Il primo motivo per cui l’Occidente non riuscirà mai a parlare con l’islam è che manca una lingua comune mediante cui intendersi. Una lingua culturale e intellettuale importante, per esempio la filosofia. Quando Papa Benedetto XVI osò dirlo il 12 settembre 2006 nell’Università di Ratisbona si aprì il cielo, ma la stessa cosa la dice oggi uno degl’intellettuali più raffinati e disincantati che ancora il nostro mondo sfoggi. Rémi Brague, classe 1947, professore emerito di Filosofia medioevale e araba nell’Università Parigi 1 Panthéon-Sorbona dove dirige il centro di ricerca “Tradizione del pensiero classico”, ha pubblicato libri decisivi di cui diversi tradotti anche in italiano. L’ultimo nato è un libro-intervista curato da Giulio Brotti, Dove va la storia? Dilemmi e speranze (La Scuola, Brescia 2015, pp. 140, euro 9,50).
Dice Brague che «la teologia islamica si è costituita in polemica contro il cristianesimo». Per l’islam il Corano è la rivelazione diretta di Dio e quindi su quella parola divina increata non si può né ragionare né dire alcunché; ci si può solo sottomettere. La “teologia” islamica è tutta qui: sottomissione incondizionata dell’uomo a Dio. Per la filosofia intesa come discorso razionale sulle cause prime e ultime del reale, e quindi debordante nella teologia classica intesa come discorso razionale sul divino, non vi alcun posto. Di che parliamo dunque con l’islam?
È vero, vi fu un tempo in cui un angoletto alla filosofia fu ritagliato anche nel mondo musulmano, ma fu un’altra singola rondine che non fece primavera. «La filosofia araba», infatti, che «assume una certa neutralità in materia di religione», prese ad affermare «l’esistenza di un Principio unico, ispirato alla concezione neoplatonica dell’Uno», ma «non è sopravvissuta alla modernità». Chi l’ha schiacciata è stata proprio la “teologia” coranica, quella che domina tutto il vasto oceano dell’islam contemporaneo. Perché chi obbietta “filosoficamente” ha le ore contate. Del resto, il grande protagonista di quella fugace stagione di una filosofia arabo-islamica autonoma fu al Farabi (870-950), originario dell’odierno Turkestan. Tentò una sintesi fra aristotelismo e platonismo, e lo fece in quanto «era stato allievo di cristiani» e a sua volta (a riprova delle illuminanti pagine con cui Rodney Stark mostra e dimostra che tutto ciò che di buono c’è nel mondo arabo-islamico è dovuto alla sopravvivenza o all’arabizzazione di sostrati e di personaggi cristiani, ebraici e pagani) «ebbe come discepolo Yahyá ibn ‘Adi (+ 974), filosofo e teologo della Chiesa siriaca giacobita».
Certo, qualcuno c’è che abbia sostenuto che il cuore dell’islam, il Corano, sia solo un prodotto umano. Furono i “mutaziliti” il cui prestigio fiorì a tal punto da divenire, per un periodo, persino la dottrina di Stato del califfato abbaside; ma, caduti progressivamente in disgrazia dopo il secolo X, furono e sono considerati solo degli eretici infami. «I modernisti vorrebbero riportare in vita la soluzione mutazilita», riflette Brague. «Io auguro loro buona fortuna, ma non dimentichiamo che sono trascorsi dodici secoli da quando quella scuola è stata eliminata. L’islam contemporaneo è tanto lontano da essa quanto noi lo siamo da Carlo Magno, e non ci si sbarazza tanto facilmente di abitudini di pensiero così inveterate». Quale dialogo, insomma, quale accordo? Siamo e restiamo distanti come la Terra dalla Luna. E prima lo capiremo, meglio sarà per tutti.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
Dialogo con l’islam? Sforzo impossibile da dodici secoli
in Libero [Libero quotidiano], anno L, n. 221, Milano 16-09-2015, p. 25
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