Nonostante tutto, perdura l’idea che la Guerra d’indipendenza americana (1775-1783) sia stata analoga alla Rivoluzione Francese (1789-1799), magari appena un poco meno cruenta. Tant’è che è di uso comune e universale definire la prima «Rivoluzione Americana», enfatizzando il primo dei due termini, «rivoluzione», e immancabilmente semantizzandolo alla luce, applicata retroattivamente, dell’Ottantanove francese, senza curarsi minimamente del fatto che all’epoca degli accadimenti legati alla loro indipendenza dalla Gran Bretagna gli americani semantizzassero invece in modo completamente diverso. Non fosse altro per il motivo che tra la fine della Guerra d’indipendenza americana e l’inizio Rivoluzione Francese corrono bei sei anni (durante i quali gli americani ebbero modo di progettare, incubare, scrivere, discutere e ratificare una Costituzione federale che ancora oggi dura immutata nella sua struttura portante, mentre nello stesso lasso di tempo, 6 anni, dal 1789 al 1795, la Francia rivoluzionaria di Costituzioni ne ha prodotte e consunte ben tre, e quella che la Francia ha oggi è passata attraverso innumerevoli rifacimenti) e addirittura quasi un quarto di secolo fra l’inizio della prima e al fine della seconda…
Eppure la differenza sostanziale e specifica tra la cosiddetta “Rivoluzione” Americana e la Rivoluzione Francese è incolmabile, acclarata e coeva ai fatti.
Nel famoso e intelligente La democrazia in America (pubblicato in due volumi, il primo nel 1835 e il secondo nel 1840) per esempio, Charles Alexis Henry Clérel de Tocqueville (1805-1859) avvisava, quasi volendo fissare un paletto invalicabile di qualsiasi ulteriore ragionamento sugli Stati Uniti, del fatto che «anzitutto mi sembra necessario distinguere accuratamente le istituzioni degli Stati Uniti dalle istituzioni democratiche in generale» (1).
Più ancora nel merito entra del resto lo storico statunitense Clinton L. Rossiter (1917-1970) nelel pagine di uno studio classico L’alba della Repubblica. Le origini della tradizione americana di libertà politica (trad. it. a cura di Cipriana Scelba, con una introduzione di Nicola Greco, Nistri-Lischi, Pisa 1963), inanellando sul tema una serie di constatazioni e di considerazioni decisive.
«Forse l’aspetto più singolare della letteratura politica di questo decennio [quello precedente l’inizio della Guerra d’indipendenza nordamericana]», scrive Rossiter,
«è il suo sostanziale conservatorismo. Se gli Americani sono stati i rivoluzionari più fortunati di tutti i tempi, lo sono stati più per caso che per elezione. Fino agli ultimi mesi prima dell’indipendenza, lo scopo costante della loro resistenza era di reinstaurare un vecchio ordine e non di crearne uno nuovo; di tornare, insomma “ai bei tempi di Giorgio II [1683-1760]» (2).
Infatti, prosegue lo storico statunitense,
«il conservatorismo insito anche nei più accesi sermoni e libelli appare evidente in quattro temi principali che venivano ripetuti senza posa: l’invocazione ai primi colonizzatori, l’appello alle antiche carte statutarie, la venerazione della Costituzione britannica e dei diritti britannici e l’omaggio alla monarchia» (3).
Del resto, precisa Rossiter,
«l’appello alla carta statutaria in difesa dei diritti coloniali, consuetudine cara anche ai residenti di colonie che non ne avevano, era un secondo esempio dell’orientamento conservatore del pensiero americano. In linea di diritto le carte non erano più sacre di altre concessioni medioevali ed erano esposte agli attacchi del Parlamento, delle corti e della Corona. Ma negli occhi e nelle argomentazioni dei coloni, specialmente degli abitanti della Nuova Inghilterra, erano dichiarazioni inoppugnabili dei “diritti e privilegi di sudditi nati naturalmente liberi della Gran Bretagna” e riconoscimenti irrevocabili dell’autorità delle assemblee di imporre tasse e di governare senza necessità di permesso da parte del Parlamento» (4).
Questo certamente il primo aspetto. Ma
«un’altra piattaforma assai più ampia, ma pure ugualmente conservatrice da cui si poteva resistere alle leggi oppressive del Parlamento erano la Costituzione Britannica e i diritti britannici — la prima che restava tuttora quel “glorioso tessuto”, “quella nobile costituzione, invidia e terrore di Europa”, i secondi che erano tuttora “i Diritti inviolabili degli Inglesi… Diritti, che né il Tempo né un Contratto, né il Clima possono sminuire!”. Non fu che verso la fine del decennio che gli Americani cominciarono a vacillare nelle loro fedeltà alla forma di governo e alle libertà di cui godevano in quanto “discendenti di Britanni nati liberi”. L’aperto attacco di [Thomas] Paine [1737-1809] alla “tanto vantata costituzione d’Inghilterra” era forse la parte più radicale del suo Common Sense. Quasi tutti gli altri coloni erano fieri di vivere sotto governi che erano quasi “copie del felice originale britannico”, o di godere i benefici della “costituzione britannica in forma più pura e più perfetta di quel che non abbiamo in Inghilterra”. La Magna Charta, la Gloriosa Rivoluzione, ed altri documenti venivano invocati a sostegno delle tesi patriottiche. La Dichiarazione dei Diritti inglesi, la Legge sull’Habeas Corpus, la Petizione dei Diritti venivano ristampate e ampiamente diffuse a edificazione del popolo. Non v’era aspetto della polemica coloniale in cui il suo orientamento conservatore apparisse più palese di questa leale, disperata venerazione per una forma di governo e per un sistema di diritti la cui caratteristica principale era la loro indubbia antichità» (5).
La principale differenza, insomma, tra cosiddetta la “Rivoluzione” Americana e la Rivoluzione Francese è l’essenziale carattere conservatore della prima ‒ che nessun accidens realmente (purtroppo) o apparentemente sovversivo sminuisce o sfregia ‒ e l’essenziale carattere sovversivo della seconda ‒ che nessun accidens apparentemente o (malgrado tutto) realmente conservatore sminuisce o sfregia ‒, tale per cui Rossiter può disinvoltamente osservare che
a questo conservatorismo nel dibattito politico faceva riscontro il conservatorismo nel pensiero politico. Per quanto radicali possano esser sembrati i principi rivoluzionari al resto del mondo, secondo le intenzioni dei coloni essi erano profondamente rispettosi del passato e desiderosi di preservarlo (6).
E questo anzitutto e soprattutto perché
la dottrina politica della Rivoluzione americana, in contrasto con quella della Rivoluzione francese, non era una teoria preparata allo scopo di rinnovare il mondo (7).
Lo ha osservato con grande precisione persino Lord John Emerich Edward Dalberg (1834-1902), 1° barone Acton ‒ maldestramente quanto grossolanamente sempre etichettato come “cattolico liberale”, di modo che egli “altro non potesse dire” o che “così egli comunque fosse qualsiasi cosa potesse dire” ‒, in questo additato a modello dal padre della rinascita conservatrice americana nella seconda metà del Novecento, Russell Kirk (1918-1994), vale a dire un actoniano abbondantemente improbabile, il quale, nella sua ultima conferenza pubblica ‒ quasi un testamento” culturale ‒, ne citò comunque più che volentieri parole pesanti come macigni:
Lungi dall’essere il prodotto di una rivoluzione democratica e di un’opposizione alle istituzioni inglesi, la costituzione degli Stati Uniti fu il risultato di una potente reazione contro la democrazia, a favore delle tradizioni della madrepatria. […] (8)
«Ma che ne è allora della Rivoluzione Americana», si domanda Kirk volendo intendere la rivoluzione americana vera ‒ e non quella cosiddetta, cioè la Guerra d’indipendenza ‒, «di cui il titolo di questo importante saggio [di Acton, Political Causes of the American Revolution, pubblicato sul periodico The Rambler, nel maggio 1861] promette un resoconto? E perché, forse che la Rivoluzione di cui Sir John Acton scrisse in quel suo saggio non sia cominciata nel 1775? No, essa cominciò nel 1861; e oggigiorno la chiamiamo Guerra Civile Americana, ovvero Guerra fra gli Stati» (9). Fu questa la vera rivoluzione americana che introdusse negli Stati Uniti la democrazia non statunitense della Rivoluzione Francese. Perché, come bene dice Acton,
è semplicemente la democrazia spuria della Rivoluzione francese che ha distrutto l’Unione, disintegrando i resti delle tradizioni e delle istituzioni inglesi (10).
Infatti, proseguiva Acton proprio contemporaneamente allo scoppio della Guerra cosiddetta Civile Americana, un Acton sempre citato a modello da Kirk,
La secessione degli Stati del Sud […] è importante soprattutto sotto la luce politica che la inquadra come una protesta e come una reazione contro le dottrine rivoluzionarie, e come un passo compiuto nella direzione opposta a quella che prevale in Europa (11).
Tanto che Kirk può alla fine commentare:
La rivoluzione confederata – giudicava Acton – fu una sollevazione intesa a proteggere la libertà; mentre la Rivoluzione Francese si è dimostrata essere, essa e le sollevazioni che l’hanno seguita in Europa, la strada che conduce a una tirannia abominevole (12).
Marco Respinti
Versione originale annotata ell’articolo pubblicato
con il medesimo titolo sul sito Comunità Ambrosiana di Alleanza Cattolica in Milano,
nella rubrica USA.. e non getta.
NOTE
(1) CHARLES ALEXIS HENRY CLÉREL DE TOCQUEVILLE (1805-1859), La democrazia in America, trad. it. in IDEM, Scritti politici, a cura di Nicola Matteucci, vol. 2, UTET, Torino 1968, p. 365.
(2) CLINTON L. ROSSITER (1917-1970), L’alba della Repubblica. Le origini della tradizione americana di libertà politica, trad. it. a cura di Cipriana Scelba, con una introduzione di Nicola Greco, Nistri-Lischi, Pisa 1963, p. 476.
(3) Ibid., p. 477.
(4) Ibid., p. 478.
(5) Ibid., p. 479.
(6) Ibid., p. 481.
(7) Ibid., p. 609.
(8) JOHN EMERICH EDWARD DALBERG (1834-1902), 1° BARONE ACTON , cit. in RUSSELL KIRK (1918-1994), Acton on Revolution, con una premessa di Robert A. Sirico, CSP, e una introduzione di Dermot Quinn, Acton Institute for the Study of Religion and Liberty, Grand Rapids (Michigan) 1994, p. 4.
(9) Ibid., p. 5
(10) Ibidem.
(11) Ibid., p. 6.
(12) Ibidem.
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