da sempre, negli Stati Uniti, Kirk viene considerato da alcuni come troppo poco libertarian e da altri come non sufficientemente schierato con “le istituzioni”. Ma la verità è che Kirk ha sempre capito meglio e prima di tutti i critici che i diritti della persona si fondano sui doveri che l’uomo ha verso se stesso e verso tutte le umane cose, tra cui eminentemente e principalmente Dio, e che solo questa coscienza può fondare una politica autenticamente a misura di uomo. E, possibilmente, secondo il piano di Dio. Ronald Reagan (1911-2004) ha condensato tutto con parole d’oro: «Il sogno americano è che ogni uomo debba essere libero di diventare ciò che Dio intende egli debba diventare».
Il testamento lasciato 20 anni fa da Russell Kirk è questo.
Marco Respinti
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