Russell Kirk (1918-1994), il padre della rinascita del conservatorismo statunitense a metà del secolo XX, pensò di suggellare il proprio canone della forma mentis conservatrice individuandone l’omega nel poeta e critico letterario Thomas Stearns Eliot (1888-1965); e lo fece non astrattamente, ma avendolo incontrato, conosciuto e frequentato a Londra tra la fine degli anni 1940 e l’inizio degli anni 1950, allorché Kirk studiava all’Università di St. Andrews, in Scozia, per il dottorato in Lettere inglesi.
In Eliot, infatti, americano di nascita e inglese di adozione, Kirk vede il punto di approdo della tradizione iniziata due secoli prima con il pensatore angloirlandese Edmund Burke (1729-1797) all’insegna dell’opposizione cosciente e organica all’ideologia nata dalla e con la Rivoluzione Francese (1789-1799). E la gran parte di quella tradizione culturale burkeana, sottolinea Kirk, attiene prima a un insieme di sensibilità, d’inclinazioni sia naturali sia coltivate attraverso l’educazione fornita dagli ambienti sociali in primis ma non solo la famiglia naturale, nonché di usi e costumi tanto ereditati quanto positivamente ricercati e “ricreati” che non a una filosofia vero nomine. Non a caso, dunque, al culmine di una filiera culturale popolata da un numero di uomini di lettere e di romanzieri maggiore di quel che d’acchito ci si aspetterebbe nella ricostruzione di una “storia del pensiero”, Kirk pone un poeta, seppur un poeta “filosofico”, e magari addirittura “politico”, qual è T.S. Eliot.
All’amico e maestro, Kirk ha del resto dedicato una delle biografie intellettuali più rotonde e riuscite tra quante, pur pregevolissime, sono state pubblicate anche successivamente, vale a dire Eliot and His Age: T.S. Eliot’s Moral Imagination in the Twentieth Century, uscito in prima edizione nel 1971, non fosse altro che per la capacità di penetrare intimamente nella visione delle cose che fu propria al poeta, liberandolo così elegantemente, ma senza censure indebite e pertanto inutili, dalle molte, troppe calunnie che ancora circolano sulla sua vita comunque travagliata e che dunque pesano sulla sua opera talvolta maldestramente fraintesa.
Ciò che in Eliot, e nella “sensibilità burkeana” di Eliot, colpì Kirk alla voce “conservatorismo” è la costante attenzione osservata dal poeta per ricondurre sempre le cose del mondo al loro principio e fondamento; di relativizzare il contingente per quel che esso può e quindi deve essere relativizzato in confronto a ciò che è invece permanente ed eterno; insomma di fondare metafisicamente la fisica e metapoliticamente la politica, la quale così ‒ per Eliot e dunque per Kirk ‒ non è mai solo uno scontro pur lecito fra opzioni possibili bensì il richiamo costante a prospettive non solo storiche, dunque eventualmente non solo di piccolo cabotaggio, e cioè la capacità e la voglia, nonostante la fatica e le difficoltà, d’intendere ogni elemento di ciò che è umano in prospettiva squisitamente e nobilmente religiosa.
Eliot, che nella sua produzione saggistica (forse non conosciuta quanto merita e certamente non quanto merita “usata”) cita e adopera bene il filosofo-contadino francese, maestro di tomismo vero, Gustave Thibon (1903-2001), per cui quel poco che di Thibon Kirk conosceva proviene da Eliot; Eliot, che in quella stessa produzione saggistica cita e adopera bene C.S. Lewis (1898-1963), cosa di per sé non scontata nei confronti di un contemporaneo ancora all’epoca in vita, pur se famoso e non estraneo, probabilmente anche fisicamente, alle frequentazioni del poeta; insomma Eliot, che, pur senza nominarlo, lascia in eredità il fatto di avere appreso molto di ciò che il vero conservatorismo angloamericano significa proprio leggendo uno scritto di Kirk, s’intendeva perfettamente con il suo ex discepolo e ora finalmente, all’inglese, peer, come più tardi illuminato biografo e interprete, sul fatto che non vi possa mai essere conservatorismo storico autentico che non si fondi su una solida prospettiva trascendente.
In un saggio pubblicato nel 1955 con il significativo titolo La letteratura della politica, Eliot esprime da par suo, cioè con il suo modus, il concetto in questi termini :
[…] mi preoccupo più del fatto che vi dovrebbe sempre essere scrittori preoccupati di penetrare fino al nocciolo della sostanza, desiderosi di arrivare alla verità e di affermarla, senza troppa speranza, senza l’ambizione di modificare il corso immediato degli eventi, e senza sentirsi scoraggiati o sconfitti quando pare che nulla ne consegua.
La giusta area, per questi uomini, è ciò che si può definire non tanto l’area politica, quanto l’area pre-politica. […] È in quest’area che i miei […] deboli talenti sono stati impiegati. […] E la mia difesa dell’importanza del pre-politico è semplicemente questa: esso è lo strato nel quale ogni pensiero politico, che voglia definirsi sano, deve affondare le proprie radici, e dal quale deve derivare il proprio nutrimento […] e, abbandonando del tutto il linguaggio figurato, è il dominio dell’etica — infine, il dominio della teologia. In quanto la domanda vera, quella a cui nessun tipo di filosofia politica può sfuggire, e quella alla quale deve dare una risposta, perché è sulla base della giustezza di quella risposta che ogni pensiero politico deve essere infine giudicato, è semplicemente questa: Che cos’è l’uomo? quali sono i suoi limiti? qual è la sua miseria e quale la sua grandezza? e quale, infine, il suo destino?
Ebbene, «l’importanza del pre-politico» ‒ anzitutto etica e quindi soprattutto teologica ‒ di cui Eliot scrive è la formula che implicitamente Kirk cercava, e che quindi trovò, per suggellare il proprio canone del conservatorismo. Trovatala, Kirk la citò dunque costantemente in interventi scritti e parlati anche con le parole di una seconda, equipollente, formula, sempre tratta da Eliot, questa volta dal suo L’idea di una società cristiana, del 1939, e cioè «realtà permanenti», come per esempio (ma è questo uno solo dei numerosissimi esempi possibili) testimonia il libro kirkiano del 1969 (addirittura precedente la sua biografia eliotiana) Enemies of the Permanent Things: Observations of Abnormity in Literature and Politics.
Grazie a Kirk, ma non esclusivamente per mezzo suo (il che irrobustisce la virtuosità della circostanza), «l’importanza del pre-politico» diventa un cardine ‒ Kirk ed Eliot e i par loro in inglese direbbero un tenet o un pillar ‒ di tutta la riflessione conservatrice angloamericana autentica, cronologicamente (solo?) successiva all’incontro fra Kirk ed Eliot; una riflessione che, in modo sovente esplicito e altre volte implicito (“automatico”?), è peraltro sempre kirkiana, come ancora una volta esemplarmente testimonia un libriccino piccolo quanto aureo firmato da uno di quei maestri americani di conservatorismo autentico che Eliot aveva imparato ad apprezzare non solo ma anche da Kirk (cioè da quel suo scritto sul conservatorismo che Eliot cita senza attribuzioni esplicite), vale a dire Robert A. Nisbet (1913-1996) autore nel 1986 di Conservatorismo: sogno e realtà (trad. it., a cura di Spartaco Pupo, Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2011.
Sono questi corsi e ricorsi che del conservatorismo non danno per niente una lettura “disperatamente” ciclica, ma segnano un continuo tornare a ciò che fonda; poiché senza quel principio e fondamento il conservatorismo non sarebbe affatto.
Marco Respinti
Versione originale annotata ell’articolo pubblicato
con il medesimo titolo sul sito Comunità Ambrosiana di Alleanza Cattolica in Milano,
nella rubrica USA.. e non getta.
NOTE
(1) THOMAS STEARNS ELIOT (1888-1965), La letteratura della politica (1955), trad. it. in IDEM, Opere 1939-1962, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano 1993, pp. 1276-1277.
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