Posto fisso? Fossi fesso… Ovvero, continuare a picchiare la testa per convincersi che si riesce ad attraversare i muri produce soltanto dolore. Il lavoro scarseggia, la disoccupazione è alle stelle, le retribuzioni sono quel che sono, le tasse (e le accise, e le imposte indirette) crescono quotidianamente, e qualcuno vorrebbe concedersi il lusso di fare l’altezzoso di fronte a un lavoro quale che esso sia? Se è un trinariciuto sindacalista sì, ma questo è un altro discorso.
Le persone normali, invece, lavorano. Sodo, se serve. Fatta salva la basilare dignità della persona, fan di tutto pur di assicurare alla famiglia la sussistenza e sacrificano il proprio benessere per concedere, sempre alla famiglia, un qualcosina una tantum in più. Non sono esattamente quel che si dice un ultrà di Costantino della Gherardesca; solo a sentire la parola Rai m’irrito; stramaledico le trasmissioni lacrimose, pietiste, buoniste, solidariste; ma non posso che ammutolire di fronte a Boss in incognito, di cui lunedì sera è partita la nuova stagione. Storie d’imprenditoria e di capitalismo responsabile (cioè il capitalismo tout court, il resto è consociativismo da crony capitalism), che indirettamente ricordano i bei tempi del feudalesimo, dove il padrone under cover si cala, come in una fiaba moraleggiante tradizionale, tra i dipendenti onde snidare il marcio e premiare l’eccellenza per scoprire che i suoi stipendiati sono fedeli alla causa cioè all’azienda come fratelli d’arme alla Crociata, tirano ogni mattina di lima con lena e fatica, insegnano il mestiere ai sottoposti con spietatezza (cioè con rigore e passione) e soprattutto compiono sacrifici enormi (e-n-o-r-m-i, vedere la prossima puntata per credere) per spedire a casa ‒ emigrati nel proprio Paese senza però fare i rompiglioni in piazza con le bandierine della Cgil o le molotov di moda nella banlieue ‒ un pezzo di pane. Alla famiglia.
Balle che la famiglia è in crisi, è morta, non esiste. Persino quelli che purtroppo hanno subito separazioni, divorzi o addirittura lutti si tirano un paiolo così per dare esistenza dignitosa ai figli. E quindi? E quindi fan gli sguatteri nell’unto di cucina, puliscono i cessi dei ricchi senza guanti, difendono una mise en place come fosse il Graal. E che succede alla fine? Succede che il padrone ne riconosce e apprezza il valore; ne corregge, anche con durezza, le mancanze (perché di perfetti c’erano solo i catari, ma noi quelli non li vogliamo); ne premia le capacità d’intrapresa, l’investimento su stessi e la fame di lavoro anche quando il lavoro fa schifo. Vale a dire riconosce in loro, nel loro piccolo, dei padroni in sedicesimo, dei ricchi in miniatura. Viva i ricchi, insomma, anche quando sono poveri; cioè viva tutti noi: voi e me per primo.
Costantino della Gheraredesca e il suo programma televisivo mi sono tornati in mente sentendo le parole pronunciate dall’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, agli auguri natalizi rivolti ai vertici e ai lavoratori della Sea che gestisce l’aeroporto di Malpensa, più i sindaci di area. Il cardinale – traduco – ha detto forte e chiaro: accettate anche il lavoro precario; la soluzione non sono mai “gli altri” (“le istituzioni”, “lo Stato”); un po’ di lavoro quando il lavoro non c’è è sempre meglio che niente lavoro, a meno di non essere di quelli che pur di fare dispetto alla moglie infedele si evirano, ovvero dei turbosindacalizzati che piuttosto fischian per le strade.
Sacrosanto. Quello del posto fisso è infatti un miraggio. Non esiste. È una palla al piede che ingessa il mercato del lavoro; se un’azienda non può licenziare, nemmeno assume. Certo, ci vogliono le garanzie dei diritti acquisiti: ma quale garanzie è superiore al merito dimostrato da chi si rende insostituibile alla propria azienda per capacità e spirito? Esattamente come nella tivù di Costantino della Gherardesca, dove anche il più squalo tra gl’imprenditori farebbe carte false per tenersi un dipendente che si dà tutto. Mica per il lavoro, ovvio, per la famiglia: ma agli occhi del padrone la differenza (che è un delta attinente alla nobiltà di spirito dell’operaio) non si vede. Il posto fisso è il ricatto che i fannulloni sono riusciti, in clima di marxismo imperante, a imporre a chi ci mette il denaro e la faccia. Il lavoratore onesto cerca piuttosto il lavoro stabile, che è tutt’altra cosa e che (chiedetelo a una partita Iva, a uno stagionale, a un artigiano, a un bottegaio) è fatto del mosaico di molti e differenti tasselli che ci s’ingegna a stanare ovunque, ognuno dei quali è a tempo determinato, a progetto, a scadenza, a consulenza. Pare che l’arcivescovo di Milano benedica.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord, Milano 24-12-2014
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