Per gentile concessione dell’editore Istituto di Apologetica, pubblichiamo qui alcuni estratti dell’opera Dizionario di Apologetica (pp. 600, euro 25) a cura di Gianpaolo Barra, Mario A. Iannaccone e Marco Respinti: oltre 140 voci compilate da 36 esperti, che offrono un’interpretazione controcorrente, decisamente politicamente scorretta, di alcuni lemmi sensibili del nostro passato (da “Crociate di Terrasanta” a “Illuminismo” fino a “Resistenza”) e della nostra contemporaneità, da “Civiltà islamica” a “Comunismo”, da “Fisco” a “Guerra giusta”. Un’opera di chiarificazione lessicale ma anche di profonda onestà intellettuale, che restituisce alle parole il loro senso e il loro peso, oltre i buonismi, i conformismi e le ipocrisie linguistiche, guidata unicamente dalla ricerca della verità. Di seguito, quattro delle voci compilate dalla firma dell’Intraprendente, Marco Respinti.
CIVILTÀ ISLAMICA
Islam è un termine arabo che significa “sottomissione totale [di sé a Dio]”; musulmano (dal nome verbale arabo muslim) significa “sottomesso [a Dio]”. L’islam è un prodotto arabo, anzitutto per evidenti ragioni storiche, quindi per conquista. La fede musulmana si concepisce come la rivelazione di Dio a Maometto (570?-632), guida degli arabi, i quali, da quel momento, sono i diffusori e i difensori del messaggio divino. Nell’islam non esiste un’autorità centrale e docente riconosciuta universalmente da tutti, il cui magistero guidi nell’interpretazione autentica delle Scritture, definisca la dottrina distinguendola dall’eresia e risolva i casi controversi; esiste solo la lettura letteralistica del Corano, e ogni interpretazione teologica, filosofica o anche solo allegorica del testo è vietata e punita. Nessun musulmano può quindi definire eterodosse le idee e le pratiche di un altro musulmano, nella misura in cui questi riesca a ricondurle direttamente alla lettera coranica. Nelle società islamiche, la legge religiosa determina e condiziona la legge civile. Le pene per i trasgressori sono particolarmente severe.
La totale assenza di autonomia dal letteralismo religioso in qualunque ambito rende impossibile il confronto e il dialogo. Nessun musulmano può convertirsi ad altra fede, pena la morte. Tutta la cultura percepita come “profana” (filosofia, arte, ingegneria civile, tecnologia, costumi militari), cioè basata sulle capacità di elaborazione creativa dell’uomo, è considerata blasfema e quindi condannata alla distruzione. Solo in rari casi qualche governante musulmano ha estemporaneamente praticato scelte diverse, ma sempre e solo a titolo personale, e comunque a proprio rischio e pericolo davanti al giudizio dell’intero mondo islamico.
Mentre nel cosiddetto Medioevo la Cristianità ha raggiunto rapidamente livelli di eccellenza in tutte le arti e i saperi, anche sviluppando il meglio dell’eredità culturale classica (Cristianesimo e mondo antico) e gettando le basi di tutto ciò che nell’epoca moderna viene ritenuto progresso (spesso invece falsamente attribuito dalla mentalità dell’Illuminismo e alla “liberazione” dal cristianesimo), la civiltà politica ispirata all’islam ha costretto i popoli conquistati al regresso e all’incultura.
COMUNISMO
L’idea di una società egualitaristica è presente sin dall’antichità presso diversi popoli ed è un tratto distintivo sia delle civiltà imperniate sullo statalismo accentratore sia delle dottrine sociali di ambienti e movimenti ereticali in cui sorge l’idea di una Teologia politica. Il matematico russo Igor R. Šafarevič ne offre un importante quadro in un’opera non priva di errori di prospettiva e di valutazione (fu scritta usando i materiali disponibili in Unione Sovietica), e nemmeno esente da un certo anticattolicesimo tipico del mondo ortodosso, ma nondimeno assai significativa: Il socialismo come fenomeno storico mondiale (presentazione di Aleksandr I. Solženicyn [1918-2008], trad. it., la Casa di Matriona, Milano 1980). I termini “socialismo” e “comunismo”, ampiamente sovrapponibili e sovente utilizzati come sinonimi, nascono il primo attorno agli anni 1830 in Francia e parallelamente in Gran Bretagna, e il secondo dall’idea di una proprietà “comune” e “collettiva” dei beni e dei mezzi di produzione; suggestivi precedenti ideali ne sono però la Comune di Parigi, ovvero il governo municipale istituito tra il 1789 e il 1795 dalla Rivoluzione Francese, dunque sovrapposto perfettamente al Terrore (settembre 1792-luglio 1794) e alla scristianizzazione (novembre 1793-febbraio 1795), e la “seconda” Comune rivoluzionaria di autogoverno socialista e anarchico installatasi nella capitale francese con l’insurrezione antiliberale del 18 marzo 1871. La Rivoluzione Francese e il pensiero dell’ Illuminismo sono del resto fondamentali per l’elaborazione e lo sviluppo dell’ideologia comunista, come ha dimostrato anzitutto lo storico comunista francese Albert Mathiez (1874-1932) con Le Bolchévisme et le Jacobinisme, pubblicato a Parigi nel 1920 per i tipi della Librairie du Parti Socialiste et de l’Humanité (l’organo di stampa del partito), e poi compiutamente, da prospettive opposte, lo storico francese Stéphane Courtois. Ideologi e sette ideologiche proto-comuniste sono infatti all’opera durante la Rivoluzione Francese (oltre che nel corso della rivoluzione puritana inglese, 1642-1659), legate ai nomi, almeno, di Jean-Paul Marat (1743-1793), Jacques-René Hébert (1757-1794) e François-Noël Babeuf detto Gracchus (1760-1797); queste poi, grazie ai loro discepoli, quali per esempio Filippo Buonarroti (1761-1837), si diffondono oltre i confini francesi nella prima metà dell’Ottocento, attraversando la prima fase del Risorgimento e lasciando eredità importanti anche nella seconda. Il comunismo diviene quindi un sistema ideologico conchiuso con la pubblicazione nel 1848, l’anno della “grande rivoluzione” europea, del Manifesto del Partito Comunista del tedesco Karl Marx a Londra, dove egli si trovava in esilio. Marx, che riconosce alla Rivoluzione Francese il merito di avere distrutto quel che restava del passato “feudale”, definisce la propria ideologia comunista come «socialismo scientifico» per distinguerla dal «socialismo utopistico» precedente, che egli critica fortemente. Assieme al filosofo tedesco Friedrich Engels (1820-1895), Marx cristallizza la dottrina comunista fondandola su ateismo, materialismo dialettico, materialismo storico, collettivismo socio-economico, abolizione della proprietà privata e dittatura del proletariato come mezzo per ottenere la società senza classi (cfr. Stéphane Courtois [a cura di], Dictionnaire du communisme, Larousse, Parigi 2007.). Per il pensiero della Contro-Rivoluzione è la terza tappa della Rivoluzione anticattolica dopo il Protestantesimo e la Rivoluzione Francese, e prima del Relativismo della “quarta rivoluzione”.
Con la Rivoluzione bolscevica detta “di Ottobre”, avvenuta in Russia nel 1917, il comunismo compie un decisivo salto di qualità conquistando per la prima volta il potere. Con un putsch e a costo di una sanguinosa guerra civile (1918-1921), Vladimir I. Ulianov detto Lenin (1870- 1924) crea dunque l’Unione Sovietica. Con Iosif V. Džugašvili detto Stalin (1878- 1953) il comunismo sovietico raggiunge picchi di parossismo e di atrocità. I movimenti e i partiti comunisti si moltiplicano in tutto il mondo a prezzo di scontri e di violenze. Dopo la Seconda guerra mondiale (1939-1945), il marxismo-leninismo va al potere, sempre attraverso colpi di mano e scontri, in numerosi Stati dell’Europa Centrale e Orientale. Nel 1949, dopo una lunghissima guerra civile (1927-1950), occupa la Cina con Mao Zedong (1893- 1976), responsabile di altri picchi di parossismo e di atrocità. Negli anni 1960, 1970 e 1980 si diffonde a macchia d’olio, ancora una volta manu militari, in Asia, Africa e America Meridionale con nuovi picchi di parossismo e di atrocità, mentre nel mondo occidentale si moltiplicano i partiti comunisti, talora fortissimi (per esempio in Italia, sede del partito comunista più forte del cosiddetto “mondo libero”), e i movimenti terroristico-insurrezionali finanziati dall’Unione Sovietica e dal suo “impero”.
Finalmente, nel 1989 il sistema sovietico implode, schiacciato dall’insostenibilità socio-economica e politico-militare del collettivismo, dello statalismo, della burocrazia e della sua macchina repressiva. Scompare così una delle grandi centrali di propulsione ideologica, economica, politica, militare e propagandistica del socialcomunismo internazionale, certamente la più notevole dal punto di vista della “mitologia” e del “proselitismo”. Ma l’ideologia comunista, esaurito l’elemento statuale sovietico, sopravvive con le sole modifiche dettate dalla stretta necessità di sopravvivenza soprattutto in Cina o sa trasformarsi in una nuova fase del “socialismo” che usa di strumenti diversi, dall’Ecologia al Gender, per diffondere il proprio materialismo (→ Anima, Esistenza dell’), e che prospera attraverso la globalizzazione di un economicismo materialista che, invece di difendere la proprietà privata e la libera intrapresa, realizza nei fatti parte sostanziale del programma storico-filosofico marxiano e marxista.
FISCO
La legittimità della leva fiscale è un caso specifico della legittimità del governo politico, di cui lo Stato moderno è una forma. Se un determinato governo politico è legittimo, lo è anche il suo potere alla leva fiscale. La legittimità del governo politico, anche nella sua distinzione dalla Chiesa, è espressamente affermata da Gesù: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21; cfr. anche Mc 12,17). È infatti buono, giusto e necessario che gli uomini si governino, ovvero si dotino di norme che ne regolino la vita associata con giustizia. Un governo degli uomini per gli uomini è legittimo quando opera secondo giustizia, equità e misura rispettando il diritto naturale nella prospettiva del bene comune; è un governo legittimo è cristiano quando rispetta il diritto naturale, opera per il bene comune, rende culto pubblico a Dio e s’impegna per la regalità anche sociale di Cristo, così come ultimamente definita da Papa Pio XI (1857-1939) nell’enciclica Quas primas del 1925. La regalità sociale di Cristo è lo scopo cui tende la dottrina sociale della Chiesa, che ‒ dice Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005) nell’enciclica Sollicitudo rei socialis del 1987 ‒ è «teologia morale» (n. 41), ovvero morale sociale, dunque ‒ dice Papa san Giovanni XXIII (1881-1963) nell’enciclica Mater et magistra del 1961 ‒ «parte integrante della concezione cristiana della vita» (n. 206).
Ciò non comporta però l’accettazione acritica di qualsiasi governo politico, dunque di qualsiasi leva fiscale. Non ogni governo politico è infatti legittimo (certamente non lo sono quelli totalitari) e anche quelli che lo sono possono amministrare in modo dirigistico, dispotico o tirannico. Se un governo politico è illegittimo, o legittimo ma dispotico, sono o diventano – del tutto o in parte – illegittime anche le sue prerogative, tra le quali la leva fiscale. Del resto, anche un governo legittimo non dispotico può imporre una tassazione esagerata o ingiusta. Al governo illegittimo o ingiusto è moralmente legittimo resistere e opporsi, dunque lo è anche resistere e opporsi alle sue prerogative parzialmente o completamente illegittime. Analogamente, è moralmente legittimo resistere e opporsi a prerogative di per sé legittime che un governo pur legittimo esercita in modo ingiusto e dispotico. La leva fiscale è la contribuzione del cittadino al bene comune e quindi, dice il Servo di Dio Papa Pio XII (1876-1958), «non esiste dubbio sul dovere di ogni cittadino di sopportare una parte delle spese pubbliche» (Discorso ai partecipanti al X Congresso dell’Associazione Fiscale Internazionale del 2 ottobre 1956); ma la tassazione dev’essere motivata, adeguata ai tempi e ai luoghi, moderata e trasparente. Già san Paolo e sant’Agostino d’Ippona (354-430) «[…] ritenevano legittima la tassazione e giustificato il pagamento delle tasse al Sovrano, ma come conseguenza di servizi che fossero in grado di garantire la difesa esterna e l’ordine interno. In caso contrario, infatti, arrivavano a giustificare la disobbedienza civile» (Gian Piero Iaricci, Istituzioni di diritto pubblico, Maggioli, Santarcangelo di Romagna [Rimini] 2014, nota 1, p. 389).
GUERRA GIUSTA
Vi sono casi, circostanziati e specifici, in cui la morale cattolica e il Magistero della Chiesa non solo ammettono la guerra, ma persino la ritengono doverosa quale atto di giustizia e di carità. Nel pensiero cattolico, il potere politico ha infatti il diritto e il dovere di difendere sia i cittadini che governa sia la verità. È la dottrina della “guerra giusta”, che sorge nella riflessione di sant’Agostino d’Ippona (354-430), viene elaborata dalla teologia scolastica medioevale, viene “codificata” da san Tommaso d’Aquino (1225-1274) ed è approfondita dalla riflessione cristiana dei secoli XVI-XVII allorché s’intreccia con lo ius gentium, matrice dell’attuale diritto internazionale di cui è considerato fondatore Francisco de Vitoria, O.P. († 1546), il creatore della Scuola filosofica di Salamanca, in Spagna, che s’incentrò sulla rivalutazione dell’Aquinate e lanciò la cosiddetta Seconda Scolastica. Nondimeno, attenendo alla morale naturale, la riflessione sulla guerra giusta è presente anche nella filosofia classica. Il concetto di guerra giusta si articola nel “diritto di fare la guerra” (ius ad bellum) e nel “diritto da rispettare durante la guerra” (ius in bello). Per san Tommaso, cui appartiene la definizione “canonica” del bellum iustum, è giusta la guerra che soddisfa tre criteri: che essa sia dichiarata da un’autorità legittima, che venga intrapresa per una causa buona e per fini giusti, e che venga condotta con modi leciti in base al diritto naturale nonché sempre ben proporzionati allo scopo da raggiungere (debitus modo). Oggi, quest’ultimo criterio riecheggia in accordi internazionali quali le Convenzioni di Ginevra che fissano regole di comportamento bellico universali tali che l’infrangerle comporta crimine grave e disdoro; la spoliazione dei nemici e le rappresaglie sono infatti sempre ingiustificate e quindi moralmente illecite.
Per la Chiesa Cattolica, la guerra giusta è la soluzione ultima ed estrema da adottare per risolvere un contenzioso fattosi insanabile la cui posta in gioco siano il bene comune e la verità delle cose, quando tutte le altre vie di conciliazione sono state tentate e sono fallite. L’intenzione di chi muove una guerra giusta deve pertanto essere quella di operare il bene rifuggendo il male. Anche a guerra in corso, non si deve del resto smettere di perseguire parallelamente altre soluzioni diplomatiche miranti a sanare il conflitto e lo scopo dev’essere sempre il più pronto ristabilimento di quella pace che, dice sant’Agostino, è la «tranquillità dell’ordine» (De civitate Dei, 19, 13). La guerra giusta può essere dunque sia di legittima difesa sia di attacco, se ne sussistono le condizioni. Di fatto, essa è comunque sempre un moto difensivo od offensivo di reazione e di contrasto a un disordine, dev’essere quanto più possibile limitata nel tempo e nello spazio, non deve tentativamente coinvolgere i civili, deve avere possibilità oggettive di successo nonché aspettative concrete di benefici superiori ai danni e dev’essere condotta senza crudeltà inutili, ma pur sempre nel convincimento che la responsabilità morale ultima della perdita di vite umane che essa comporta ricade su chi, nel contenzioso, muove da posizioni d’ingiustizia, di torto e di malvagità. Tra i motivi leciti per la guerra vi è la tutela da parte di uno Stato dei propri diritti legittimi, l’autodifesa di uno Stato dall’aggressione e la difesa di uno Stato terzo aggredito ingiustamente; la prima e la terza motivazione contemplano la liceità della difesa preventiva nella forma dell’attacco.
Pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 15-08-2016
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