Thomas Sowell (economista, attualmente Senior Fellow alla prestigiosa Hoover Institution on War, Revolution, and Peace dell’università californiana di Stanford, conservatore e di pelle nera) non ha mezze misure. Alle elezioni presidenziali dell’8 novembre gli americani saranno costretti a scegliere tra «[…] un bugiardo totalmente corrotto e un egocentrico del tutto irresponsabile». Lo ha scritto il 17 maggio su National Review, ma molti sono perplessi: chi tra il Repubblicano Donald J. Trump e la Democratica Hillary Clinton è il bugiardo e chi è il corrotto? Quella che si respira, insomma, è un’aria di smobilitazione.
Da tempo il confronto tra i candidati non era così combattuto. Trump ha ottenuto la nomination con un duello durato praticamente sino all’ultimo giorno; la Clinton ha staccato abbastanza presto Bernie Sanders, ma nondimeno lo sfidante ha continuato a eroderne l’immagine pubblica. Sembrano diversi, ma in realtà sono finali del tutto simili.
Potrebbe cioè sembrare che tra i Repubblicani abbia trionfato l’alternativa alla politica professionista mentre tra i Democratici il “correntone” storico impermeabile agli arrembaggi massimalisti, ma non è così: la sostanza dell’offerta politica di fronte alla quale si troveranno gli americani l’8 novembre è uguale. Che cosa differenzia, infatti, l’opportunismo etico di uno dal cinismo ideologico dell’altro? In cosa diverge una politica estera che alterna isolazionismo demagogico e bellicismo confusionario dall’altra che perora il populismo antimilitarista oggi per scendere maldestramente in guerra domani? E in economia qual è l’alternativa tra la politica che strizza l’occhio a Wall Street e il “consociativismo” tra i poteri?
L’8 novembre mancherà cioè completamente una porzione enorme dell’elettorato americano: mancherà la gente normale, di destra o di sinistra che sia, mancheranno le famiglie, mancheranno i lavoratori, mancherà persino l’uomo comune. Se l’uomo comune americano è di sinistra, il suo vero patrono è infatti senza dubbio Sanders. Se invece è di destra, il suo leader non è certo Trump che al massimo può aspirare a incarnarne la caricatura. Certo, ogni elezioni rigidamente bipolare esclude sempre una parte dell’elettorato, ma nel 2016 le dimensioni del fenomeno segneranno sicuramente il record, e non è affatto un discorso di mero astensionismo. Ecco, l’aria di smobilitazione di un Paese che sembra rassegnato, deluso, triste è la conseguenza di questa esclusione: un esercito di scontenti e di scornati al voto, quelli che ci andranno.
Ovviamente i milioni di americani che hanno già scelto Trump e Hillary pensano il contrario, ma non costituiranno mai la “maggioranza qualificata”. Trump sta infatti ancora faticando per accreditarsi come l’uomo del “Dio, patria e famiglia” Repubblicano proprio come la Clinton sta sudando le famose sette camice per imporsi come paladina dei diseredati.
Indubbiamente molti Repubblicani ostili a Trump finiranno per votarlo pur di sconfiggere la Clinton; “mister miliardo” lo sa bene ed è per questo che verso gli ex avversari interni ora vesti i panni dell’agnellino. Sull’altro versante, a Hillary mancheranno certamente diversi voti dell’elettorato di Sanders: il punto è capire qual è la soglia del dolore. In entrambi i casi, il giorno seguente le elezioni del prossimo presidente i due partiti maggiori degli Stati Uniti si troveranno a specchiarsi nello spettro del proprio futuro. Entrambi dovranno fare i contri con smottamenti che, in questa misura, non si vedevano da anni; entrambi dovranno cominciare a ripensarsi.
È per questo che, tra le righe, parrebbe serpeggiare senza nemmeno averne l’aria una pazza idea. L’idea che forse forse le elezioni quest’anno è meglio perderle invece che vincerle. Un Trump perdente sarebbe infatti un Trump finalmente neutralizzato, e i Repubblicani ci metterebbero la firma subito; una Clinton sconfitta sarebbe invece la strategy exit Democratica migliore per lasciare gli avversari con in mano il cerino di un mondo sempre più ingovernabile onde concentrarsi sugl’interni. Negli Stati Uniti vige infatti una legge non scritta. Alle elezioni di “medio termine”, quelle che a metà di ogni mandato presidenziale rinnovano per intero la Camera e un terzo del Senato (le prossime saranno nel 2018), vince spesso il partito opposto a quello del presidente in carica. Né Trump né la Clinton sembrano avere il fisico per governare con un Congresso fortemente ostile. Se così fosse, e se dunque vincesse la pazza idea, l’8 novembre alle urne mancherebbero non solo moltissimi americani, ma persino la politica stessa.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in il nostro tempo, anno 71, n. 20, Torino 22-05-2016, pp. 1 e 9
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