È arrivato il momento degli addii. Barack Obama raccoglie i propri effetti, infilando nello scatolone penne, gomma e temperino, il quadretto di famiglia che stava là sull’angolo della scrivania, le promesse mai mantenute. Lemme e mesto. La ricreazione è finita è l’ex sconosciuto con il futuro dietro le spalle l’esame non l’ha passato. E dire che ci ha riprovato; ha ripetuto l’anno, anzi gli anni, ben quattro, ma niente. Bocciato ancora. Chi ha bocciato Barack Obama? Ma Barack Obama stesso.
La (s)confessione pubblica Obama l’ha firma su The Economist, in Italia su la Repubblica. Si chiama «[…] scontento diffuso in tutto il mondo». Vero. Il mondo è più triste di prima, più sfiduciato, più sfilacciato. È la colpa di chi è? Chi è stato per otto anni alla guida del Paese più importante del mondo, per certi versi anche il più potente? Il Paese che ha livelli di know-how e forza lavoro che in altri Paesi nemmeno di sognano? Il Paese che come nessun altro può contare su uno spirito d’intrapresa e su una “conduzione familiare allargata” capaci di far fronte a qualsiasi imprevisto? Lei, Mr.President; per otto anni a capo di quel Paese unico c’è stato lei. E il risultato qual è? Depressione e frustrazione. Sfiancamento. Asma.
Obama scrive di «[…] scetticismo verso le istituzioni internazionali, gli accordi commerciali e l’immigrazione». Chi è stato per otto anni a capo del Paese crocevia dei rapporti e degli scambi internazionali, cerniera tra Sud e Nord del mondo, Est e Ovest? Chi è stato per otto anni a capo del Paese chiave del concerto tra le nazioni e della sinergia mondiale? Del Paese abituato da almeno un secolo a essere la locomotiva del mondo, il faro dello sviluppo, la Mecca dell’investimento produttivo? Lei, Mr. President, e nessun altro. Se oggi il mondo non si sente sicuro, non si fida, guarda con sospetto i tre quarti delle responsabilità sono di Obama.
Il mondo è più insicuro di otto anni fa, più instabile, meno agibile. Ma chi si è comportato da rammollito in Medioriente e in Nordafrica, chi ha cercato di mentirsi allo specchio sulle “primavere arabe” facendo più disastri di quanti già ve ne fossero, chi non ha saputo fare del rilancio imprenditoriale ed economico del Paese una risorsa in grado di trainare il resto del mondo, rilancio imprenditoriale ed economico dovuto esclusivamente alla capacità degli americani di rinnovarsi non certo agli “stimoli” e alle iniezioni demoralizzanti di statalismo? Chi ha sistematicamente ceduto su ogni fronte, lasciando che l’Arabia Saudita si comprasse mezza America, la Cina praticamente il resto e i Lando Buzzanca dello scenario internazionale, tutti muscoli steroidati e mascelloni (in Russia ce n’è qualcuno), prosperassero per horror vacui? Sempre lei, Mr. President. La sua renitenza da burbetta sciatta, il suo marcar visita da marmittone indolente, il suo ritiro dal mondo hanno lasciato crescere la gramigna.
Obama lamenta una situazione «[…] di produttività in calo e di aumento delle ineguaglianze» che «[…] hanno rallentato la crescita degli introiti delle famiglie a basso e medio reddito. La globalizzazione e l’automazione hanno indebolito la posizione dei lavoratori e la loro capacità di garantirsi un salario dignitoso. […] E la crisi finanziaria del 2008 non ha fatto che isolare ancor di più la grande impresa e le élite rispetto ai comuni cittadini». E di chi è la colpa se i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri se non di chi ha sistematicamente denigrato e deprezzato il ceto medio, spolpandolo con le tasse ma chiudendo regolarmente un occhio anzi due verso i (pre)potenti a patto che fossero rigorosamente liberal (in casa Clinton ne conoscono qualcuno), lasciati liberi di agire indisturbati dopo che lo schiacciasassi dello statalismo ha distrutto il toccasana della concorrenza? Ancora lei, Mr. President.
Obama scrive: «Un’economia va meglio quando si riduce il divario tra ricchi e poveri e la crescita è ampiamente diffusa. Non è solo un’argomentazione morale. Le ricerche dimostrano che nei Paesi con maggiore disuguaglianza la crescita è più fragile e le recessioni più frequenti». Lo sa anche un ragazzo di prima liceo. Ma di chi è la colpa se un numero sempre maggiore di americani vive di buoni-pasto dello Stato, se tutto, dall’Obamacare in qua, è stato pensato per asservire sempre più i cittadini allo Stato? Provi a indovinare, Mr. President.
Sì, una volta tanto, l’unica, siamo d’accordo con Barack Obama. Fiasco totale su tutta la linea. Il mondo che lei ci lascia, Mr. President, è peggiore di quello che ha trovato otto anni fa. Si spengono i rumori, si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffè. Le strade son deserte, deserte e silenziose, un’ultima carrozza cigolando se ne va’. Fra poco Barack Obama sarà solo un ricordo. Regaliamoci allora Ben altro ricordo. «Com’è la città in questa notte d’inverno? Più prospera, più sicura e più felice di quanto lo fosse otto anni fa. Ma ancora di più: dopo 200 anni, due secoli, svetta ancora forte e fedele sul crinale di granito, e il suo splendore non lo ha mai appannato nessuna tempesta. Ed è ancora un bastione, ancora un magnete per tutti coloro che anelano alla libertà, per tutti i pellegrini di tutti i luoghi perduti che corrono nel buio verso casa». È Ronald Reagan, nel discorso di commiato alla nazione dell’11 gennaio 1989. Altra pasta, Mr. President, altra stoffa. Se ne faccia una ragione.
Marco Respinti
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