A metà Ottocento, Karl Marx (Karl Heinrich Marx, 1818-1883) prescrisse ai pensatori dell’“età progressista” la consegna rivoluzionaria per eccellenza: smettere di contemplare il creato, come fatto – a suo dire pedissequamente – dai pensatori dell’“età conservatrice”, per impegnarsi finalmente a trasformare radicalmente il mondo. Obbedendogli pure ante litteram, i filosofi moderni si sono infatti distinti da quelli classici (antichi e medioevali) per la smania di creare sistemi di pensiero autocratici che riducessero tutto (come poi sbotterà Arthur Schopenhauer, 1788-1860) a volontà e rappresentazioni proprie. Nel pensiero della Modernità, il mondo ha così smesso di possedere oggettività, finendo per assomigliare a una variante razionalista, laica e occidentale di quel volontarismo assoluto che è essenziale alla teologia islamica dove Dio è in sostanza un demiurgo permanente e un bel po’ gnostico se non persino relativista che in ogni momento e in ogni luogo può mutare a piacimento la natura intima del reale.
Per carità, tutto è avvenuto per gradi, attraverso una miriade di sfumature e a velocità alterne; ma il distacco dal filosofo classico (che in fin dei conti altro non è se non un segugio di razza a metà fra Indiana Jones e il commissario Maigret intento a interrogare le cose in cerca della verità) non potrebbe essere più netto. E nella tortuosa gestazione del moderno, seguita a quello che lo storico neerlandese Johan Huizinga (1872-1945) ha chiamato “autunno del Medioevo” per giungere al mondo in frantumi evocato da Aleksandr Solženicyn (Aleksandr Isaevič Solženicyn, 1918-2008), e affrescato a tinte forti da maestri del pensiero occidentale che vanno da Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) a Richard M. Weaver (Richard Malcolm Weaver, Jr., 1910-1963), la tappa fondamentale è stata la stagione dell’Illuminismo.
Illuminismo: già il nome è problematico. Analogamente a Rinascimento e Risorgimento si annuncia polemico. Tutto ciò che è venuto prima – sentenzia – è morto e tetro, tant’è che viene chiamato “antichità”, “evo medio” (una parentesi), “regime antico”. Ma c’è di più. L’impossibilità di ridurlo a unità.
La querelle sull’Illuminismo data dagl’illuministi stessi. Immanuel Kant (1724-1804) lo definì la fuoriuscita dalla stato di minorità dell’uomo diventato finalmente adulto, emancipato e liberto. Ma nemmeno questo basta. A malapena è sufficiente a rappresentare la Francia, dove l’Illuminismo fu il tritacarne indispensabile a fare tabula rasa del filosofare indagatore e conservativo precedente. Senza di esso, i pensieri sistemici delle epoche successive (al centro dei quali il filosofo si tramuta in deus ex machina di nuovi universi autoreferenziali) non sarebbero sorti. L’Illuminismo francese fu insomma più un metodo di critica radicale dell’esistente che un pensiero originale, un acido per sciogliere più che un mattone per costruire novità.
Ma si può dire lo stesso dell’Aufklärung tedesco, in cui (per quanto contraddittorio possa sembrare) già erano qua e là presenti i semi della reazione (antilluminista) romantica? Si può dire lo stesso di quel coacervo di tendenze che viene definito “Illuminismo scozzese”, germinato gomito a gomito alla filosofia (antilluminista) del Common Sense e trasportato pari pari nelle colonie britanniche (conservatrici) oltre l’Atlantico? Si può dire lo stesso del cosiddetto “Illuminismo lombardo”, arduo da separare dalla potenza reazionaria per eccellenza di allora, la Corona asburgica?
No, non si può. E cercare di farlo è solo l’ennesimo, miope e pervicace esempio di riduzionismo moderno posto al servizio del nuovo “sapere per il potere” (cioè l’ideologia), che, incapace di pensare genuinamente la totalità, non sa far altro che generalizzare indebitamente le esperienze prendendo lucciole per lanterne, anzi per lumi.
Lo statunitense Peter J. Stanlis (Peter James Stanlis, 1910-2011), il massimo studioso novecentesco del padre del conservatorismo, Edmund Burke (1729-1797), canzonava quei critici che sono abituati a definire “illuministi” tutti i pensatori che, evidentemente senza sceglierlo, si sono trovati a nascere nel secolo XVIII. Pensiamo che persino l’antimoderno Giambattista Vico (1668-1744) è stato spesso definito “protoilluminista”, e “proto” solo perché nato prima del Settecento. Nessuna meraviglia, allora, che possa spuntare a un certo punto persino un Voltaire cattolico (Lindau, Torino 2013), come magistralmente illustra Antonio Gurrado nel suo gustosissimo volume.
Bene inteso, cattolico Voltaire non lo è mai stato neanche di striscio. Basta rileggere la sua famosa geremiade sul “se Dio esiste perché c’è il male”, confezionata in forma di poema-riflessione dopo il terremoto di Lisbona del 1755, per rendersi conto che il nostro il catechismo lo bigiava. Ma la dotta quanto provocatoria analisi di Gurrado non sbaglia.
Lo conferma, da tempo, un testimone al di sopra di ogni sospetto: Erik von Kuehnelt-Leddhin (1909-1999), uno degli spirito più raffinati del secolo XX, austriaco accasatosi fra i conservatori americani, pago di descriversi monarchico filoasburgico, liberale e reazionario assieme. Uno dei suoi testi brevi più significativi (1992) distingue fra ben quattro diversi “liberalismi”, cioè forme antitetiche d’Illuminismo. Nel seno di uno di quelli conservatori, d’imprinting cristiano, annovera in modo guascone (con Burke e Adam Smith [1723-1790]) pure Voltaire, «un uomo […] completamente frainteso dai suoi contemporanei e dalle generazioni successive». Citando il poeta inglese Alfred Noyes (1880-1958), un convertito al cattolicesimo, biografo di Voltaire, ricorda che l’illuminista francese «fece costruire una chiesa a Fernet, andava a Messa ogni domenica ed era tutto fuorché un democratico».
Contraddizioni? Più che altro un reale più complesso di quello cui ci abituano gli schematismi, anche quando sensati. Per questo servono sempre mappe ben redatte tipo The Roads to Modernity: The British, French and American Enlightenment (Vintage, New York 2005) della storica statunitense Gertrude Himmelfarb (moglie del “padrino” dei neocon, Irving Kristol [1920-2009], e quindi madre del neo-neocon William Kristol). Il suo libro (che parrebbe riecheggiare persino in Papa Benedetto XVI) insegna a separare l’Illuminismo amico della religione e della libertà politica dall’Illuminismo rivoluzionario. Molte lingue, insomma, e non tutte biforcute. Persino in bocca a un mangiapreti del calibro di François-Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778).
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
Le mille facce dell’illuminismo: liberale e rivoluzionario,
in Libero [Libero quotidiano], anno XLVIII, n. 169, 17-07-2013, p. 32
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