Stavolta Donald J. Trump è davvero nei guai. Su Facebook il re dei mattatori di destra Glenn Beck scrive che se non votarlo per ragioni di principio vuol dire votare Hillary Clinton allora così sia, ma è soprattutto il Partito Repubblicano che sta abbandonando il magnate. L’elenco stilato da The New York Times dei leader e degli eletti che gli hanno ritirato l’appoggio supera quota 160, ma l’addio più pesante è quello del presidente della Camera Paul Ryan perché segna un cambio di strategia. Ryan non ha tecnicamente ricusato Trump: ha però invitato elettori e promoter a snobbare la corsa alla Casa Bianca per concentrarsi sul Congresso. L’8 novembre, infatti, gli americani sceglieranno sì il presidente e il vicepresidente federali, ma pure tutti i 435 deputati elettivi della Camera (6 delegati del Distretto di Columbia non hanno diritto di voto) e 34 dei 100 membri del Senato. Oggi il Grand Old Party (GOP, l’altro nome dei Repubblicani) ha la maggioranza sia la Camera sia al Senato ed è a questo vantaggio impagabile che Ryan non intende rinunciare nel tentativo di scrivere diritto pure sulle righe storte. Se infatti la Clinton diventasse presidente ma il Partito Democratico perdesse ancora le Camere, si profilerebbe un quadriennio di lotta in cui Hillary dovrebbe brandire di continuo il veto presidenziale per fermare le leggi del Congresso. Dato che però il veto si supera con il voto dei due terzi del Congresso, una maggioranza Repubblicana vigorosa neutralizzerebbe la Casa Bianca. Forte del programma più di destra che il GOP abbia mai redatto (licenziato il 18 luglio), Ryan mira insomma a presidiare le Camere con uomini ben diversi da Trump.
Non è del resto la prima volta che il GOP accarezza l’idea. Lo fece già a settembre, convincendo alcuni dei più facoltosi finanziatori conservatori del partito (i fratelli Charles e David Koch). Lo scoglio maggiore di Trump è sempre stata infatti la Destra: il movimento conservatore di per sé esterno al partito, che in buona parte lo ha osteggiato da subito, e il partito stesso, che, dopo la stagione dei “Tea Party”, è di fatto diventato conservatore.
Grazie alle divisioni regnanti in quel campo, Trump è poi riuscito a imporsi nelle primarie con circa un terzo dei voti Repubblicani (un poco di più alla fine, con i rivali oramai fuori gioco). Quando la matematica lo ha laureato candidato presidenziale, il partito ha mutato strategia una prima volta nel tentativo di scongiurare scissioni e strappi insanabili; convinto che il milionario non ce l’avrebbe mai fatta contro la Clinton, ha solo scelto di assisterlo nel suo suicidio politico, sicuro così di liberarsene per sempre. L’ala più oltranzista ha peraltro cercato fino all’ultimo di scippargli la nomination, proponendo in corso d’opera il cambio delle regole con cui in luglio la Convenzione nazionale era tenuta, come da prassi, ad assegnare il titolo; ma la cosa avrebbe trasformato Trump in un martire, ragione per cui la mozione ha ottenuto solo appoggi di bandiera (per quanto indicativi). Poi, tra luglio e settembre, la decisione di Trump di scegliere Mike Pence come running-mate seguita dalle sue clamorose aperture nei confronti dei nemici conservatori e della Destra cristiana hanno abbassato per un po’ il livello dello scontro, ma l’oramai famoso video grossier diffuso venerdì da The Washington Post ha fatto definitivamente saltare quel delicato equilibrio.
Ryan e Trump non si sono mai presi. Il presidente della Camera ha sempre fatto il minimo indispensabile per il magnate newyorkese. Lo stesso è accaduto per gran parte del GOP e per una fetta notevole dei conservatori che a fatica hanno ingollato il boccone amaro Trump. Adesso però i nodi vengono al pettine e per molti il “fuori onda” in cui il tycoon si lascia letteralmente andare arriva come una liberazione. Ora infatti nessun conservatore potrà essere accusato di tradimento se abbandonerà Trump.
Nei pressi del GOP gira nondimeno un piano B. Sperare che Trump ricuperi, vinca e poi pregare che si dimetta (aiutando la preghiera con un forte pressing) promuovendo automaticamente alla presidenza il buon vice Pence. Ne parla The Wall Street Journal di ieri con la penna di Scott Gant, avvocato costituzionalista, e di Bruce Peabody, professore di Scienze politiche alla Fairleigh Dickinson University nel New Jersey. Come dire che, comunque vada, il trumpismo appartiene già al passato.
Marco Respinti
Versione definitiva dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LI, n. 282, Milano 12-10-2016, p. 12
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