Sono stati i monaci dell’abbazia benedettina di Saint Joseph, in Louisiana, a stabilire un punto fermo della libertà economica quando nel 2013 hanno vinto davanti alla Corte di Appello del 5° Circuito degli Stati Uniti la causa che consente loro di vendere corone di fiori per bare senza doversi dotare di una costosa (e inutile) patente di agenti delle pompe funebri come invece pretendeva lo Stato.
E su Forbes, una delle “bibbie” del capitalismo mondiale, Nick Sibilla dell’Institute for Justice ‒ l’organizzazione di orientamento libertarian che ad Arlington, in Virginia, si occupa di difendere le libertà americane, da quella di religione a quella economica ‒ documenta che se la Corte Suprema federale di Washington dovesse approvare il “matrimonio” gay (la sentenza è attesa primo o poi in giugno) gl’imprenditori ci rimetteranno, la libertà economica soccomberà e al suo posto vincerà il consociativismo inciucista tra statalismo, interessi illegittimi e abusi legislativi, ovvero quello che in inglese si chiama crony capitalism e che è il nemico numero uno della concorrenza e dell’intrapresa.
Lo sdoganamento dei “matrimoni” omosessuali renderà infatti impossibile ai businessmen spuntarla in tribunale contro la soffocante rete di leggi e leggine che uccidono il mercato.
Tutto gira attorno al XIV Emendamento alla Costituzione federale, quello che dopo la Guerra di secessione (1861-1965) garantì eguale trattamento giuridico e giusto processo a tutti i cittadini dell’Unione nordamericana (quindi per la prima volta anche ai neri). Ebbene, davanti a un processo per violazione del XIV Emendamento lo Stato federale afferma sempre che il danno riguarda “diritti non fondamentali”: tra essi il diritto al guadagno lecito e il diritto a possedere a disporre di beni in proprietà. Lo Stato dice cioè che di questi “diritti non fondamentali” dispone giurisprudenzialmente la Corte Suprema in base al rational-basis test: il banco di prova della ragionevolezza. Basta insomma che una legge abbia una qualche “ragionevole” legame con un “legittimo interesse dello Stato” e quest’ultimo è sollevato dal dovere di fornire in aula prove di altro tipo, lasciando che sia il “ragionamento” a spiegare il proprio operato. Lo diciamo altrimenti? Lo Stato può disinvoltamente violare il diritto di proprietà dei cittadini senza dovere renderne conto ad alcuno, ergo lo Stato è al di sopra della legge e la può infrangere a piacimento.
Pensiamo che c’è un tribunale d’appello federale, evidenzia Sibilla su Forbes, che ha persino stabilito che il consociativismo tra Stato e determinati interessi economici (il famoso crony capitalism) è «un interesse legittimo» dei singoli Stati dell’Unione federale, poiché, «come il baseball è il passatempo nazionale dei nostri cittadini, il dispensare speciali vantaggi economici a determinate industrie di un determinato Stato dell’Unione resta il passatempo preferito di determinati governi locali»…
Ebbene, la decisione della Corte di Appello del 6° Circuito degli Stati Uniti, ricorda Sibilla, ha applicato il criterio di questa “ragionevolezza” alle legislazioni che in determinati Stati dell’Unione ancora vietano o limitano il “matrimonio” omosessuale, motivo per cui la questione pende ora davanti alla Corte Suprema che di quella “ragionevolezza” dovrà ragionare emettendo un responso finale che peserà come un macigno. Embè, direte? Ebbè, chi pensate che vincerebbe domani in tribunale se anche le più smaccate forme di favoritismo e persino di nepotismo solo superficialmente coperte dal fard dei “diritti degli omosessuali” potessero godere della “benedizione” del garante della legge fondamentale del Paese? Chi elargisce prebende di Stato per il consorte gaio che fa causa perché violato nei propri “diritti fondamentali”, oppure l’imprenditore che cerca di esercitare il sacrosanto “diritto non fondamentale” a preservare l’azienda di famiglia se serve pure licenziando un operaio omosessuale che batte la fiacca?
Insomma, se la Corte Suprema degli Stati Uniti legalizzasse il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso, estenderebbe il peloso criterio della “ragionevolezza” del più forte a ogni causa giuridica che avesse bisogno di una spintarella per legalizzare l’arbitrio a spese dei cittadini. Perché l’arcano sta qui: non c’entrano affatto i “diritti dei gay” (che infatti sono pochi), c’entrano invece gli abusi legalizzati con cui si può tiranneggiare un Paese intero privandolo del diritto certo e della proprietà. Si profila insomma un colossale inciucio tra un legislatore a cui dei gay in realtà forse non frega nulla (ma dei loro denari e dei loro poteri sì) e i danarosi potentati omosessuali.
Marco Respinti
Versione completa e originale
dell’articolo pubblicato con il titolo
Perché agli imprenditori Usa non piagce il matrimonio gay
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 08-06-2015
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