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Myths, Fake News and the Internet: The Case of The Church of Almighty God

Pubblicato da Marco Respinti in 10 aprile 2019
Pubblicato in: articoli in inglese, articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: Bitter Winter, Center for Studies on New Religions, CESNUR, China, communism, fake news, persecution, religion, The Church of Almighty God. Lascia un commento

Sensationalizing new religious movements is a usual practice. One popular Internet practice is to use “lists” to attract users. Lists of “cultic” or objectionable features of certain movements are used to perpetuate stereotypes, badmouth religious minorities, and spread fake news.

The Church of Almighty God (CAG), the largest Christian new religious movement in China, has been a frequent victim of these campaigns. Some fake news come from the Chinese Communist Party, which should find reasons to justify a massive, cruel, and decade-long persecution. Others come from Christian religionists disturbed by the phenomenal growth of the CAG in China (government sources claimed in 2014 it had reached four million members), which happened largely at their expenses.

Unfortunately, fake news is also used to deny the asylum requests of those CAG members who managed to escape China and settle in other countries as refugees.

Massimo Introvigne, probably the most knowledgeable scholar of the CAG internationally, has now debunked the ten most widespread myths about the Church in an article written for the daily magazine about religious liberty in China, Bitter Winter. The article is available at https://bitterwinter.org/the-church-of-almighty-god-eastern-lightning-10-false-myths/.

It also includes a movie about the most common, but false, accusation against the CAG, that it was responsible for the murder of a woman in a McDonald’s diner in Zhaoyuan, Shandong, in 2014. The murder was actually perpetrated by another, smaller religious movement, and the movie includes a statement from the very voice of the main assassin, who was executed in 2015, that she never had any contact with the CAG.

Marco Respinti

 

FOR MORE INFORMATION

 

About The Church of Almighty God

The Church of Almighty God is a new Chinese church. Since its establishment in 1991, the church has grown rapidly and now has about 4 million members throughout China. As a new religious movement outside of those approved by the Chinese Communist Party, the church has suffered severe persecution. The church has four congregations in South Korea.
A collection of academic articles on the Church is available here.
Please find the 2018 Annual Report here:
https://centerna.kingdomsalvation.org/yearly-figures/en_US/annual-report-2018.pdf?n=0.1552530400

Studies and analyses from the Center for Studies on New Religions (CESNUR) are available here:
https://www.cesnur.org/cag_page.htm

About religious liberty and human rights in China, see Bitter Winter:
Site: https://bitterwinter.org/

Bitter Winter is an online magazine published in English, Korean, Chinese, Japanese, Italian, French, Spanish and German.
It was launched in May 2018 by the Center for Studies on New Religions, headquartered in Torino, Italy. Scholars, journalists, and human rights activists from different countries are working together to give the voice for the voiceless by publishing news, documents, and testimonies about persecutions against all religions in China.
The unique feature of Bitter Winter is its network of several hundred correspondents in all Chinese provinces. At high risk for their security – some have been arrested – they report daily on what happens in China and how religions are treated or mistreated. They often supply exclusive photographs and videos.

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Socialismo e aborto: Donald J. Trump al cuore delle cose

Pubblicato da Marco Respinti in 7 febbraio 2019
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, conservatorismo (USA), I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, Trumplandia, TUTTO. Tag: aborto, Barack Obama, bene, bene comune, bilancio, buonismo, Casa Bianca, conciliazione, concordia, confine, Congresso federale, conservatorismo, contrapposizione, discorso sullo stato dell'Unione, divisione, Donald J. Trump, governo federale, ingiustizia, Juan Guaidó, la pace attraverso la forza, LGBT, Male, Messico, muro, neo-femministe, neofemminismo, Nicolás Maduro, opposizione, pace sociale, pacificazione nazionale, Partito Democratico, Partito Repubblicano, peace through strenght, radicalismo, riconciliazione, Ronald Reagan, shutdown, Sinistra, socialismo, Stati Uniti d’America, unità nazionale, Venezuela. Lascia un commento

Finalmente anche il 2019 ha avuto, il 5 febbraio, il suo Discorso sullo stato dell’Unione, rimandato più volte per l’inedito protrarsi dello shutdown del governo federale conseguente al braccio di forza tra Casa Bianca e Congresso sulle previsioni di bilancio, e in specie sullo stanziamento di 5,7 miliardi di dollari per il completamento del muro di sbarramento al confine con il Messico che la presidenza vuole e l’opposizione Democratica osteggia.

Nel discorso, Donald J. Trump ha finto di presentarsi con la mano tesa verso l’opposizione, ma in realtà ha ribadito tutti gli elementi di contrapposizione, secondo il cliché di un genere letterario peraltro tipico di ogni Amministrazione statunitense: la proposta della pacificazione nazionale attraverso il riconoscimento dei torti. Da parte, però, di chi i torti li promuove e li pratica.

Muovendosi Trump in ambito Repubblicano, il concetto portante risale al giro mentale di Ronald Reagan (1911-2004): «peace through strenght», «la pace attraverso la forza». Reagan pensava e agiva così ovviamente ben oltre i discorsi sullo stato dell’Unione, ma è solo in questo modo che si capisce anche lo stile adottato oggi da Trump. L’idea, cioè, che il presidente federale ‒ come Trump ha esplicitamente detto ‒ non sia la marionetta di questo o di quel partito, bensì il riferimento di tutti i cittadini e del Paese intero, e che pertanto suo compito primario sia la ricerca della conciliazione e del bene comune, impossibili però finché il male e l’ingiustizia saranno tollerati.

Bene inteso, Barack Obama ha sempre fatto lo stesso, proponendo una propria idea personale di pacificazione nazionale e rimarcando costantemente le differenze nette dall’opposizione allora Repubblicana. E qui finalmente si giunge al punto centrale del discorso.

Affinché la concordia di un Paese sia autentica e non semplicemente un esercizio di buonismo astratto, occorre fare quanto più possibile il bene e impedire quanto più possibile il male. Ovvero l’unità nazionale passa paradossalmente attraverso la divisione: del grano dal loglio, giacché non tutto è discutibile, barattabile e compromissibile.

L’idea di bene comune che Trump ha dunque prospettato agli Stati Uniti, in vista di una vera riconciliazione, passa cioè dalla divisione da ciò che quella pacificazione è in grado di minare pericolosamente. Non tanto la questione del muro al confine con il Messico, su cui Trump si incaponisce soprattutto per irritare i Democratici. Del resto la faccenda ha cominciato a stufare molti, anche fra i Repubblicani, non esattamente tutti convinti che sia proprio quella la madre di tutte le battaglie in cui vale la pena di immolarsi. No, la questione dirimente che Trump ha posto sul tappeto della vera pace sociale è un’altra, e duplice.

 

Il socialismo

Il presidente ad interim del Venezuela Juan Guaidó

Il primo aspetto è una questione solo apparentemente di politica estera e in verità riguardante la vocazione “militante” che il presidente degli Stati Uniti percepisce essere quella degli Stati Uniti: una questione che non può tollerare né scale di grigio né mezze parole, giacché evoca i princìpi primi su cui deve fondarsi la convivenza umana. «Due settimane fa», ha detto Trump, «gli Stati Uniti hanno riconosciuto ufficialmente il governo legittimo del Venezuela e il suo nuovo presidente ad interim, Juan Guaidó. Noi ci schieriamo con il popolo venezuelano nella sua nobile ricerca della libertà e condanniamo la brutalità del regime di Nicolás Maduro, le cui politiche socialiste hanno trasformato quel Paese dal più ricco dell’America Meridionale che era allo stato di povertà e di disperazione abiette in cui versa oggi». Il socialismo, appunto. Quello che nessuno osa più chiamare per nome, quello che resta una peste anzitutto dello spirito, quello che sta, in riferimento al Venezuela, ponendo l’umanità tutta di fronte a una scelta che né si può rimandare né si può annacquare. Trump lo ha preso per il bavero, il socialismo, perché il nuovo Partito Democratico americano, fatto di esponenti radicali, neo-femministe arrabbiate e attivisti LGBT, ha spostato il proprio baricentro parecchio a sinistra (con diversi soggetti che appunto si definiscono apertamente socialisti) e quel che prospetta per il futuro non è bello. «Qui, negli Stati Uniti», ha affermato Trump, «ci allarmano le uscite a favore del socialismo». Ma «gli Stati Uniti sono fondati sui princìpi di libertà e d’indipendenza, non su quelli della coercizione, del dominio e del controllo da parte dello Stato. Siamo nati liberi, e rimarremo liberi», e «stasera rinnoviamo il nostro impegno a impedire che gli Stati Uniti diventino mai un Paese socialista».

Un Trump fuori di senno, in ritardo sulla storia, un po’ “bevuto”? Niente affatto. Ciò che ha avuto in mente il 5 febbraio era infatti la seconda questione dirimente posta sul tappeto della vera pace sociale: la difesa del diritto alla vita, conseguente proprio all’impegno inderogabile a non diventare mai “di sinistra”.

 

L’aborto

I commentatori di tutto il mondo stanno annoverando questa uscita fra le “sparate” trumpiane. Qualcuno insinua che sia un’arma di distrazione di massa dai guai della sua Amministrazione. Altri che sia un favore alla sua base elettorale evangelicale. Sarà pure, ma quale è il problema? A migliaia di chilometri di distanza, e tra breve pure ad anni di lontananza storica come ci ricorderanno i libri, rimane e rimarrà un fatto puro e semplice. Il presidente del Paese più potente del mondo ha per la prima volta chiesto espressamente ai due rami all’assemblea legislativa riuniti per ascoltare il bilancio assieme consuntivo e programmatico della nazione di intervenire presto per fermare l’uccisione di milioni di esseri umani ancora nel grembo delle proprie madri. Quale sia stata la causa prossima di questa richiesta è di per sé pochissimo importante. Resta il fatto, clamoroso.

A dividere il Paese non sono cioè i tic personali che Trump ha portato seco alla Casa Bianca (come del resto fa qualunque cittadino degli Stati Uniti venga eletto presidente e pure qualsiasi essere umano ovunque vada), ma il fatto che la Sinistra americana di oggi, cioè i Democratici che si definiscono socialisti e che si candidano a succedergli tra due anni, ponga come pietra miliare del “bene” che vogliono offrire ai cittadini statunitensi l’aborto libero fino al nono mese di gravidanza com’è accaduto nello Stato di New York fra applausi e ovazioni, come prospettano in Virginia e come vorrebbero fare dappertutto, abbattendo ogni limite faticosamente posto da diversi “buoni” americani, tra cui Trump, alla soppressione della vita umana nascente. È di questo che Trump vuole parlare, ed è su questo, magari pure se su altro no, che i Repubblicani e i conservatori lo seguiranno di qui al 3 novembre 2020.

«Che si possa lavorare assieme», ha augurato Trump al proprio Paese parlando al mondo, «per costruire una cultura che onori la vita innocente. E riaffermiamo qui pure una verità fondamentale: tuti i bambini ‒ nati e non nati ‒ sono creati a immagine santa di Dio».

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Trump: combattere uniti cotnro l’aborto e il socialismo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 07-02-2019

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I 5 Stelle appoggiano Maduro per fare un favore a Pechino

Pubblicato da Marco Respinti in 3 febbraio 2019
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli su cartacei, Cina, I MIEI ARTICOLI, Libero, TUTTO. Tag: Belpaese, Belt and Road Initiative, Bruxelles, Cina, convergenze parallele, diritti umani, globalizzazione con caratteristiche cinesi, Gran Timoniere, Hamas, Hezbollah, Iran, Juan Guaidó, Lega, libertà religiosa, Luigi Di Maio, M5S, Manlio Di Stefano, Mao Zedong, Margot Wallstrom, Matteo Salvini, Michele Geraci, Movimento 5 Stelle, neocolonialismo, ni, Nicolás Maduro, Nuova Via della Seta, presidente a interim, rivoluzione culturale, Russia, Siria, Turchia, Unione Europea, Venezuela, Xi Jinping. Lascia un commento

Il Belpaese delle “convergenze parallele” non è mai morto, e venerdì quello dei “ni” che ne conseguono ha scritto un’altra pagina vergognosa. Nell’emiciclo di Bruxelles l’Italia ha infatti impedito che l’Unione Europea riconoscesse Juan Guaidó come presidente a interim del Venezuela. Nella riunione informale dei ministri degli Esteri tenutasi il giorno prima a Bucarest, gli altri 27 Stati membri avevano infatti trovato, come si apprende da diverse fonti diplomatiche, un accordo su una dichiarazione comune. Spagna, Francia, Germania e Regno Unito avevano già lanciato un ultimatum al tirannico regime socialista di Nicolás Maduro, che da anni affama il Venezuela, e così il ministro svedese degli Esteri, Margot Wallstrom, ha promosso una dichiarazione che avrebbe spinto la UE a fare altrettanto tra ieri e oggi. Serviva però l’unanimità dei 28 Stati membri. Gli occhi si sono quindi puntati subito sulla Grecia, il cui governo di sinistra, guidato da Alexīs Tsipras, avendo preso le difese del regime di Maduro, pareva un ostacolo insormontabile. E invece no. I compagni greci hanno consegnato i compagni venezuelani al proprio destino e Atene non si è esplicitamente opposta alla mozione Wallstrom. Il colpo di scena è quindi giunto, inaspettato (apparentemente), dall’Italia giallo-verde, che ha invece bloccato tutto. Maduro ringrazia.

A tirare la cordata che ha paralizzato la UE sono i ministri del Movimento 5 Stelle. Sul punto la Lega è infatti più confusa, benché poi si sia accodata. «L’Italia non riconosce Guaidó», ha sentenziato secco il sottosegretario pentastellato agli Esteri, Manlio Di Stefano, in un’intervista a Tg2000. Curioso, per non dire altro. Forse che i pentastellati non sappiano che Maduro è un usurpatore coi baffi?

Troppi organi di stampa dicono e ripetono che Guaidó si sia “autoproclamato” presidente ad interim del Venezuela. Frottole. Ha invece fatto ciò che la Costituzione impone di fare per assicurare la continuità democratica di fronte a un grave abuso dispotico. Maduro è infatti stato eletto nel 2013. Nelle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale (il parlamento) del 2015 ha vinto l’alleanza fra i partiti di opposizione. Maduro ha risposto convocando un’Assemblea nazionale costituente che però è illegittima poiché riservata ai soli membri fedeli al suo regime e preclusa all’opposizione, non riconosciuta né dal parlamento né dalla maggioranza dei Paesi e degli organismi internazionali. Questa ha indetto nuove elezioni nel maggio 2018: ovviamente Maduro le ha vinte, ma illegittimamente. Ora, la Costituzione venezuelana stabilisce che spetti al presidente dell’Assemblea nazionale assumere provvisoriamente la carica di presidente fino al ristabilimento della normalità democratica, cosa che è proprio quello che Guaidó ha fatto.

Molto probabilmente, però, non è ai sofisticati ragionamenti di diritto costituzionale venezuelano che il M5S si è affidato per affossare la benemerita iniziativa europea tesa a isolare il despota di Caracas nel tentativo di fargli abbandonare con le buone quel potere che esercita tirannicamente su una popolazione oramai allo stremo cui manca letteralmente di che mangiare e di che curarsi.

Sono piuttosto i partner di Maduro che hanno convinto i pentastellati. Infatti, tra Russia, Turchia, Siria, Iran, Hezbollah e Hamas, il primo nome sulla lista degli alleati del socialismo venezuelano è la Cina. Ebbene, la Cina è molto ben vista dai pentastellati. Fa nulla se è un Paese totalitario che pratica la repressione dei diritti umani come ai tempi bui della Rivoluzione Culturale maoista; fa nulla se incarcera arbitrariamente migliaia e migliaia di innocenti, tortura, condanna a morte ed espianta organi dai condannati per reati di coscienza spesso quando sono ancora vivi.

La Cina, infatti, si sta giocando tutto attraverso quella faraonica opera infrastrutturale e logistica che si chiama “Belt and Road Initiative” (già ribattezzata “Nuova Via della Seta”), che, unendo decine di Paesi su più continenti, mira a ridisegnare la globalizzazione “con caratteristiche cinesi”. In questo colossale Risiko neocoloniale, dove la Cina mira a comperarsi pezzi interi di nazioni (del loro debito sovrano o delle loro città, porti e vie di comunicazione), non c’è posto per i neutrali. O si salta sulla nave del nuovo Gran Timonieri Xi Jinping oppure si viene spazzati via. L’alternativa resterebbero gli Stati Uniti, gli unici in gradi di opporsi, ma è qui che scatta l’antiamericanismo pavloviano tanto diffuso a sinistra quanto a destra.

L’“unità sinofila” pentastellata ha del resto il proprio elemento di punta in Michele Geraci, sottosegretario allo Sviluppo per il M5S, ma già molto vicino anche a Matteo Salvini. Ingegnere elettronico a Palermo, master in Business administration al MIT di Boston con Franco Modigliani, Geraci è venuto grande a pane e Cina, Paese dove dal 2008 ha insegnato Finanza in tre università: University of Nottingham Ningbo China, New York University Shanghai e Università dello Zhejiang.

In agosto è tornato a Pechino e in settembre lo ha seguito a ruota il suo principale, Luigi Di Maio. Una staffetta dal ritmo inusitato. Xi Jimping ricambierà la cortesia in marzo. Cosa verrà a fare in Italia? A parlare di “Belt and Road Initiative”.

Probabilmente il M5S non sa nemmeno dove stia il Venezuela sul planisfero, ma dove invece si trovi la Cina lo sa benissimo. Dietro quella porta che si è già inchinato ad aprire.

Marco Respinti

Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LIV, n. 33, Milano 03-12-2019, pp. 10-11

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Antievoluzionismo a Vazanghello

Pubblicato da Marco Respinti in 25 gennaio 2019
Pubblicato in: Conferenze, Conferenze in Italia, TUTTO. Tag: antidarwinismo, antievoluzionismo, Cafe teologico, Charles Darwin, evoluzione, evoluzionismo, neodarwinismo. Lascia un commento

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La libertà religiosa in Cina al Parlamento Europeo di Bruxelles

Pubblicato da Marco Respinti in 23 gennaio 2019
Pubblicato in: TUTTO. Lascia un commento

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A Ginevra per la Cina è il giorno del giudizio

Pubblicato da Marco Respinti in 7 novembre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: Bitter Winter, buddisti, Chiesa di Dio Onnipotente, comunismo, diritti umani, Dolgion Hatgin, Dolkun Isa, Ginevra, Hong Kong, International Campaign for Tibet, Jampa Tsering Samdho, Kristina Olney, Le Yucheng, Mongolia Interna, musulmani, Nazioni Unite, Omer Kanat, Palazzo delle Nazioni, Partito Comunista Cinese, Partito popolare della Mongolia Interna Vincent Metten, PCC, René Longet, Revisione Periodica Universale, rieducazione, Taiwan, tibetani, totalitarismo, uiguri, Victims of Communism Memorial Foundation, World Uyghur Congress, Wu Sofia, WUC, Xi Jinping. Lascia un commento

La Revisione Periodica Universale sullo stato dei diritti umani in Cina alle Nazioni Unite ha visto numerosi Paesi importanti denunciare pubblicamente il PCC e una grande manifestazione svolgersi davanti al Palazzo delle Nazioni con uiguri musulmani, buddisti tibetani, fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente e Bitter Winter uniti nel denunciare la persecuzione cinese di tutte le religioni

 

Ogni cinque anni, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite svolge una Revisione Periodica Universale che vaglia lo stato dei diritti umani in ogni Paese membro. Martedì 6 novembre è stata la volta della Cina, che detiene il record mondiale della violazione dei diritti umani e della persecuzione religiosa.
Come prevedibile, per la Cina è stata una giornata molto dura. Australia, Regno Unito, Canada, Belgio, Repubblica Ceca, Finlandia, Germania, Francia, Islanda, Irlanda, Svezia, Svizzera e Stati Uniti d’America si sono concentrati siu campi di “rieducazione”, dove un milione e mezzo di detenuti ‒ due terzi dei quali sono uiguri musulmani, e gli altri sono buddisti tibetani e fedeli di religioni dichiarate illegali o bandite ‒ vengono indotti ad abiurare con trattamenti e pressioni psicologiche disumane.

La Cina aveva inviato a Ginevra il viceministro per gli Affari esteri, Le Yucheng, il quale ha fornito una difesa arrogante ma poco convincente dei campi di “rieducazione”, sostenendo che «liberano le menti delle persone colpite dall’estremismo». Il discorso di Le ha sfiorato il ridicolo quando ha spiegato che i campi offrono «un addestramento professionale gratuito che rilascia un diploma post-esame a chi viene impiegato contro la propria volontà o adescato dai gruppi estremisti». Ma il discorso ha saputo essere anche sinistro e minaccioso quando Le ha affermato che l’alternativa ai campi sarebbe «sopprimere e spazzare via» del tutto gli «estremisti», che nel gergo cinese significa eliminarli fisicamente.

Del resto, per rendere ancora peggiore la giornata di Le e del Partito Comunista Cinese (PCC), centinaia di persone si sono radunate davanti al Palais des Nations, il secondo simbolo iconico delle Nazioni Unite dopo la sede di New York, per esprimere la propria delusione e la propria rabbia, e chiedere alle organizzazioni internazionali di fermare la persecuzione e la mattanza in atto in Cina.

A organizzare l’evento è stato il World Uyghur Congress (WUC), la più grande organizzazione della diaspora uigura, ma sono stati invitati anche i rappresentanti di altri gruppi etnici martoriati e di altre fedi perseguitate. Così, partendo di buonora da Palais Wilson, sulle rive del Lago Lemano, avvolto nella nebbia e intorpidito dal freddo mattutino, un corteo di bandiere e di fotografie di vittime del PCC si è diretto ordinatamente e pacificamente al Palais des Nations. Uiguri, tibetani, abitanti della Mongolia Interna, esuli a Taiwan, attivisti per i diritti umani di Hong Kong, fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente e cattolici hanno gridato slogan contro il PCC e il presidente Xi Jinping.

Giunti al Palais des Nations, sul palco si sono avvicendati diversi oratori in rappresentanza delle comunità che affollavano la piazza con bandiere e cartelli, sfidando il freddo e, dopo un po’, anche la pioggia. Mentre gli stendardi e gli striscioni garrivano nel vento, dopo l’esecuzione degli inni nazionali uiguro e tibetano, ha preso la parola Omer Kanat, presidente esecutivo del WUC. Quindi lo hanno seguito Dolkun Isa, presidente del WUC, e, tra gli altri, Jampa Tsering Samdho, parlamentare tibetano in esilio; Kristina Olney della Victims of Communism Memorial Foundation di Washington; sorella Wu Sofia della Chiesa di Dio Onnipotente; René Longet, già membro del parlamento svizzero e del gruppo parlamentare svizzero per il Tibet; Dolgion Hatgin, presidente del Partito popolare della Mongolia Interna; e Vincent Metten, della International Campaign for Tibet.
Ma, più o meno fuori programma, molti altri uiguri, vittime sfuggite alle persecuzioni nei campi di “rieducazione”, hanno offerto le proprie testimonianze. Un cartello, esibito da una donna uigura di mezza età, composta e dignitosa nel proprio dolore, ha chiesto: «Dov’è mia sorella?», aggiungendo ironicamente: «È un medico, non ha bisogno di formazione professionale». L’allusione è all’affermazione del PCC secondo cui i campi in cui di fatto le persone vengono torturate e muoiono offrano «formazione professionale» alle «vittime» dell’estremismo religioso.

Sorella Wu ha ricordato alla folla che, proprio come succede con uiguri e tibetani, migliaia di fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente vengono torturati nelle prigioni e nei campi cinesi, e che decine di loro sono morti in carcere in circostanze altamente sospette.

sorella Wu Sofia della Chiesa di Dio Onnipotente

Anche Bitter Winter è stato invitato all’evento. Mi sono infatti recato a Ginevra per offrire parole di saluto, di solidarietà e di amicizia ai manifestanti. Penso che quello di martedì sia stato un giorno grandioso e memorabile. Camminare tra buddisti, musulmani e cristiani, tutti uniti e in marcia per la libertà e per i diritti umani, non è un’esperienza che si prova ogni giorno. Ascoltare gli uiguri gridare «Tibet livero!», i buddisti chiedere la libertà per i musulmani e i cristiani invocare pace per tutte le fedi è stata un’esperienza unica. Non erano infatti le parole di un qualche utopista da salotto, ma un’esperienza di amore, forgiata nel sangue versato da tutte le comunità rappresentate all’evento.

Molti di coloro che hanno marciato per Ginevra ritengono il PCC colpevole di terrorismo e di genocidio. Le Nazioni Unite li ascolteranno? Ora, una troika formata da rappresentanti di Ungheria, Kenya e Arabia Saudita ‒ i tre Paesi selezionati per l’incarico dal Consiglio per i diritti umani ‒ preparerà un rapporto contenente raccomandazioni per la Cina entro il 9 novembre.
Alcuni diplomatici statunitensi sono scettici sull’esito del processo. Ma forse le raccomandazioni finali non sono nemmeno l’aspetto più importante della Revisione Periodica Universale. Quello che resterà è la sintesi stilata dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani a partire da documenti presentati dalle ONG che denunciano i campi di “rieducazione”, le atrocità contro gli uiguri e i tibetani, e la persecuzione dei gruppi religiosi che il regime vieta come xie jiao («insegnamenti eterodossi»), in particolare osservando che «durante il 2014-2018 , il monitoraggio, l’arresto e la persecuzione da parte del Partito Comunista Cinese hanno costretto almeno 500mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente (CDO) a fuggire dalle proprie case con diverse centinaia di migliaia di famiglie che sono state fatte a pezzi».

La Cina può manipolare le informazioni e usare il proprio peso per far “sparire” certi documenti dal sito web delle Nazioni Unite, com’è successo la settimana scorsa. Ma la Revisione Periodica Universale ha acceso la luce e molti crimini che il PCC sperava di poter continuare a perpetrare silenziosamente nell’oscurità sono ora stati rivelati pubblicamente. Sono orgoglioso di aver fatto parte di questa giornata straordinaria, dove Bitter Winter ha promesso a tutte le minoranze perseguitate in Cina che continuerà a essere una voce per i senza voce e di pubblicare notizie, documenti e testimonianze sulla persecuzione che in Cina colpisce tutte le religioni.

Marco Respinti

Pubblicato con il medesimo titolo
in
Bitter Winter. Libertà religiosa e diritti umani in Cina

(Versione italiana), 7-11-2018

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Judgment Day for China in Geneva

Pubblicato da Marco Respinti in 7 novembre 2018
Pubblicato in: articoli in inglese, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: “transformation through education” camps, Bitter Winter, Buddhists, Catholics, CCP, China, Chinese Communist Party, Church of Almighty God, communism, Dolgion Hatgin, Dolkun Isa, extremism, Geneva, heterodox teachings, Hong Kong, human rights, Inner Mongolians, International Campaign for Tibet, Jampa Tsering Samdho, Kristina Olney, Lake Leman, Le Yucheng, Omer Kanat, Palais des Nations, Palais Wilson, People’s Party of Inner MongoliaVincent, persecution, religions, religious freedom, religious liberty, René Longet, rieducation, Taiwan, Tibetans, totalitarianism, United Nations, United Nations Human Rights Council, Universal Periodic Review, Uyghurs, Victims of Communism Memorial Foundation, World Uyghur Congress, Wu Sofia, WUC, Xi Jinping, xie jiao. Lascia un commento

The Universal Periodic Review of the state of human rights in China at the United Nations saw several major countries publicly denounce the CCP and a major demonstration in front of the Palais des Nations, with Muslim Uyghurs, Tibetan Buddhists, members of The Church of Almighty God, and Bitter Winter, united in exposing the Chinese persecution of all religions.

 

Every five years, the United Nations Human Rights Council holds a Universal Periodic Review of each member state’s human rights record. On Tuesday, November 6, it was the turn of China – a world record holder when it comes to the violation of human rights and religious persecution.

As expected, China had a very rough day. Australia, UK, Canada, Belgium, the Czech Republic, Finland, Germany, France, Iceland, Ireland, Sweden, Switzerland, and the United States focused on “transformation through education” camps, where one and a half million inmates, two thirds of them Uyghur Muslims, and the rest – Tibetan Buddhists and members of religions declared illegal or banned – are subject to inhumane treatment and psychological pressure to induce them to abandon their faith.

China had dispatched to Geneva Le Yucheng, the Vice-Minister of Foreign Affairs. He offered an arrogant but unconvincing defense of the “transformation through education” camps, claiming that they “free the minds of people affected by extremism.” Mr. Le’s speech verged on the ridicule when he explained that the camps offer “free-of-charge vocational training with a diploma after exams to those who had been coerced or lured by extremist groups.” But the speech was also sinister and threatening, as Mr. Le stated that the alternative to the camps would be “suppressing and wiping out” entirely the “extremists,” which in Chinese jargon means physically eliminating them.

To make Mr. Le and CCP’s rough day worse, hundreds gathered in front of the Palais des Nations, the second iconic symbol of the United Nations after the New York headquarters, to express their disappointment and anger, and call on international organizations to stop the persecution and slaughter in China.

The event was organized by the World Uyghur Congress (WUC), the largest organization of the Uyghur diaspora. Representatives of other persecuted ethnic groups and religions were also invited to participate. So, starting at early birds’ time from Palais Wilson, on the shore of Lake Leman, enveloped in the mist and numb of a cold morning, a procession of national flags and photographs of CCP victims set out orderly and peacefully to reach the Palais des Nations. Uyghurs, Tibetans, Inner Mongolians, exiles in Taiwan, human rights activists from Hong Kong, members of The Church of Almighty God, and Catholics shouted slogans against the CCP and President Xi Jinping.

Once at the Palais des Nations, many speakers took turns, representing the communities that crowded the square with their flags and signs, defying cold weather and, after a while, even rain. While banners and signposts wreathed in the wind, after the Uyghur and Tibetan national anthems were played, Mr. Omer Kanat, executive president of the WUC, took the floor.

Then Mr. Dolkun Isa, president of the WUC, followed, among others, by Mr. Jampa Tsering Samdho, a Tibetan parliamentarian in exile; Ms. Kristina Olney of the Victims of Communism Memorial Foundation in Washington; Sister Wu Sina from The Church of God Almighty; Mr. René Longet, a former member of the Swiss Parliament and its group for Tibet; Mr. Dolgion Hatgin, president of the People’s Party of Inner Mongolia; and Mr. Vincent Metten of the International Campaign for Tibet.

But, more or less out of the program, several Uyghur speakers, victims who escaped persecution in the “transformation through education” camps, also offered their testimonies. A sign, exhibited by a middle-aged Uyghur woman, composed and dignified in her grief, asked, “Where is my sister?” Adding ironically, “She is a medical doctor, she does not need vocational training.” The allusion is to the CCP’s claim that the camps where, in fact, people are tortured and die, offer “vocational training” to “victims” of religious extremism.

Sister Wu reminded the crowd that, just as it happens with Uyghurs and Tibetans, thousands of members of The Church of Almighty God are tortured in the Chinese jails and camps, and dozens have died in custody in highly suspicious circumstances.

Bitter Winter was also invited to attend the event. I traveled to Geneva to offer words of greeting, solidarity, and friendship to the rally. I believe that this Tuesday was a great and memorable day. Walking among Buddhists, Muslims, and Christians, all united and marching together for liberty and human rights is not an experience one has every day. To hear the Uyghurs shouting “Free Tibet!”, the Buddhists asking for freedom for the Muslims, and the Christians invoking peace for all faiths was a unique experience. This was not th

Dokun Isa, president of World Uyghur Congress

e language of some closet utopian, but a loving experience, forged in the blood shed by all the communities represented at the event.

Many of those marching in Geneva believed the CCP was guilty of terrorism and genocide. Will they be heard by the U.N.? Now, a troika composed of representatives from Hungary, Kenya, and Saudi Arabia—the three countries selected for the task by the Human Rights Council—will prepare a report with recommendations to China, to be completed on November 9.

Some U.N. diplomats are skeptical about the outcome of the process. But perhaps the final recommendations are not even the most important part of the Universal Periodic Review. The summary by the Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights composed from the documents submitted by NGOs will remain. It denounced the “transformation through education” camps, the atrocities against the Uyghurs and the Tibetans, and the persecution of the religious groups the regime has banned as xie jiao (“heterodox teachings”), noting in particular that “during 2014-2018, the Chinese Communist Party’s monitoring, arrest, and persecution had caused at least 500,000 Church of Almighty God (CAG) Christians to flee their home, and several hundred thousand families had been torn apart.”

China can manipulate the information and use its weight to make some documents “disappear” from the U.N. website, as it happened last week. But the Universal Periodic Review has switched on the light, and many crimes the CCP hoped to keep quietly committing in the darkness have now been publicly revealed. I am proud to have been part of this extraordinary day, where Bitter Winter promised to all persecuted minorities in China that it will continue to be a voice for the voiceless and to publish news, documents, and testimonies about the persecution affecting all religions in China.

Marco Respinti

Published, under the same title,
in Bitter Winter: A magazine on religious liberty and human rights in China

(Chinese version), November 7, 2018

 

 

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《寒冬》新影片多倫多首映 關注全能神教會難民 [(Chinese:) New Bitter Winter Movie on The Church of Almighty God Refugees Unveiled in Toronto]

Pubblicato da Marco Respinti in 5 novembre 2018
Pubblicato in: TUTTO. Lascia un commento

世界宗教議會近期召開了一次會議,會議聚焦中國宗教難民,並推出了影片《騙局》(The Hoax)。該影片講述了中國當局對全能神教會在韓尋求庇護者的騷擾事件。

 

世界宗教議會是全球最大的跨宗教集會。繼1893年在芝加哥首次召開會議以來,成千上萬的宗教人士每三年在世界的不同城市聚集一堂,這一傳統延續至今。

2018年的世界宗教議會於11月1日在多倫多開幕。次日,一場題為「關於全能神教會難民的司法問題」的活動討論了全能神教會成員所面臨的嚴峻形勢,他們因遭受嚴重迫害而逃離中國,到國外尋求庇護。

《寒冬》雜誌的主編馬西莫·英特羅維吉(Massimo Introvigne)教授提出這個議題並解釋說,中國共產黨為證明其迫害行為的正當性而尋找的各種理由實際上都是假新聞。他特別提到2014年在山東招遠一家麥當勞餐廳一名女子被謀殺的案件。中共將這一罪行歸咎於全能神教會,但學術研究證明此案實際上是由另一個宗教團體所為。英特羅維吉談到被多次提及的全能神教會「反家庭」這一論調也屬於假新聞,他還解釋道,事實上,全能神教會的教義是支持家庭的,而且許多教會成員是由他們的親屬傳入教會的。

西華盛頓大學的霍麗·福爾克(Holly Folk)教授向與會者呈現了全能神教會的教義,並作出闡述。她得出結論:雖然反邪教宣傳堅稱全能神教會不屬於基督教,但事實上,今天基督教的概念是多元的,非傳統的基督教比比皆是,而全能神教會的教義很明顯是起源於基督教,而且其教義也證實了該教會確實屬於基督教。

國際宗教自由難民觀察站主席羅西塔·索麗特(Rosita Šorytė)講述了全能神教會成員在不同國家尋求庇護的情況。她談到該教會成員在韓國和日本申請庇護的嚴峻形勢,在這兩個國家全能神教會成員分別提交了979份和266份庇護申請,但沒有一份申請被批准。她的這番發言引起與會者的關注。索麗特女士指出,相反,在加拿大和新西蘭,大多數申請都被批准,其他幾個國家也有一些令人鼓舞的有利判決,不過難民們的處境依然艱難。索麗特女士指出,導致他們處境艱難的原因包括中國的政治施壓,對有關難民的國際慣例的局限性解釋,以及對全能神教會的誤解或不準確的信息。她還指出,國際會議、學術研究以及一些非政府組織的努力使得一些國家中的全能神教會難民的狀況有所改善。

活動的重點是推出由《寒冬》首部製作的影片《騙局》(The Hoax)。這部由馬西莫·英特羅維吉執導的影片介紹了全能神教會及其在中國所遭受的迫害,並講述了在該教會難民到達韓國後,中共仍不罷休,在基督教反邪教分子的協助下,組織虛假的「自發性」街頭示威活動,來攻擊該教會難民。中共提前數週精心策劃這一系列事件,背後的真相都在影片中一一呈現。

加拿大全能神教會的一位女士和歐洲宗教自由宗教間論壇主席埃里克·魯(Eric Roux)也陳述了他們的證詞,來自世界各地的聽眾聽取了他們的發言。

馬可·萊斯賓蒂(Marco Respinti)

Published, under the same title,
in
Bitter Winter: A magazine on religious liberty and human rights in China

(Chinese version), November 5, 2018

 

觀看《騙局》英文版無字幕預告片:

點擊觀看《騙局》英文字幕版預告片:https://youtu.be/2j9yqy1SOCM

觀看《騙局》英文無字幕版正片:

點擊觀看《騙局》英文字幕版正片:https://youtu.be/UxFofvxz7N0

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I Repubblicani recuperano. La vittoria dei Democratici non è più una certezza

Pubblicato da Marco Respinti in 5 novembre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli su cartacei, conservatorismo (USA), Elezioni USA 2018, I MIEI ARTICOLI, Libero, Trumplandia, TUTTO. Tag: ABC, Camera federale dei deputati, Congresso federale, demagogia, Donald J. Trump, elezioni di medio termine, mid-term, Partito Democratico, Partito Repubblicano, populismo, Senato federale, sondaggi, Stati Uniti d’America, The Washington Post. Lascia un commento

Non dovrebbero esserlo, ma inevitabilmente le elezioni di “medio termine” di domani saranno un referendum su Donald J. Trump, visto che da mesi i Democratici spingono la propaganda in questa direzione. Gli americani voteranno per rinnovare, come ogni due anni, il Congresso federale, eleggendo tutti i 435 deputati della Camera e circa un terzo dei senatori, 35. I Repubblicani stringono i denti facendo quadrato: se infatti perdessero, la loro attività legislativa si arenerebbe. Invece i Democratici, che non hanno mai sul serio accettato l’elezione di Trump, visto che non sempre possono dirlo apertamente, continuano a mandare avanti i pasdaran delle piazze per cercare di sabotare quello che sprezzantemente chiamano “populismo” con quella che è solo demagogia. Domani sarà quindi il grande giorno per vedere se la gramigna seminata in due anni avrà attecchito.

I sondaggi danno da tempo i Democratici favoriti, almeno alla Camera; e con un Senato dove la maggioranza Repubblicana è risicatissima, gli asini (l’asino è il simbolo del Partito Democratico) scalpitano. Ma tutti sanno che i sondaggi sono un’arma impropria: anzitutto proprio negli Stati Uniti, dove due anni fa accadde l’impensabile, ovvero quello che i sondaggisti abituati solo a guardare la propria immagine allo specchio non hanno saputo vedere nell’elettorato vero. E infatti il vantaggio dei Democratici, secondo alcuni granitico, si assottiglia. A 48 ore dal voto, un’analisi del quotidiano The Washington Post e dell’emittente televisiva Abc ha messo in luce che il 50% degli elettori registrati (negli Stati Uniti per votare ci si registra volontariamente) alla Camera voterà i Democratici contro un 43% che sceglierà i Repubblicani. Per vincere ovviamente è poco, ma significa che i Repubblicani sono 11 punti più su di quanto registrato da un analogo sondaggio realizzato in settembre e addirittura 14 rispetto ad agosto. L’emittente televisiva Fox News, che non solo sta dalla parte dei Repubblicani ma ha il polso della base elettorale conservatrice, ripete cose simili da circa una settimana. Raglia bene chi raglia ultimo.

Marco Respinti

Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LIII, n. 305, Milano 03-11-2018, p. 11

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Elezioni “di medio termine”, perché il GOP non deve perdere

Pubblicato da Marco Respinti in 5 novembre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, conservatorismo (USA), Elezioni USA 2018, I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, Trumplandia, TUTTO. Tag: Barack Obama, Brett M. Kavanaugh, Camera federale dei deputati, Casa Bianca, Cina, Congresso federale, conservatori, conservatorismo, contro-rivoluzione, Corte Suprema federale, Donald J. Trump, elezioni, elezioni di medio termine, GOP, Grand Old Party, Hillary Clinton, Jamal Ahmad Khashoggi, mid-term, Partito Democratico, Partito Repubblicano, princìpi non negoziabili, Senato federale, Stati Uniti d’America, totalitarismo, veto. Lascia un commento

Domani gli Stati Uniti d’America saranno chiamati al voto utile a eleggere tutti i deputati della Camera federale, 435. Per vincere ne servono 270. I sondaggi danno i Democratici favoriti. Domani gli statunitensi voteranno anche per eleggere 35 dei 100 seggi di cui si compone il Senato federale (due voti, in Minnesota e in Mississippi, saranno elezioni speciali per sostituire due dimissionari). Di qui 35 seggi in pallio, 26 sono attualmente occupati dai Democratici. Visto che adesso nel Senato 51 seggi sono dei Repubblicani, 47 dei Democratici e 2 degli indipendenti dipendenti dalla Sinistra, basterà che i Repubblicani perdano due elezioni per perdere la maggioranza. È sufficiente quest’istantanea per comprendere quanto la consultazione di domani sia cruciale.

Gli Stati Uniti godono infatti di un sistema politico lungi dall’essere perfetto, ma perfettamente funzionante. Essendo una repubblica presidenziale, l’elezione dell’esecutivo è decisiva. Però talvolta la Corte Suprema, il massimo tribunale del Paese che ha il compito (anche se a volte traligna) di vegliare sulla costituzionalità delle leggi, ha un ruolo anche più importante della Casa Bianca, che pure ne nomina i giudici, sentito il parere del Senato. E il Congresso federale, di cui fa appunto parte il Senato, viene sì giudicato nella propria attività legislativa dalla Corte Suprema, nominata dal presidente con il concorso di una parte del Senato poi giudicato assieme alla Camera, ma ha il potere di paralizzare qualsiasi iniziativa politica del presidente, il quale a propria volta dispone di un diritto di veto. Sembra un gioco di scatole cinesi, ma in realtà è la divisione dei poteri all’americana; e mentre in Cina vige il totalitarismo più vieto, negli Stati Uniti regna la peggiore delle forme di governo, la democrazia, eccettuate tutte le altre.

Domani, dunque, la contro-rivoluzione iniziata due anni fa da Trump potrebbe subire una battuta d’arresto secca, tragica. Prima di conquistare la nomination presidenziale del Partito Repubblicano, nel 2016, Trump assomigliava a un guastatore venuto da chissà dove per disfare quanto di buono avevano costruito i conservatori negli ultimi decenni dentro e fuori il Grand Old Party (GOP, l’altro nome del Partito Repubblicano). Poi ha capito in fretta che senza i conservatori, dentro e fuori il GOP, non ce l’avrebbe mai fatta contro Hillary Clinton e la sua triste macchina da guerra. Gli stessi conservatori hanno capito che ostinandosi a boicottare Trump anche fuori tempo massimo avrebbero solamente insediato la Clinton alla Casa Bianca. Ne è nato un connubio strano, che a tratti è sembrato contro natura, fra conservatori e Trump, cristiani tutti di un pezzo e sciupafemmine, su cui nessun bookmaker ha scommesso. Epperò è successo pure qualcosa d’altro, una chimica esplosiva che ha compiuto l’impresa, sbaragliando i Democratici. Trump è andato alla Casa Bianca e il GOP ha ottenuto la maggioranza nei due rami del Congresso.

Con questa forza atomica, Trump da un lato e i conservatori dall’altro, sono riusciti, pur venendo da pianeti diversi, a introdurre nella vita politica degli Stati Uniti novità sensazionali. A tratti si sono persino piaciuti, e spesso Trump è stato ed è felicemente irriconoscibile. I conservatori hanno imparato, per certi versi, la lealtà verso Trump e Trump ha imparato che il conservatorismo non è una medicina amara. Insieme hanno mosso passi significativi per invertire alcune delle leggi più assurde introdotte nell’ordinamento statunitense nell’era di Barack Obama, dal 2008 al 2016. Soprattutto quanto ai princìpi non negoziabili. Sottolineo questi non per partigianeria, ma perché sono quello che sono: se sono non negoziabili, lo sono sia per chi li difende sia per chi li attacca, e chi li difende e chi li attacca lo fa proprio per quello. Perché danno l’assetto, il tono e il bersaglio di un’amministrazione politica. Non che non ve ne siano altri importanti, ma essendo per definizione questi secondi negoziabili, possono essere tranquillamente considerati dopo.

Trump e il Congresso guidato dal GOP hanno agito a livello legislativo, sì, ma anche, forse soprattutto, a livello di mentalità e di costume. Dopo gli otto anni debosciati di Obama, hanno saputo mostrare che un’alternativa è possibile, che non è necessario rassegnarsi, che si può reagire al politicamente corretto. Ne hanno pagato le conseguenze duramente, e proprio di questo parleranno le urne domani.

Ma appunto per questo domani l’esito delle urne sarà tranchant: se il GOP perde la maggioranza alla Camera, peggio ancora se la dovesse perdere pure al Senato, si fermerà l’attività legislativa che ha permesso di iniziare a fermare la decadenza della cosa pubblica statunitense. Anzi, tornerà lo scoramento, la rassegnazione, il sapore acre della disfatta.

Certo, se domandi perderà, qualche zampata il GOP saprà assestarla ancora, ma il più sarà perso. Gli Stati Uniti dovranno quindi arrendersi a vivere i rimanenti due anni fino all’elezione del prossimo presidente, nel 2020, come una guerra continua di veti contro veti che bloccherà il Paese. Qualcuno tra chi non ha mai amato Trump ne approfitterà per pensionarlo anzitempo, e questo interesserà soprattutto i partigiani stretti di Trump. Qualcun altro ne approfitterà per stilare il bilancio dell’era Trump, e questo interesserà soprattutto i partigiani stretti dei conservatori che inevitabilmente verranno, a ragione o a torto, colpiti dalla frana.

Comunque sia, non sarò un voto limpido. Sarà condizionato dal fango gettato su Trump in questi due anni. I successi economici, industriali e fiscali conteranno molto per chi sceglierà il GOP, ma la propaganda Democratica farà di tutto, le ultime ore sono spesso quelle decisive, per mistificare la realtà. La controversia attorno al giudice Brett M. Kavanaugh premierà il GOP, ma i Democratici ripeteranno le calunnie. E siccome l’elettorato, un certo elettorato, ha la memoria corta, qualcuno voterà con la pancia a seconda dell’ultimo titolo strombazzato di giornale, anzi di Twitter. Qui peserà forse la vicenda di Jamal Ahmad Khashoggi, il giornalista assassinato brutalmente nell’ambasciata saudita di Istambul, pretesto per mettere in croce il profondo legame fra Stati Uniti e blocco sunnita a regia saudita nato in funzione anti-sciita e anti-Russia (e anti-Cina), ignorando il fatto che, dopo un imbarazzo autentico e sincero, Trump sta cercando di fare del proprio meglio per non dimenticare il fattaccio senza con questo mandare a monte mezzo mondo di alleanze strategiche.

E poi c’è quella parte sempre decisiva di elettorato che sono gli indecisi. Molti di loro hanno già cominciato a gonfiare le fila del divario registrato dai sondaggi a favore dei Democratici, altri ci stanno pensando. È un elettorato che purtroppo c’è sempre e per cui conta solo il “Franza o Spagna purché se magna”. Se i Democratici riusciranno a vendere loro, come riuscì bene a suo tempo Obama, la minestra rancida del “tutto per tutti”, il GOP perderà. Ma siccome, dice un proverbio americano, there is nothing like a free lunch, potrebbero pentirsene presto, ancorché troppo tardi.

Per tutti questi motivi è assolutamente necessario che domani il GOP vinca. Alcuni dicono che è impossibile, ma gli Stati Unti ci hanno già abituato a colpi di scena clamorosi.

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
GOP fragile, Trump rischia la battuta d’arresto
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 05-11-2018

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New Bitter Winter Movie on The Church of Almighty God Refugees Unveiled in Toronto

Pubblicato da Marco Respinti in 3 novembre 2018
Pubblicato in: articoli in inglese, articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: A Question of Justice: The Refugees of The Church of Almighty God, Bitter Winter, CCP, Chinese, Chinese Communist Party, communism, Eric Roux, European Interreligious Forum for Religious Freedom, Holly Folk, human rights, International Observatory of Religious Liberty of Refugees, Massimo Introvigne, McDonald’s, Parliament of the World’s Religions, refugees, religious freedom, religious liberty, Rosita Šorytė, Shandong, South Korea, The Church of Almighty God, The Hoax, Toronto, totlitarianism, Zhaoyuan. Lascia un commento

A session of the Parliament of the World’s Religions focused on religion-based Chinese refugees and introduced The Hoax, a movie about China’s attempt to harass the asylum seekers of The Church of Almighty God in South Korea.

 

The Parliament of the World’s Religions is the largest global inter-religious gathering. Thousands congregate every three years in a different city of the world, renewing a tradition inaugurated in Chicago in 1893.

The 2018 Parliament of the World’s Religions opened in Toronto on November 1. Among the events of November 2, A Question of Justice: The Refugees of The Church of Almighty God discussed the dramatic situation of the members of The Church of Almighty God who escape the severe persecution they are subject to in China and seek asylum abroad.

Professor Massimo Introvigne, editor-in-chief of Bitter Winter, introduced the argument and explained that the arguments used by the Chinese Communist Party (CCP) to justify the persecution are actually fake news. He referred in particular to the homicide of a woman in a McDonald’s diner in Zhaoyuan, Shandong, in 2014. The CCP attributed to the crime to The Church of Almighty God, but scholarly studies proved it was in fact committed by a different religious movement. Introvigne included among the fake news also the often repeated claims that The Church of Almighty God is “against the family.” In fact, he explained, the Church’s theology supports the family and many members are converted by their close relatives.

Professor Holly Folk, from Western Washington University, offered her interpretation and reconstruction of the theology of The Church of Almighty God. She concluded that, although an anti-cult propaganda insists in labeling the Church as “non-Christian,” in fact the notion of Christianity today is plural, non-traditional Christianities abound, and the theology of The Church of Almighty God has clearly identifiable Christian roots and supports the conclusion that this Church is indeed Christian.

Rosita Šorytė, president of the International Observatory of Religious Liberty of Refugees, presented the situation of the asylum seekers of The Church of Almighty God in different countries. She attracted the attention on the dramatic situation in South Korea and Japan, where, respectively, 979 and 266 requests for asylum were filed by members of The Church of Almighty God and not even one was accepted. She noted that in Canada and New Zealand, by contrast, most applications are accepted, and there are encouraging favorable decisions in several other countries, although the situation of the refugees remains difficult. Ms Šorytė identified the cause of these difficulties in Chinese political pressures, restrictive interpretations of the international conventions of refugees, and misunderstandings or inaccurate information about The Church of Almighty God. She also noted that international conferences, scholarly studies, and the efforts of some NGOs have improved the situation of the refugees in several countries.

A key moment in the event was the unveiling of the movie The Hoax, the first movie produced by Bitter Winter. Directed by Massimo Introvigne, the movie introduces The Church of Almighty God and its persecution in China, and tells the story how the CCP, with the help of Christian anti-cultists, did not leave alone the refugees even after they arrived in Korea and organized false “spontaneous” street demonstrations against them. The truth about these incidents, carefully planned by the CCP several weeks in advance, is revealed in the movie.

An audience from all continents gathered to hear the presentations. A female member from The Church of Almighty God’s Canadian community, and Eric Roux, president of the European Interreligious Forum for Religious Freedom, also offered their testimonies.

Marco Respinti

Published, under the same title,
in
Bitter Winter: A magazine on religious liberty and human rights in China

(English version), November 3, 2018

 

Watch the trailer of “The Hoax”:


[version with subtitles: https://www.youtube.com/watch?v=2j9yqy1SOCM]

 

Download the movie “The Hoax”:


[version with subtitles: https://www.youtube.com/watch?v=UxFofvxz7N0]

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Russell Kirk eller den naturliga nåden att leva

Pubblicato da Marco Respinti in 3 novembre 2018
Pubblicato in: articoli in svedese, conservatorismo (USA), I MIEI ARTICOLI, Russell Kirk Memorial, Russell Kirk Memorial (articoli), Tidskriften Sefyr, TUTTO. Tag: conservatism, den naturliga nåden att leva, Edmund Burke, konservatismen, Reflections of the Revolution in France, Reflektioner om den franska revolutionen, Russell Kirk, the unbought grace of life, United States of America. Lascia un commento

Russell Kirk föddes för hundra år sedan, den 19:e oktober 1918, i Plymouth Michigan. I egenskap av rådgivare till Goldwater, Nixon, Ford och Reagan sökte han aldrig rampljuset, trots att han var den samtida konservatismens sanne fader. Hans filosofi är ”The unbought grace of life”, eller den naturliga, oköpta nåden att leva.

Russell Kirk, fadern till den amerikanska konservatismens pånyttfödelse under andra halvan av 1900-talet, föddes för hundra år sedan, den 19:e oktober 1918, i Plymouth, en förort till Detroit.

Det amerikanska Plymouth är en karbonkopia av det engelska Plymouth och dess namn återkallar historien om Förenta Staternas själva ursprung, eller snarare, den anglosaxiska komponenten hos landets ursprung, vilket visst inte är den enda, som – om jag skulle föreslå några märkesnamn – har framhävts av högt värderade historiker, såsom italienaren Raimondo Luraghi (1921–2012), fransmannen Bernard Lugan och spanjoren David Arias Pérez, medlem av Augustinerorden, som var assisterande biskop i Newark, i New Jersey, vid tiden för pensioneringen. Detta är märkvärdigt nog, eller snarare symboliskt, betänkande att en stor del av Kirks verk sysselsätter sig med att återupptäcka Förenta Staternas sanna ursprung, djupgående frågande sig vad det var och hur en unik kulturell åskådning uppstod.

Likväl är Kirks Plymouth endast en plats av värdig beskedlighet, detta också om den är helt öde. Hans födelsehus har blivit en affär för blommor och växter (vilken jag besökte för ett antal år sedan), men har alltid också som sådan återspeglat att dess illustre före detta hyresgäst tillbringat barndomen och ungdomen där. Enkel, men utan spartanska drag; basal hellre än torftig; återhållsam utan att kokettera med det. Sådan var förvisso hans barndom och ungdom, men också hans mogna år och hans ålderdom. Kirk var utan tvekan en verklig tänkare, men han drogs varken till löpsedlarna eller rampljuset, även om han hade möjlighet att påverka politikerna på den högsta nivån i sitt land, såsom rådgivare till Barry M. Goldwater (1909–1998), Richard M. Nixon (1913–1994), Gerald Ford (1916–2003) och Ronald Reagan (1911–2004). I många avseenden syntes han ha levt ett liv i avskildhet, mellan träden som han själv planterade omkring det urgamla huset, i ett ensligt litet område i centrala Michigan, Mecosta (fram till dess att huset brann ned och han därefter rekonstruerade den i en ”italiensk” stil som på vissa sätt erinrar om Fantasy), och de hundratals böcker för vilka han funnit plats i den gamla träleksaksfabriken som han ärvt från sina farföräldrar och som han hade återställt i sitt forna skick.

På detta sätt njöt han ett privilegium, i dag alltmer sällsynt. Han kunde betrakta världen, med dess varierade och ibland bräckliga mänsklighet, på distans. En distans som alltså aldrig var ett främlingskap. Mer än något annat hade det att göra med eftertänksamhet. En förkämpe för konservatismen kunde han på detta sätt också bliva.

En sats uttrycker väl kärnan i hans konservatism. ”The unbought grace of life.” Den kommer av hans mästare, tänkaren och politikern Edmund Burke (1729–1797), vars verk han blev en av de främsta uttolkarna av, och står skriven i Reflektioner om den franska revolutionen (1790). Det är mycket svårt att översätta denna sats till god svenska. Något som skulle närma sig den vore: ”den naturliga nåden att leva”, men engelskans ”unbought” bär en ensartad kärna i sig: tacksamheten. Föreställningen, snarare än idén, som bor i denna Kirkianska-Burkeanska sats är att livet ses som ett historiskt tillfälle att uppleva en oförutsedd och överflödande rik nåd att fylla sig med och skänka det någon mening eller om inte annat vara öppen för möjligheten, om inte säkerheten medges på grund av människans begränsade förståelse, att något sådant som mening existerar. Existensen skall, sammantaget, ses som en möjlighet, inte ett krav eller ”mirakel”, som kan tillskrivas lyckan. Livet är självklart en lycka som skall tas seriöst, och man bör ta sig i kragen och göra något stort, eller i alla fall något litet. Alla långrandiga akademiker och perukstockar lyckas inte förstå den nödvändiga föreningen mellan frihet och ansvar, med mindre än att gå illa åt det gebit vi finner inbäddat i den fria nåden av ett liv som inte valts åt oss, och som vi bär som en rustning, för att en gång kunna svära eller i alla fall säga, stolta, med glänsande ögon och fast blick, adsum.

Kirks konservatism har varit just detta. Inte en filosofi, inte ett tänkande, inte ett system, men snarare en inställning till livet, en attityd, ett sätt att vara, ett bejakande av det varaktiga. Hans största verk, The Conservative Mind, första gången publicerad 1953 och sedan dess en klassiker för alla konservativa att referera till, detta innesluter de vilka inte läst den men som inte känner att de vill bekänna det, eller de som vill referera till det som sägs skarpsinnigt och pregnant redan i titeln. Den skall inte översättas med ”det konservativa tänkandet”. För att översätta det engelska mind behövs i själva verket latinet: ”det konservativa forma mentis”, där ”forma” är fantasin som har ett innehåll och där intellektet, hjärtan, själen samlar sig, genom att de fogas samman och de koncentriska cirklarna bryts.

Även om han uppenbarligen till del också gjort detta, i de trettiotals böcker som han vid sidan av de hundratals och åter hundratals artiklar och uppsatser lämnat efter sig, har han inte endast framställt idéer eller personer. Han har fastmer erbjudit ett ethos. Den Kirkianska idén är grund och botten klar, även om Kirk inte lade ut den svart på vitt. Det vi kallar att ”vara konservativ” är inte en kraft utanför oss själva, det är inte något som vidhäftar oss, ideologiskt, formellt eller av eget val, såsom en andra litet främmande natur, utan det är att omfamna det man måste och att bli det man kan bli efter hur man är skapad, just genom den fria nåden. Till sin rot har denna idé åter en Burkeansk vändning. Det är inte för inte som Burke är fader till det som man i dag, i två sekler senare, förstår som ”konservatism”. Det är begripligt också för de få som i dag förstår Burke och konservatismen.

Att vara konservativ är först att lära känna och respektera och sedan (åter)upptäcka den mänskliga naturen hos det verkliga ”jaget”, genom att känna den, men också att försvara, gå i god för och att växa i den. Konservatismens politiserande, som är en ädel sak hur än den politiska scenen ser ut här och nu, innebär att ta detta incipit på allvar, genom att förfara såsom de antika grekiska filosoferna ihågkommes ha sagt, att polis inte är något annat än anthropos i större format.

Dagens konservatism saknar Kirk och personer som Kirk. Kanske skulle Kirk inte igenkänna några konservativa bland de som dagens värld betraktar som konservativa, och som uppfattar sig och presenterar sig som sådana. Kanske är dem det på allvar, oavsett vad Kirk skulle säga om detta, så länge de inte återupptäcker the unbought grace of life kommer de ha en ostadig grund för allt det vackra de kan säga och göra. Valen kan vinnas eller förloras, makten kan komma och gå, fienderna kan besegras eller stå kvar, men det som räknas, eftersom det förblir, är själen. Om Kirk har lärt oss en sak är det detta: vad hjälper det en människa, om hon vinner hela världen, men förlorar sin själ? Att vara konservativ vill säga, att aldrig förlora själen ur sikte, utan tvärtom ständigt återupprätta den och i varje situation vårda den.

Kirk blev katolik 1964, i synnerhet tack vare sin fantastiska kvinna, cradle-catholic, Annette. I många avseenden hade han redan varit katolik in pectore. Han reflekterade över katolicismen, skrev om katolicismen, fascinerades av katolicismen. Man kan inte säga att det fanns något system i det hela, men eftersom Kirk aldrig konverterat till katolicismen, om inte hans själ varit predestinerad till den sanningens fullhet som han uppnådde, den dag han korsade gränsen. Det skulle kunna sägas att bli katolik är ett nödvändigt steg för den konservativ som tar sin konservatism på allvar. År 1964 blev Kirk katolik och han fortsatte att vara det tills den dag han föddes på nytt i himlen, 29 april 1994, sjuk, trött och prövad och mottog den sista smörjelsen av påve Johannes Paulus II (1920–2005). Den andra stora händelsen i hans utomordentliga mänskliga äventyr var att han fann sin vackra, eftersökta, kultiverade, följsamma hustru. Vårt hjärta är oroligt, tills det finner vila i Dig, Herre, sade Sankt Augustinus (354—430), och detta mål, hade Kirk möjlighet att uppleva, är något sublimt att bäva inför och att omfamna i första hand såsom pulchrum snarare än som rationellt tänkande. Om inte annat har Kirk en överraskande aktualitet genom detta. Må det vara början till en ny round. Russell Kirk skulle i dag ha fyllt hundra, men han har i själva verket aldrig varit död. Ad multos annos.

Marco Respinti
Översatt av Simon O. Pettersson

Original och fullständig version av artikeln
publicerad med samma titel i
Tidskriften Sefyr.
En konservativ tidskrift i en l
iberal tid,
s.l. 3 november 2018

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Essere profugo in Corea del Sud oggi

Pubblicato da Marco Respinti in 3 novembre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli su cartacei, I MIEI ARTICOLI, Libero. Tag: Afghanistan, al-Qa’ida nella Penisola Arabica, asilo politico, Autorità palestinese, Blade Runner, Capri, carcere duro, Chiesa di Dio Onnipotente, Cinese, comunismo, Corea del Nord, Corea del Sud, cosmesi, cozze, Cuba, danil minjok, dinastia Joseon, falsi profughi, fiume Han, Ghana, grattacieli, griffe, Gyeongbokgung, Human Rights Watch, immigrazione, indifferentismo, indifferenza, Irak, ISIS, islam, Jeju, Juche, Kosovo, Libia, Los Angeles, Macedonia, Manhattan, Mar Giallo, melograno, Moon Jae-in, musulmani, Myeongdong, nazionalcomunismo, Nigeria, nuovi movimenti religiosi, palazzo imperiale, profughi, protestantesimo, purezza razziale, Pyongyang, razzismo, regime, religione, rieducazione, rifugiati, rivoluzione culturale, Seul, Siria, skyline, socialcomunismo, socialdemocrazia, street food, Sudan, suprematismo coreano, tortura, totalitarismo, turismo, Xi Jinping, Yemen, yemeniti, Yoido Full Gospel Church. Lascia un commento

©Ed Jones/AFP

Seul ‒ L’isola sudcoreana di Jeju è la Capri del Mar Giallo, affollata di turisti soprattutto cinesi (Pechino dista due ore di volo). Dal 1946 fa provincia autonoma e tra i vantaggi del suo statuto speciale ci sono 30 giorni di soggiorno senza visto tranne per chi viene da Afghanistan, Cuba, Ghana, Irak, Kosovo, Libia, Macedonia, Nigeria, Autorità palestinese, Corea del Nord, Sudan, Siria e Yemen.

Ma proprio lo Yemen sta mandando all’aria il beato isolamento di Jeju. A luglio vi sono infatti sbarcati 552 yemeniti, in maggioranza maschi, sfuggiti alla guerra civile che dal marzo 2015 oppone forze lealiste filosaudite e ribelli filoiraniani, ma anche al-Qa’ida nella Penisola Arabica (che controlla quasi un quarto del territorio) e gli affiliati locali all’ISIS. Trascorso il mese bonus, per restare in Corea del Sud gli yemeniti sfollati necessitano di un permesso regolare, cosa che però non piace affatto ai sudcoreani, scatenatisi come mai prima d’ora in tutto il Paese contro i “falsi profughi”. Una petizione con 700mila firme, cosa mai vista, è stata presentata al governo socialdemocratico del presidente Moon Jae-in per “fermare l’invasione”. Morale, il 17 ottobre Seul ha rifiutato i visti ai 552 yemeniti.

La Yoido Full Gospel Church

No, la Corea del Sud non è la mecca dei rifugiati. Di fatto accetta solo i transfughi dalla Corea del Nord. Un po’ perché li considera concittadini che “tornano a casa” da una parte del territorio nazionale “momentaneamente occupata”, un po’ perché i coreani (del Sud) accettano soltanto coreani (del Nord) ritenendo tutti gli altri (soprattutto asiatici) inferiori. Se infatti a Pyongyang l’ideologia ufficiale è lo Juché, un nazionalcomunismo dai forti accenti razzistici, la versione democratica del suprematismo coreano imperante al Sud è il danil minjok: una filosofia di “purezza razziale”, insegnata anche nelle scuole, che, sognando la riunificazione, guarda il resto del mondo dall’alto al basso, tanto che nel 2007 l’ONU ha intimato a Seul di non utilizzare più l’espressione. Risultato, dal 1994 la Corea del Sud – dice Human Rights Watch – ha accettato solo il 2,5% di tutte le richieste di asilo presentate (nordcoreani a parte) e oggi i richiedenti sono lo 0,02% dei cittadini sudcoreani a fronte di una presenza totale di stranieri del 4%.

Stret Found a Myeongdong

Al palazzo imperiale Gyeongbokgung

Ma in realtà la quotidianità di Seul è quella di una città high-tech che a guardarne lo skyline dal fiume Han sembra una Manhattan grande quasi quattro volte Milano avvolta nell’indifferentismo 9 to 5. Il passato non c’è più, come ammonisce il bellissimo palazzo imperiale Gyeongbokgung della dinastia Joseon, in tesi del 1395, ma in realtà distrutto con il fuoco dai giapponesi una prima volta nel 1592, demolito ancora dai giapponesi nel 1915 e ricostruito dagli anni 1990. La religione non conta, nonostante la più grande congregazione protestante del mondo, la Yoido Full Gospel Church, sia nata e sia qui: metà dei sudcoreani non crede infatti in nulla (dell’altra metà, poco meno del 30% è cristiana, i protestanti sono quasi il doppio dei cattolici, circa il 23% è buddista e il resto sono minoranze islamiche o neoreligiose). E nel distretto di Myeongdong si acquista street food a ogni ora, succo di melograno o cozze di una trentina di centimetri, fra i grattacieli dove imperano le griffe italiane e la ricercatissima cosmesi femminile locale. All’imbrunire pare di essere nella Los Angeles di Blade Runner e a molti la cosa fa paura.

Non c’è infatti solo lo Yemen. Per chi scappa dal comunismo cinese, oggi in vena di una vera a propria seconda Rivoluzione Culturale, la Corea del Sud è la meta più semplice. Arrivano da turisti e poi chiedono asilo, ma essere rimandati indietro vuole dire “rieducazione”, carcere duro, tortura, persino morte. Qui a Seul ho parlato con diversi cinesi espatriati per motivi religiosi. Ho ascoltato i fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente, il più grande nuovo movimento religioso cinese di origine cristiana la cui teologia è inaccettabile per ogni altra Chiesa cristiana ma i cui membri sanguinano di sangue uguale a quello di ogni altro cristiano. Pechino ha giurato di sterminarli. Hanno terrore dell’indifferenza industriale 4.0 che regna sorniona a Seul.

Marco Respinti

Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
I sudcoreani raccolgono firme per respingere tutti i profughi
in Libero [Libero quotidiano], anno LIII, n. 303, Milano 03-11-2018, p. 10

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Se debe agregar racismo al historial de abusos infames perpetrados por China

Pubblicato da Marco Respinti in 1 novembre 2018
Pubblicato in: articoli in spagnolo, articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: Africa, Índice de Desarrollo Humano, China, China Road and Bridge Corporatio, China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa, comunismo, Día de la Responsabilidad, de Bitter Winter, deshumanización, detergentes, empresa de motocicletas, extranjero negro, ferroviaria, Foreign Policy, Fred Ndubi, Howard W. French, Joseph Goldstein, Kenia, Liu Jiaqi, Madaraka, Mombasa, Nairobi, neocolonialismo, Oficina de Ayuda Exterior del Ministerio de Comunicaciones de China, Oficina de Desarrollo Humano del Programa de Desarrollo de la Organización de las Naciones Unidas, Partido Comunista Chino, Pékin, PCCh, racismo, régimen, Richard Ochieng, Ruiru, television, The New York Times, The Standard, Uhuru Muigai Kenyatta, xie jiao. Lascia un commento

Kenia depende económicamente de China, pero para los chinos, los kenianos son considerados personas despreciables, existen baños separados para cada raza y las trabajadoras kenianas son abofeteadas cada vez que cometen errores mínimos. Otro ejemplo sorprendente de la “deshumanización” implementada por el régimen comunista chino y sus secuaces “privados” para expandir la influencia de Pekín por el mundo.

 

En el año 2014, Howard W. French, excorresponsal extranjero de The New York Times (cuya oficina en Shanghái ha dirigido durante mucho tiempo, y el cual habla con fluidez varios idiomas, incluido el mandarín), y actualmente, profesor en la Escuela de Postgrado en Periodismo de la Universidad de Columbia, en Nueva York, describió a África como el “patio trasero” de China, documentando la expansión del gigante asiático en el continente negro en el libro titulado El segundo continente de China: Cómo un millón de migrantes están conformando el nuevo imperio en África (How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa, Nueva York: Knopf). Los chinos poseen mucho dinero, y África, literalmente, necesita de todo. ¿Qué mejor mercado, por lo tanto, para expandirse? Un caso de estudio es Kenia.

Independiente desde el año 1963, se estima que sus poco más de 224 000 millas cuadradas de superficie están habitadas por 50 millones de personas que oficialmente hablan inglés y swahili. Divididos en 47 grupos étnicos reconocidos (los bantúes y los nilóticos son los más generalizados, pero en tamaño, el primer grupo supera por más del doble al segundo), los kenianos son en su mayoría cristianos y predominantemente protestantes. Los siguen los musulmanes, mientras que una pequeña minoría practica los cultos indígenas. Entre las minorías, también se debe tener en cuenta a una de las comunidades hindúes más grandes de toda África (sobre todo, como consecuencia de la inmigración), a una de las presencias más significativas de la fe bahá’í y también a un pequeño grupo budista. El índice de pobreza es muy alto y en el Índice de Desarrollo Humano, publicado anualmente por la Oficina de Desarrollo Humano del Programa de Desarrollo de la Organización de las Naciones Unidas, el país africano ocupa el puesto 142.o de 189.

El tren de los deseos

A esta imagen se debe agregar una presencia china estimada (incluso a pesar de que las estadísticas son bastante difíciles de compilar) de aproximadamente 40 000 personas. Siguiendo la lógica de los negocios, muchos chinos permanecen en Kenia solo unos pocos años: la tasa de rotación de personal es, por lo tanto, alta y, en su mayor parte, ocupan puestos directivos en empresas que se dedican principalmente a infraestructura. La asociación actual entre el Gobierno de Kenia y el espíritu empresarial chino es, de hecho, más sólida que nunca. Uno de sus principales símbolos son las más de 290 millas de vías ferroviarias de la ruta de ida y vuelta que recorren dos veces al día los trenes que conectan la ciudad capital de Nairobi y el puerto de Mombasa en el Océano Índico: la vía férrea de ancho estándar Mombasa-Nairobi, la cual costó 3600 millones de dólares, se inauguró el 1 de junio de 2017 –durante el 54.° Día de Madaraka (Día de la Responsabilidad), es decir, el aniversario de la independencia de Kenia del Imperio Británico en el año 1963‒ pasando a ser la infraestructura más importante del país desde su independencia. Los chinos han financiado la misma, la empresa China Road and Bridge Corporation (surgida de la Oficina de Ayuda Exterior del Ministerio de Comunicaciones de China) la ha construido, empleando a 25 000 chinos y, durante varios años, la misma será operada por chinos.

En general, la Kenia de hoy en día está vinculada a Pekín por 5300 millones de dólares en deudas, pero en África, este de ninguna manera se trata de un caso aislado. De hecho, durante la última década, China se ha convertido en el mayor prestamista de dinero de los países africanos, permitiendo la construcción de puertos, carreteras, puentes, aeropuertos y ferrocarriles. Es un movimiento de capital y enorme poderío, que es ridículo imaginar que solo se trate de una iniciativa llevada a cabo por empresas privadas, aunque a menudo, en territorio africano, las empresas privadas son aquellas que actúan en materia económica. Todo permanece igual, pero Pekín así lo desea. No obstante, nunca se ha utilizado ninguna sinecura para referirse a los africanos como monos.

Neocolonialismo y discriminación

Tal y como documenta Joseph Goldstein en la edición de The New York Times del 15 de octubre, muchos gerentes chinos, de hecho, llaman a sus trabajadores kenianos “monos”. El caso de Richard Ochieng se volvió viral. Ochieng, un joven de 26 años de edad, perteneciente a una aldea cercana al lago Victoria, que trabaja en Ruiru, un asentamiento de rápido crecimiento situado en la periferia de Nairobi, para una empresa de motocicletas china. Su jefe, también de 26 años de edad, Liu Jiaqi, afirmó que todos los kenianos son monos, incluido el presidente de la república, Uhuru Muigai Kenyatta. Cuando Ochieng le respondió que los kenianos son libres desde el año 1963, Liu Jiaqi reiteró que incluso los monos son libres. El video que grabó el joven africano utilizando su teléfono inteligente recorrió el mundo y el joven asiático fue repatriado inmediatamente.

Pero, Goldstein afirma lo siguiente, “los […] episodios que involucran comportamiento discriminatorio procedente de la creciente fuerza laboral china en la región han inquietado a muchos kenianos, particularmente en un momento en que su gobierno busca lazos más estrechos con China”. De hecho, “[a]l tiempo que el país acepta la creciente presencia china en la región, muchos kenianos se preguntan si la nación le ha dado inconscientemente la bienvenida a la afluencia de extranjeros poderosos que están dando forma al futuro del país ‒y al mismo tiempo trayendo con ellos actitudes racistas. La misma se ha transformado en una pregunta desgarradora para la nación, y una que muchos kenianos, especialmente los más jóvenes, no esperaban tener que enfrentar en el siglo XXI”. Y nuevamente, no se trata únicamente del caso de Kenia, dado que China “[…] ha prestado dinero y ha generado proyectos a gran escala por toda África. Para poder pagar tales proyectos, muchos naciones africanas han solicitado préstamos a China o han confiado en recursos naturales tales como las reservas de petróleo”. ha prestado dinero y construido infraestructura a gran escala en África. Para pagar tales proyectos, muchas naciones africanas han tomado préstamos de China o han confiado en recursos naturales como las reservas de petróleo.

Según Goldstein, en Nairobi “[u]na persona afirmó haber visto cómo una gerente china abofeteaba a su colega keniana por haber cometido un error insignificante”. Otros trabajadores kenianos “[…] explicaron cómo los baños de sus oficinas estaban separados por raza: uno para los empleados chinos, el otro para los kenianos. Otro trabajador keniano describió cómo un gerente chino ordenó a sus empleados kenianos destapar un orinal lleno de colillas de cigarrillos, a pesar de que solo los empleados chinos se atreven a fumar adentro de las instalaciones”.

En cuanto al famoso ferrocarril Nairobi-Mombasa, Goldstein informa: “[…] en julio, The Standard, un periódico keniano, publicó un informe que describe la existencia de una atmósfera de ‘neocolonialismo’ relacionada con los trabajadores ferroviarios kenianos que se encuentran sujetos a la administración china. Algunos han sido sometidos a castigos degradantes, afirmó, mientras que a los ingenieros kenianos se les ha impedido conducir el tren, excepto cuando hay periodistas presentes. El mismo fue un reclamo particularmente candente, debido a que durante el viaje inaugural del tren, con el presidente Uhuru Kenyatta a bordo, dos mujeres kenianas condujeron el mismo con demasiada algarabía. En entrevistas con el periódico The New York Times, varios conductores de locomotoras actuales y exconductores coincidieron en que solo los conductores chinos podían operar el tren, describiendo una amplia gama de comportamientos racistas. Fred Ndubi, de 24 años de edad, recordó haber escuchado a sus supervisores chinos decir: ‘Con los uniformes puestos, ya no se verán como monos’. Otros dos trabajadores afirmaron haber escuchado lo mismo”.

Deshumanización

El racismo de las élites chinas en el extranjero incluso ha llegado a ser transmitido en la televisión. “Dos años atrás”, explica Goldstein, “una compañía china de detergentes para ropa publicó un comercial de televisión en el que se demostró la efectividad del detergente al transformar a un hombre negro en un hombre asiático de piel clara. El año pasado, WeChat, la popular aplicación de mensajería del país, se disculpó luego de que se descubrió que su software traducía las palabras chinas utilizadas para ‘extranjero negro’ como un insulto racial en inglés. Este año, la gala televisada del Año Nuevo Lunar en China, la cual se estima alcanza los 800 millones de espectadores, incluyó caricaturas de africanos con la cara pintada de negro y hombres disfrazados como animales“.

Las autoridades kenianas tampoco se quedaron a observar cómo “e[l] mes pasado, la policía keniana allanó la sede en Nairobi de un canal de televisión estatal chino, deteniendo por corto tiempo a varios periodistas. La elección del momento pareció sorprender a muchos: dicho accionar se llevó a cabo la misma semana en la que el presidente Kenyatta se encontraba en Pekín, lo que plantea el interrogante de si alguien dentro del Gobierno de Kenia deseaba generar un pleito diplomático”.

La situación se está volviendo cada vez más insostenible y Goldstein no tiene dudas en afirmar lo siguiente: “[…] se utiliza la deshumanización para justificar la esclavitud y la colonización“. Degradar a los kenianos a la condición de monos significa exactamente esto: utilizarlos hasta el límite de sus fuerzas y luego acorralarlos para generar atmósferas positivas y negativas en el país. En la actualidad, los lectores de Bitter Winter lamentablemente están acostumbrados al concepto de “deshumanización” puesto en práctica por las autoridades y los gerentes chinos: para ellos, aquellos que pertenecen a un xie jiao (y nuestros lectores saben que xie jiao es solo una expresión de conveniencia instrumental) ni siquiera tienen derecho pertenecer a la raza humana y son tratados como bestias en estaciones de policía, prisiones y campamentos de reeducación; al final, sin embargo, no solo los que pertenecen a un supuesto xie jiao, sino también quienes profesan una religión, incluidas aquellas autorizadas (y controladas) por el Gobierno comunista. Pero en la actualidad, la deshumanización puesta en práctica por el Partido Comunista Chino (PCCh) y por aquellos a quienes el PCCh permite hacer negocios en el extranjero para extender su influencia, también está invadiendo África. Además, tal y como Bitter Winter ya ha informado, basándose en un artículo de la revista Foreign Policy, China está utilizando su poder económico para evitar que los medios de comunicación extranjeros publiquen noticias sobre persecución religiosa. China está, en pocas palabras, definitivamente acercándose cada vez más a África.

Marco Respinti

Publicado con el mismo título
en Bitter Winter. Revista sobre la libertad religiosa
y los derechos humanos en China (versión española), 1-11-2018

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Le racisme s’ajoute à la liste des abus infâmes de la Chine

Pubblicato da Marco Respinti in 1 novembre 2018
Pubblicato in: articoli in francese, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: Afrique, Bitter Winter, Bureau de l’aide internationale au développement du Ministère chinois de la Communication, Bureau du développement humain du Programme des Nations Unies, chemin de fer, China Road and Bridge Corporation, China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa, communism, déshumanisation, discrimination, fabrication de detergent, fabrication de motos, Foreign Policy, Howard W. French, indice de développement humain, Joseph Goldstein, Journée de la responsabilité, Kenya, Liu Jiaqi, Madaraka Day, Mombassa, Nairobi, néocolonialisme, Pékin, regime, Richard Ochieng, Ruiru, singe, singes, television, The New York Times, The Standard, Uhuru Muigai Kenyatta, xie jiao. Lascia un commento

Au plan économique, le Kenya dépend de la Chine, mais les Chinois considèrent les Kenyans comme des singes, les salles de bain sont séparées pour chaque race et les travailleuses kenyanes se font frapper pour la moindre erreur. Un autre exemple frappant de la « déshumanisation » propre au régime communiste chinois et à ses acolytes (privés) œuvrant à l’expansion de l’influence de Pékin dans le monde.

 

En 2014, Howard W. French, ancien correspondant international du New York Times (qui a été pendant longtemps responsable du bureau de Shanghai et qui parle couramment plusieurs langues parmi lesquelles le mandarin) et aujourd’hui professeur à l’École supérieure de journalisme de l’université de Columbia à New York, décrit l’Afrique comme étant l’« arrière-cour » de la Chine en documentant l’expansion du géant asiatique sur le Continent noir dans le livre intitulé China’s Second Continent : How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa (Le Second continent de la Chine : comment un million de migrants construisent un nouvel empire en Afrique) (New York : Knopf). Les Chinois ont de l’argent, beaucoup d’argent, et l’Afrique manque littéralement de tout. Par conséquent, y aurait-il meilleur marché pour l’expansion ? Le Kenya en est une illustration.

Indépendant depuis 1963, le Kenya a une superficie d’un peu plus de 224 000 kilomètres carrés et une population estimée à 50 millions d’habitants dont les langues officielles sont l’anglais et le swahili. Composée de 47 groupes ethniques reconnus (les groupes de descendance bantoue et nilotique sont les plus répandus, mais les Bantous sont deux fois plus nombreux que la population d’origine nilotique), la population kenyane est majoritairement chrétienne et principalement protestante. Viennent ensuite les musulmans et une petite minorité animiste. Parmi les minorités, il convient également d’inscrire l’une des plus grandes communautés hindoues de toute l’Afrique (constituée principalement d’immigrés), l’un des plus grands groupes d’adeptes du bahaïsme et une petite communauté bouddhiste. Le taux de pauvreté est très élevé et d’après l’Indice de développement humain publié annuellement par le Bureau du développement humain du Programme des Nations Unies pour le développement, ce pays africain occupe la 142e place sur 189 pays.

Le cours des choses

À ce tableau, il convient d’ajouter une présence chinoise (même s’il est difficile d’avoir des statistiques exactes) estimée à environ 40 000 personnes. Suivant la logique des affaires, beaucoup de Chinois ne vivent au Kenya que quelques années : le taux de rotation du personnel est donc élevé et la plupart d’entre eux occupent des postes de direction au sein de sociétés du secteur des infrastructures. Le partenariat entre le gouvernement kenyan et les entrepreneurs chinois est en fait plus solide aujourd’hui que jamais. L’une des plus grandes réalisations qui en découle est la construction de près de 470 km de chemin de fer qui permet de relier en aller et retour et deux fois par jour la capitale Nairobi au port de Mombassa sur l’Océan indien ; il s’agit du chemin de fer à voie normale Mombasa-Nairobi, réalisé pour un coût de 3,6 milliards de dollars, inauguré le 1er juin 2017, jour du 54e Madaraka Day (Journée de la responsabilité), c’est-à-dire le jour anniversaire de l’indépendance du Kenya de l’Empire britannique en 1963, et constituant la plus importante infrastructure du pays depuis son indépendance. La Chine a financé la réalisation de cette infrastructure, la China Road and Bridge Corporation (une émanation du Bureau de l’aide internationale au développement du Ministère chinois de la Communication) a exécuté les travaux avec le concours de 25 000 employés chinois et le chemin de fer sera géré par les Chinois pendant plusieurs années.

De manière globale, le Kenya est actuellement débiteur de 5,3 milliards de dollars américains à l’égard de Pékin, mais il est loin d’être un cas isolé en Afrique. En effet, au cours de la dernière décennie, la Chine est devenue le plus grand bailleur de fonds des pays africains, permettant ainsi la construction des ports, routes, aéroports et chemins de fer. Cette relation charrie une telle mobilisation de capitaux et de pouvoirs qu’il serait absurde de penser qu’il s’agit uniquement d’une initiative du secteur privé, même si souvent, sur les territoires africains, les entreprises privées sont celles qui agissent de manière concrète. Rien ne bouge sans que ce soit la volonté de Pékin. Cependant, personne ne s’est jamais soucié du fait que les Africains soient traités de singes.

Néocolonialisme et discrimination

Comme Joseph Goldstein l’indique dans le numéro du New York Times du 15 octobre, plusieurs responsables chinois traitent effectivement leurs employés kenyan de « singes ». Le cas de Richard Ochieng a fait le buzz. gé de 26 ans et originaire d’un village à proximité du Lac Victoria, Ochieng travaille à Ruiru, un quartier en pleine expansion à la sortie de Nairobi, pour une société chinoise de fabrication de motos. Son patron, âgé de 26 ans, Liu Jiaqi, prétend que tous les Kenyans sont des singes, y compris le président de la République, Uhuru Muigai Kenyatta. Lorsque Ochieng a déclaré que les Kenyans étaient libres depuis 1963, Liu Jiaqi lui a rétorqué que même les singes étaient libres. La vidéo enregistrée par le jeune Africain avec son Smartphone a fait le tour du monde et le jeune asiatique a immédiatement été rapatrié.

Toutefois, Goldstein affirme que : « […] les scènes illustrant l’attitude discriminatoire des travailleurs chinois dont le nombre ne cesse de croître dans la région perturbent au plus haut point beaucoup de Kenyans, surtout à un moment où leurs dirigeants souhaitent renforcer les liens avec la Chine ». En effet « [vu que] le pays accepte la présence de plus en plus importante de ressortissants chinois dans cette région, beaucoup de Kenyans en sont à se demander si leur pays n’aurait pas, sans le savoir, ouvert les portes à un afflux de puissants étrangers qui façonnent désormais le destin du pays, apportant avec eux des attitudes racistes. Cette situation constitue un épineux problème pour la nation, auquel beaucoup de Kenyans, les plus jeunes surtout, n’avaient pas imaginé qu’ils seraient confrontés au 21e siècle ». En outre, le Kenya n’est pas un cas isolé étant donné que la Chine « […] a prêté de l’argent et réalisé des infrastructures de grande envergure à travers le continent africain. Pour pouvoir financer de tels projets, beaucoup de pays africains ont emprunté à la Chine ou ont eu recours aux ressources naturelles, à l’instar des réserves de pétrole.

Selon Goldstein, à Nairobi, « un témoin a raconté avoir vécu une scène où une responsable chinoise a frappé sa collègue kenyane pour une petite bévue ». D’autres travailleurs kenyans « […] ont raconté comment les toilettes dans leur bureau étaient séparées en fonction des races : d’une part celles des employés chinois et d’autre part ceux des Kenyans. Un autre Kenyan a expliqué comment un responsable chinois a ordonné à des employés kenyans de déboucher un urinoir plein de mégots de cigarettes, pourtant seuls les Chinois se permettent de fumer dans les toilettes ».

Quant au chemin de fer reliant Nairobi à Mombasa, Goldstein révèle qu’« en juillet, The Standard, un journal kenyan, a publié un rapport décrivant un contexte de « néocolonialisme » dans lequel travaillent les employés kenyans supervisés par des Chinois dans la construction du chemin de fer. Le rapport indique que certains ont subi des punitions humiliantes et qu’il était interdit aux ingénieurs kenyans de conduire le train, sauf en présence de journalistes. Cette allégation a fait l’effet d’une bombe étant donné que lors de son voyage inaugural avec le Président Uhuru Kenyatta à bord, le train avait été conduit par deux femmes, à grand renfort de publicité. Lors d’interviews accordées au New York Times, plusieurs anciens et actuels conducteurs de train ont confirmé que seuls les ingénieurs chinois étaient autorisés à conduire le train, égrenant au passage tout un chapelet de comportements racistes. « En uniformes, vous ressemblerez moins à des singes », a déclaré Fred Ndubi, âgé de 24 ans, se rappelant les propos de ses superviseurs chinois. Deux de ses collègues qui l’accompagnaient ont corroboré le récit ».

Déshumanisation

Le racisme de l’élite chinoise à l’étranger a même fini par se manifester à la télévision. « Il y a deux ans », explique Goldstein, « une entreprise de fabrication de détergent pour la lessive basée en Chine a diffusé une publicité dans laquelle son produit transformait un homme noir en un Asiatique de teint clair. L’année dernière, WeChat, la célèbre application de messagerie du pays, a présenté des excuses, après avoir réalisé que son logiciel traduisait en des termes racistes en anglais l’équivalent chinois d’« étrangers de race noire ». Cette année, la fête télévisée du Nouvel An chinois, regardée par environ 800 millions de téléspectateurs, a montré des caricatures d’Africains de race noire et d’hommes vêtus de costumes d’animaux ».

Les autorités kenyanes ne sont pas restées les bras croisés en ce sens que « la police kenyane a effectué une descente dans le quartier de Nairobi depuis lequel une chaîne de télévision publique chinoise émet et a brièvement arrêté plusieurs journalistes. Le moment choisi en a surpris plus d’un : La scène s’est déroulée la même semaine où le Président Kenyatta était à Pékin, et l’on s’est posé la question de savoir si quelqu’un au sein du gouvernement kényan voulait créer un incident diplomatique ».

La situation est de plus en plus intenable et Goldstein n’en doute pas : il s’agit de la « […] déshumanisation employée autrefois pour justifier l’esclavage et la colonisation ». Rabaisser les Kényans au rang de singes implique exactement de les utiliser comme bon leur semble et de s’en débarrasser, faisant de ce fait la pluie et le beau temps par la suite dans le pays. À présent, les lecteurs de Bitter Winter sont malheureusement habitués au concept de « déshumanisation » pratiquée par les autorités et les entrepreneurs chinois ; pour ces derniers, les adeptes de xie jiao (et nos lecteurs sont sans ignorer que le terme xie jiao n’est qu’un subterfuge servant à des fins d’instrumentalisation) ne sont pas considérés comme des humains et sont par conséquent traités comme des bêtes dans les postes de police, les prisons et les camps de rééducation ; tout compte fait, il n’y a pas que les présumés membres de xie jiao qui sont visés, mais toute personne pratiquant une religion, y compris celles autorisées (et contrôlées) par le régime communiste. Cependant, la déshumanisation pratiquée par le Parti communiste chinois (PCC) et par les personnes qu’il autorise à faire des affaires à l’étranger dans le but d’étendre son influence, s’installe aussi en Afrique. De plus, comme l’a déjà rapporté Bitter Winter en se basant sur un article paru dans Foreign Policy, la Chine use de son pouvoir économique pour empêcher les médias étrangers de publier des articles sur les persécutions religieuses. La Chine a une marge de manœuvre considérable à l’étranger, et certainement en Afrique.

Marco Respinti

Publié, sous le même titre, in
Bitter Winter: un magazine sur la liberté religieuse
et les droits de l’homme en Chine
(Version français), 1 novembre 2018

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Alla lista di abusi infami si aggiunge anche il razzismo

Pubblicato da Marco Respinti in 1 novembre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: Africa, Bitter Winter, China Road and Bridge Corporation, China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building a New Empire in Africa, Cina, comunismo, deumanizzazione, ferrovia, Foreign Policy, Fred Ndubi, Giorno della responsabilità, Howard W. French, Human Development Index, Joseph Goldstein, Kenya, Liu Jiaqi, Madaraka Day, Mombasa, Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway, motociclette, Nairobi, neocolonialismo, Partito Comunista Cinese, Pechino, razzismo, regime, Richard Ochieng, Ruiru, scimmia, scimmie, socialcomunismo, The New York Times, The Standard, totalitarismo, Ufficio per i rapporti sullo sviluppo umano del Programma di sviluppo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, Ufficio per l’aiuto allo sviluppo del ministero cinese delle Comunicazioni, Uhuru Muigai Kenyatta, xie jiao. Lascia un commento

Il Kenya dipende economicamente dalla Cina, ma per i cinesi i kenyoti sono solo scimmie, ci sono bagni separati per ogni razza e le lavoratrici keniote vengono prese a schiaffi se commettono piccoli errori. Un altro, clamoroso esempio della “de-umanizzazione” cara al regime comunista cinese e ai suoi accoliti “privati” per espandere l’influenza di Pechino nel mondo

 

Nel 2014, Howard W. French, ex corrispondente estero di The New York Times (del quale ha a lungo diretto l’ufficio di Shanghai, parlando fluentemente diverse lingue tra cui il cinese mandarino) e oggi docente alla Columbia University Graduate School of Journalism di New York, ha descritto l’Africa come il “cortile” della Cina, documentando l’espansione del gigante asiatico nel Continente nero con il libro China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building a New Empire in Africa (Knopf, New York). I cinesi hanno i soldi, moltissimi, e l’Africa ha bisogno letteralmente di tutto. Quale mercato migliore, dunque, per espandersi? Un caso di scuola è il Kenya.

Indipendente dal 1963, i poco più di 580mila kmq della sua superficie sono abitati da 50 milioni stimati di persone che parlano ufficialmente inglese e swahili. Suddivisi in 47 gruppi etnici riconosciuti (i bantu e i nilotici sono i più diffusi, ma i primi sono più del doppio dei secondi), i kenioti sono in maggioranza cristiani e in prevalenza protestanti. Seguono i musulmani, mentre i culti indigeni sono praticati da una piccola minoranza. Tra le minoranze va registrata anche una delle più vaste comunità indu dell’Africa (effetto soprattutto dell’immigrazione), una delle presenze più significativa della fede Bahá’í e pure una piccola realtà buddista. Il tasso di povertà è elevatissimo e nello Human Development Index, pubblicato annualmente dall’Ufficio per i rapporti sullo sviluppo umano del Programma di sviluppo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il Paese africano è al 142° posto su 189.

 

Il treno dei desideri

A questo quadro si aggiunge una presenza cinese valutata (anche se le statistiche sono parecchio difficili da stilare) in circa 40mila unità. Per le logiche aziendali, molti cinesi si trattengono in Kenya solo pochi anni: il tasso del loro turn over è dunque alto e in massima parte ricoprono ruoli dirigenziali in aziende impegnate soprattutto in infrastrutture. La partnership fra governo keniota e imprenditoria cinese è infatti oggi più salda che mai. Uno dei suoi simboli maggiori sono le 290 e rotte miglia di binari della tratta percorsa due volte al giorno, andate e ritorno, dai convogli che fanno la spola fra la capitale Nairobi e il porto di Mombasa sull’Oceano Indiano: la Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway, costata 3,6 miliardi di dollari statunitensi, inaugurata il 1° giugno 2017 ‒ 54° Madaraka Day (Giorno della responsabilità), cioè l’anniversario dell’autodeterminazione keniota dall’impero britannico nel 1963 ‒ e maggior infrastruttura da che il Paese è indipendente. I cinesi l’hanno finanziato, la China Road and Bridge Corporation (sviluppatasi dall’Ufficio per l’aiuto allo sviluppo del ministero cinese delle Comunicazioni) l’ha costruita impiegando 25mila cinesi e, per diversi anni, saranno i cinesi a mandarla avanti.

Nel complesso, oggi il Kenya è legato a Pechino da 5,3 miliardi di dollari statunitensi di debito, ma in Africa non è affatto un caso isolato. Nel corso dell’ultimo decennio, infatti, la Cina è diventata il maggior prestatore di denaro a Paesi africani, permettendo la costruzione di porti, strade, ponti, aeroporti e ferrovie. Un movimento di capitali e di poteri enormi che è risibile immaginare essere solo l’iniziativa di qualche azienda privata ancorché spesso, sul territorio africano, ad agire siano proprio aziende private. Cioè non si muove certamente foglia che Pechino non voglia. Eppure nel pacchetto non è mai stata compresa alcuna sine cura per trattare gli africani come scimmie.

 

Neocolonialismo e discriminazione

Come documenta Joseph Goldstein su The New York Times del 15 ottobre, molti dirigenti cinesi chiamano infatti proprio così, «scimmie», i kenioti alle loro dipendenze. Il caso di Richard Ochieng è diventato virale. 26 anni, originario di un villaggio nei pressi del lago Victoria, Ochieng lavora a Ruiru, un sobborgo in rapida crescita appena fuori Nairobi, per un’azienda cinese che fabbrica motociclette. Il suo capo, della stessa età, Liu Jiaqi, sostiene che tutti i kenioti siano scimmie, compreso il presidente della repubblica, Uhuru Muigai Kenyatta. Quando Ochieng gli risponde che i kenyoti sono liberi dal 1963, Jiaqui ribadisce che anche le scimmie sono libere. Il video registrato dal giovane africano con lo smartphone ha fatto il giro del mondo e il giovane asiatico è stato subito rimpatriato.

Ma, dice Goldstein, «[…] episodi che implicano un comportamento discriminatorio da parte della crescente forza lavoro cinese della regione hanno turbato molti kenioti, specialmente in un momento come questo in cui il loro governo cerca legami ancora più stretti con la Cina». Infatti, «mentre il Kenya accoglie con favore la crescente presenza della Cina nella regione, molti kenioti si chiedono se il loro Paese non si sia involontariamente aperto a potenti influssi stranieri che ne sta plasmando il futuro, portando con sé anche atteggiamenti razzistici. È un interrogativo straziante, un interrogativo che molti kenioti, specialmente i più giovani, non si aspettavano di doversi porre nel secolo XXI». E, di nuovo, non è solo il caso del Kenya, giacché la Cina «[…] ha prestato denaro e costruito infrastrutture su vasta scala in tutta l’Africa. Per pagare questi progetti, molti Paesi africani hanno chiesto prestiti alla Cina o hanno impiegato risorse naturali quali le riserve di petrolio».

A Nairobi, riferisce Goldstein, «un testimone ha detto di avere visto un dirigente cinese schiaffeggiare un collega keniota, che per di più era donna, per via di un piccolo errore sul lavoro». Altri lavoratori kenioti «[…] hanno spiegato che nel loro ufficio ci sono bagni distinti a seconda della razza: uno per i dipendenti cinesi, l’altro per i kenioti. Un ennesimo operaio keniota ha raccontato di un dirigente cinese che ha ordinato ai propri dipendenti kenioti di sturare un orinatoio dai mozziconi di sigarette benché solo i dipendenti cinesi osino fumare al chiuso».

Quanto alla famosa ferrovia Nairobi-Mombasa, informa Goldstein, «[…] in luglio un’inchiesta del giornale keniota The Standard ha descritto l’atmosfera di “neocolonialismo” in cui lavorano i ferrovieri kenioti sotto la gestione cinese. Alcuni sono stati sottoposti a punizioni umilianti, ha riportato il giornale, mentre agli ingegneri kenioti è stato impedito di guidare il treno, tranne quando sono presenti giornalisti, un’affermazione, questa, particolarmente esplosiva dal momento che, durante il viaggio inaugurale del treno, con a bordo il presidente Uhuru Kenyatta, è stata data con grande spolvero la notizia che a guidare il convoglio fossero due donne keniote. In alcune interviste a The New York Times diversi ex macchinisti hanno concordato nel dire che solo ai cinesi è stato permesso condurre il treno a fronte di una serie di comportamenti razzisti. “Con la divisa indosso non assomiglierai più alle scimmie”: sono queste le parole pronunciate dai suoi supervisori cinesi che il 24enne Fred Ndubi ricorda, confortato dal racconto identico fornito da altri due suoi colleghi».

 

De-umanizzazione

Il razzismo delle élite cinesi all’estero è del resto finito persino in televisione. «Due anni fa», spiega Goldstein, «un’azienda cinese di detersivi per il bucato ha fatto trasmettere uno spot televisivo in cui l’efficacia del detersivo veniva dimostrata trasformando un uomo nero in un uomo asiatico dalla pelle chiara. L’anno scorso, WeChat, l’app di messaggistica più diffusa in Cina, si è scusata quando ha scoperto che il proprio software di traduzione rendeva in inglese le parole cinesi “straniero nero” con un insulto razziale. Quest’anno, nel gala per il Capodanno lunare cinese trasmesso dalla televisione, che si è stimato avere raggiunto 800 milioni di spettatori, erano presenti anche caricature di africani: uomini dal volto nero in pelle di animale».

Né le autorità keniote sono rimaste semplicemente a guardare, visto che, «il mese scorso, la polizia keniota ha fatto irruzione nella sede di un canale televisivo di Stato cinese a Nairobi fermando per un breve periodo diversi giornalisti. Tempismo curioso, secondo molti, visto che il fatto è avvenuto nella stessa settimana in cui il presidente Kenyatta era a Pechino, come se qualcuno all’interno del governo keniota stesse cercando di creare un incidente diplomatico».

La situazione sta diventando sempre più insostenibile e Goldstein si esprime senza mezzi termini: si tratta di «[…] de-umanizzazione utilizzata per giustificare schiavitù e decolonizzazione». Degradare i kenioti a scimmie significa esattamente questo: servirsene alla bisogna per relegarli poi in un angolo onde fare il buono e il cattivo tempo nel Paese. Ora, i lettori di Bitter Winter sono purtroppo abituati al concetto di “de-umanizzazione” praticato dalle autorità e dai dirigenti cinesi: per loro chi appartiene a uno xie jiao (e i nostri lettori sanno che xie jiao è solo una espressione di comodo strumentale) non ha diritto nemmeno all’umanità e viene trattato come una bestia da macello nelle stazioni di polizia, in prigione, nei campi di rieducazione; in fine dei conti, però, non solo chi appartiene a un presunto xie jiao, ma chiunque professi una religione, comprese quelle autorizzate (e controllate) dal governo comunista. Adesso però la de-umanizzazione praticata da Partito Comunista Cinese (PCC) e da coloro a cui il PCC consente di fare business all’estero al fine di estendere la propria influenza sta occupando anche l’Africa. Del resto Bitter Winter ha già riferito, basandosi su un articolo di Foreign Policy, di come la Cina usi il proprio potere economico per impedire ai media stranieri di pubblicare notizie sulle persecuzioni religiose. La Cina insomma è sempre più vicina, sicuramente all’Africa.

Marco Respinti

Pubblicato con il medesimo titolo
in
Bitter Winter. Libertà religiosa e diritti umani in Cina

(Versione italiana), 1-11-2018

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Rassismus: Ein weiterer Punkt auf der unrühmlichen Liste der Schandtaten Chinas

Pubblicato da Marco Respinti in 1 novembre 2018
Pubblicato in: articoli in tedesco, articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: Bitter Winter, Britischen Kolonialreich, China Afrika, China Road and Bridge Corporation, China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa, Diskriminierung, Foreign Policy, Howard W. French, Human Development Index, Human Development Office im Rahmen des UN-Entwicklungsprogramms, Joseph Goldstein, Kenia, kommunismus, Liu Jiaqi, Madaraka-Tag, Mombasa, Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway, Nairobi, Neokolonialismus, Richard Ochieng, Ruiru, Tag der Verantwortung, The New York Times, The Standard, Uhuru Muigai Kenyatta, xie jiao. Lascia un commento

Kenia ist wirtschaftlich von China abhängig – aber die Chinesen betrachten die Kenianer lediglich als Affen. Für jede Rasse gibt es unterschiedliche Waschräume. Die kenianischen Arbeiterinnen werden bei geringfügigen Fehlern ins Gesicht geschlagen. Dies ist ein weiteres drastisches Beispiel für die “Entmenschlichung“, die die kommunistische Regierung Chinas und ihre “privaten“ Gefolgsleute gerne betreiben, um den Einfluss Pekings in der Welt auszuweiten.

 

Howard W. French ist ehemaliger Auslandskorrespondent von The New York Times und leitete lange Zeit deren Büro in Shanghai. Er spricht mehrere Sprachen fließend, darunter Mandarin. Heute ist er Professor an der Columbia University Graduate School of Journalism in New York. 2014 beschrieb er Afrika als Chinas “Hinterhof“ und dokumentierte die Expansion des asiatischen Riesen auf dem Schwarzen Kontinent in seinem Buch: China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa (New York: Knopf). Die Chinesen haben Geld – viel Geld – und Afrika hat buchstäblich nichts. Gäbe es einen besseren Expansionsmarkt? Kenia ist hierfür eine Fallstudie.

Das Land ist seit 1963 unabhängig, umfasst kaum mehr als 580 000 Quadratkilometer und wird von geschätzt 50 Millionen Menschen bewohnt. Die offiziellen Landessprachen sind Englisch und Suaheli. Die Kenianer sind in 47 anerkannte ethnische Gruppen unterteilt, die meisten davon sind Bantu oder gehören der nilotischen Volksgruppe an, wobei es mehr als doppelt so viele Bantu wie Angehörige der nilotischen Volksgruppe gibt. Die meisten Kenianer sind Christen, vornehmlich Protestanten, dann folgen die Muslime, während die indigenen Religionen nur von einer kleinen Minderheit ausgeübt werden. Zu den Minderheiten muss man auch die größte hinduistische Gemeinschaft in ganz Afrika (die vor allem der Immigration geschuldet ist) sowie eine der wichtigsten Bahai-Gemeinden und auch eine kleine Gruppe von Buddhisten zählen. Dem Human Development Index zufolge, der jährlich vom Human Development Office im Rahmen des UN-Entwicklungsprogramms herausgegeben wird, ist die Armutsquote sehr hoch: Das afrikanische Land liegt unter 189 Ländern auf dem 142. Platz.

Der Zug der Sehnsucht

Dazu kommen geschätzt (wenn Erhebungen auch sehr schwierig sind) 40 000 Chinesen. Der Geschäftslogik folgend bleiben viele Chinesen nur ein paar Jahre in Kenia: Die Fluktuationsrate ist also sehr hoch und die meisten von ihnen übernehmen Führungspositionen in Unternehmen, die vornehmlich im Infrastrukturbereich tätig sind. Die Zusammenarbeit zwischen der kenianischen Regierung und den chinesischen Unternehmen ist heute tatsächlich gefestigter denn je. Eines der wichtigsten Zeichen dafür sind die über 450 Kilometer Eisenbahnstrecke, auf der zwei Mal am Tag Züge zwischen der Hauptstadt Nairobi und der, am Indischen Ozean, gelegenen Hafenstadt Mombasa verkehren. Der Bau der Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway kostete 3,6 Milliarden US-Dollar. Sie wurde am 1. Juni 2017 eingeweiht – das war der 54. Madaraka-Tag (Tag der Verantwortung), d.h. der Jahrestag, an dem die kenianische Unabhängigkeit vom Britischen Kolonialreich seit 1963 gefeiert wird. Die Eisenbahnstrecke ist die hervorstechendste Infrastrukturmaßnahme des Landes seit seiner Unabhängigkeit. Sie wurde von den Chinesen finanziert, sie wurde von der China Road and Bridge Corporation (entstanden aus dem Büro für Entwicklungshilfe des chinesischen Kommunikationsministeriums) unter Mitwirkung von 25 000 Chinesen gebaut und sie wird von Chinesen betrieben werden.

Derzeit ist Kenia durch Schulden in Höhe von 5,3 Milliarden US-Dollar an China gebunden, doch damit ist das Land in Afrika kein Einzelfall. Tatsächlich ist China im letzten Jahrzehnt zum wichtigsten Geldgeber für afrikanische Länder geworden und hat damit den Bau von Häfen, Straßen, Brücken, Flughäfen und Eisenbahnstrecken ermöglicht. Das ist eine enorme Investition an Geld und Kräften, und es wäre lächerlich davon auszugehen, dass diese nur auf der Initiative privater Unternehmen beruht, auch wenn vor Ort in Afrika meistens private Unternehmen tätig sind. Ohne Pekings Genehmigung tut sich nichts. Doch in dem Hilfspaket wurde keine Sorge dafür getragen, dass Afrikaner nicht mit Namen wie “Affen“ betitelt werden dürfen.

 

Neokolonialismus und Diskriminierung

In der Ausgabe von The New York Times vom 15. Oktober berichtet Joseph Goldstein, dass viele der chinesischen Manager ihre kenianischen Mitarbeiter tatsächlich als “Affen“ bezeichnen. Der Fall von Richard Ochien ging durch alle Medien. Der 26 Jahre alte Ochieng aus einem Dorf in der Nähe des Victoria-Sees arbeitet in einer chinesischen Motorradfabrik in Ruiru, einer schnell wachsenden Siedlung an der Grenze zu Nairobi. Sein ebenfalls 26 Jahre alter Vorgesetzter, Liu Jiaqi, behauptete, alle Kenianer seien Affen, selbst der Präsident der Republik. Als Ochieng daraufhin antwortete, dass die Kenianer seit 1963 ein freies Volk seien, erwiderte Liu Jiaqi, dass selbst Affen frei seien. Der junge Afrikaner nahm ein Video dieses Gesprächs mit seinem Smartphone auf und schickte es in die Welt – der junge Asiate wurde umgehend ins Heimatland zurückbeordert.

Doch Goldstein schreibt: “[…] Vorfälle diskriminierenden Verhaltens durch die wachsende Zahl chinesischer Arbeiter in der Region haben viele Kenianer aufgebracht, gerade jetzt, wo die Regierung eine engere Bindung an China sucht.“ Tatsächlich “fragen sich viele Kenianer angesichts der wachsenden Zahl von Chinesen im Land, ob sie nicht unbesonnen eine fremde ausländische Macht willkommen geheißen haben, welche die Zukunft des Landes bestimmt – und ihnen gleichzeitig rassistisch gegenübersteht. Diese Frage quält das Land und ist vor allem für viele jüngere Kenianer eine Frage, mit der sie im 21. Jahrhundert nicht mehr gerechnet hatten.“ Auch in dieser Hinsicht ist Kenia wieder kein Einzelfall, da China “[…] überall in Afrika große Geldsummen verliehen und in beeindruckendem Ausmaß Infrastruktur errichtet hat. Um solche Projekte zu bezahlten, haben viele afrikanische Länder von China Geld geliehen, oder aber auf natürliche Ressourcen, wie z.B. Erdöl, zurückgegriffen.“

In Nairobi, so Goldstein, “berichtet jemand wie er Augenzeuge davon wurde, wie ein chinesischer Manager seiner kenianischen Kollegin wegen eines geringfügigen Fehlers ins Gesicht schlug.“ Andere kenianische Mitarbeiter “[…] erzählen, das die Waschräume in den Büros nach Rassen getrennt sind: Einer für die chinesischen Mitarbeiter, einer für die kenianischen. Ein anderer kenianischer Arbeiter beschreibt, wie ein chinesischer Manager kenianische Mitarbeiter anwies, ein mit Zigarettenstummeln verstopftes Urinal zu reinigen, obwohl nur die chinesischen Mitarbeiter es überhaupt wagten, im Gebäude zu rauchen.“

In Bezug auf die berühmte Eisenbahnstrecke Nairobi-Mombasa schreibt Goldstein:“[…] im Juli wurde in der kenianischen Zeitung The Standard ein Bericht veröffentlicht, in dem die Atmosphäre für die kenianischen Bahnarbeiter unter chinesischer Leitung als “neo-kolonialistisch“ bezeichnet wird. Unter anderem steht dort, dass manche von ihnen erniedrigenden Strafen unterzogen wurden und kenianische Ingenieure die Züge nicht steuern durften, wenn nicht gerade Journalisten anwesend waren. Letztere Nachricht war besonders brisant, denn bei der Jungfernfahrt, bei der Präsident Uhuru Kenyatta mitreiste, wurde der Zug höchst werbewirksam von zwei Kenianerinnen gesteuert. In Gesprächen mit The New York Times berichten mehrere derzeitige und ehemalige Lokomotivführer einhellig, dass nur die chinesische Zugleiter, den Zug steuern dürfen. Außerdem beschreiben sie noch weitere rassistische Vorkommnisse: So erinnert sich der 24 Jahre alte Fred Ndubi, dass sein chinesischer Supervisor meinte: ‚Wenn ihr Uniformen anhabt, werdet ihr nicht mehr wie Affen aussehen.‘ Zwei Kollegen von ihm berichteten von dem gleichen Vorfall.“

 

Entmenschlichung

Der Rassismus der chinesischen Elite im Ausland hat es sogar bis ins Fernsehen geschafft. “Vor zwei Jahren,“ so Goldstein, “warb eine Waschmittelfirma in China für die Reinigungskraft ihres Waschmittels, indem sie zeigte, wie ein Schwarzer dadurch in einen hellhäutigen Asiaten verwandelt wurde. Im letzten Jahr hat sich die in China beliebte Messaging-App WeChat entschuldigt, weil sich herausstellte, dass die chinesischen Worte für “schwarzer Ausländer“ in der englischen Übersetzung zur rassistischen Beleidigung wurden. Dieses Jahr umfasste die Gala zum Neuen Mondjahr, die in China im Fernsehen übertragen wurde und geschätzt 800 Millionen Zuschauer erreichte, Karikaturen von Afrikanern mit schwarz geschminkten Gesichtern und Männern in Tierkostümen.

Die kenianischen Behörden sahen dabei nicht einfach zu und blieben untätig: “Letzten Monat durchsuchte die kenianische Polizei die Zentrale eines vom chinesischen Staat geleiteten Fernsehsenders in Nairobi und nahm kurzfristig mehrere Journalisten fest. Viele waren über das Timing erstaunt: In der gleichen Woche besuchte Präsident Kenyatta nämlich Peking, was die Frage aufwirft, ob jemand in der kenianischen Regierung für diplomatische Unruhen sorgen wollte.“

Die Situation wird immer unerträglicher und Goldstein hegt keine Zweifel daran, dass es sich hier um “[…] Entmenschlichung zur Rechtfertigung von Sklaverei und Kolonialisierung“ handelt. Denn genau darum geht es, wenn die Kenianer zu Affen degradiert werden: Sie auszubeuten und sie dann in die Ecke zu drängen und das Land nach eigenen Vorstellungen zu lenken. Bitter Winter-Leser sind leider mit dem Konzept der “Entmenschlichung“ vertraut, dem die chinesischen Behörden und Manager folgen: Für sie haben xie jiao-Angehörige (und unsere Leser wissen, dass eine xie jiao einfach nur ein instrumentalisierender Begriff ist) nicht einmal Anspruch auf Menschlichkeit und werden auf Polizeidienststellen, in Gefängnissen und Umerziehungslagern wie Tiere behandelt. Letztendlich gilt das nicht nur für diejenigen, die einer xie jiao angehören, sondern für alle, die sich zu einer Religion bekennen, selbst wenn diese von der kommunistischen Regierung genehmigt (und kontrolliert) wird. Aber jetzt greift diese Entmenschlichung durch die Kommunistische Partei Chinas (KPCh) und diejenigen, denen die KPCh Geschäfte im Ausland erlaubt, um ihren Einfluss auszuweiten, auch auf Afrika über. Außerdem benutzt China seine Wirtschaftsmacht auch dazu, um – wieBitter Winter bereits basierend auf einem in Foreign Policy erschienen Artikel berichtet hat – ausländische Medien davon abzuhalten über religiöse Verfolgung zu berichten. Chinas Hand reicht weit über die eigenen Grenzen hinaus – auf jeden Fall bis nach Afrika.

Marco Respinti

Mit dem gleichen Titel veröffentlicht
im Bitter Winter. Ein Magazin über Religionsfreiheit
und Menschenrechte in China, 1-11-2018

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中国の悪行リストに人種差別が加わる ([Japanese:] Adding Racism to China’s record of infamous abuses)

Pubblicato da Marco Respinti in 1 novembre 2018
Pubblicato in: articoli in giapponese, articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: Africa, Africans, Beijing, black foreigner, British Empire, CCP, China, China Road and Bridge Corporation, China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa, Chinese Communist Party, communism, Day of Responsibility, de-humanization, dehumanization, discrimination, Foreign Aid Office of the Ministry of Communications of China, Foreign Policy, Fred Ndubi, home-rule, Howard W. French, Human Development Index, Human Development Office of the Development Programme of the United Nations Organization, human rights, Joseph Goldstein, Kenya, Kenyans, laundry detergent, Liu Jiaqi, Madaraka Day, Mombasa, Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway, monkey, monkeys, motorcycle company, Nairobi, Neocolonialism, racism, railway, re-education camps, regime, religious freedom, religious liberty, religious persecution, Richard Ochieng, Ruiru, television, television commercial, The New York Times, The Standard, totalitarianism, trains, tv, tv commercial, Uhuru Muigai Kenyatta, WeChat, xie jiao. Lascia un commento

ケニアは中国に経済を依存している。しかし、中国人にとってケニア人は猿に等しい。中国人とケニア人ではトイレが分かれており、管理職の中国人は些細なミスでケニア人の女性の顔を叩く。これは中国共産党政権が重視する「非人間化」、そして、中国の影響を世界に広めるための「民間」の追従者を示す新たな事例である。

 

2014年、ニューヨーク・タイムズ紙で海外特派員を務め(上海支社を責任者として長年にわたって導き、北京語を含む複数の言語を流暢に話すことが可能)、現在はニューヨークのコロンビア大学の大学院でジャーナリズムを教えるハワード・W. フレンチ(Howard W. French)氏は、アフリカを中国の「裏庭」と呼び、著書『中国の2つめの大陸: 100万人の移民がアフリカに新しい帝国を作る』(China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa)のなかで、アフリカ大陸における中国の進出を解説している。中国は豊富な資金力を有しているが、アフリカはあらゆるものが欠乏している。進出する上でこれ以上うってつけの場所はない。今回はケニアを取り上げる。

ケニアは1963年に独立し、約582,600平方キロメートルの国土に推定5,000万人が暮らす。公用語は英語とスワヒリ語だ。ケニアには47の民族が存在し(最大部族はバンツー族。第2位のナイル族2倍以上の人口を有する)、キリスト教、そのなかでも圧倒的にプロテスタントの信者が多い。次に多いのはイスラム教徒だ。また、土着信仰が少数民族の間で受け継がれている。少数民族のなかで特に目を引くのが、ヒンドゥー教徒の存在だ。ケニアはアフリカ諸国のなかで最も多くのヒンドゥー教徒が生活する国である。バハーイー教も存在感を放ち、人数は少ないものの仏教徒もいる。貧困率はとても高く、国際連合開発計画が毎年出版する人間開発指数では、ケニアは189ヶ国中142位であった。

欲にまみれた鉄道

この実態に約4万人といわれる中国人の存在を加えなければならない(集計を取ることは極めて困難)。事業の論理に従い、大勢の中国人はケニアに数年間しか滞在しない。従って、人の出入りは激しく、主にインフラに従事する企業で管理業務に携わる。ケニア政府と中国の実業界は、かつてないほど強固なつながりで結ばれている。その主な象徴の一つが全長466キロメートルの鉄道であり、首都のナイロビとインド洋沿岸の港町のモンバサの間を1日2往復するナイロビ-モンバサ間の標準軌鉄道(Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway)だ。この鉄道は36億ドル(約4038億円)の総工費を投じて作られ、2017年6月1日の第54回目のマダラカデー(1963年に英国から自治権を獲得したことを記念する祝日)に開業した。この鉄道はケニアが独立を果たして以来、同国にとって最大規模のインフラとなった。中国が投資を行い、(中華人民共和国交通運輸部の対外援助局から生じた)中国路橋工程有限責任公司が数年間にわたり延べ25,000人の中国人を雇用して建設した。そして、この鉄道は中国人によって運営されている。

現在、ケニアは中国に53億ドル(約5944億円)の借金がある。しかし、中国に借金をしているアフリカの国はケニアだけではない。実は、この10年の間に中国はアフリカ諸国への融資額で世界一となり、港、道路、橋、空港、鉄道といったインフラの整備が可能になった。それは、資本と巨大な労働力の移動であり、たとえ実質的に活動しているのが民間企業だとしても、民間企業が主体的に動いているとは考えにくい。中国政府の指示がなければ、葉っぱ一枚動かないはずである。しかし、中国政府がどれほどの影響力をアフリカにもち、どれほど発展を助けていようと、アフリカ人を猿と呼んでよいはずがない。

新植民地主義と差別

10月15日付けのニューヨーク・タイムズ紙でジョセフ・ゴールドスタイン(Joseph Goldstein)氏が指摘しているように、管理職に就く多くの中国人はケニア人の労働者を「猿」と呼んでいる。リチャード・オチエング(Richard Ochieng)さん(26歳)の事例は急速に多くの人が知るところとなった。ビクトリア湖近郊の村出身のオチエングさんは、ナイロビの外れにある急成長中の開拓地ルイルにある中国のバイク製造会社に勤務している。オチエングさんの上司であり、同じく26歳の柳佳奇(リュウ・ジアチイ)氏はケニアのウフル・ミガイ・ケニヤッタ(Uhuru Muigai Kenyatta)大統領を含む、ケニアの全ての国民を猿呼ばわりしていた。オチエングさんがケニア人は1963年に自由になったと伝えると、柳氏は猿でさえ自由だと繰り返した。当時、若いケニア人がスマートフォンでこの様子を録画していた。この動画は世界中に拡散され、この若い中国人実業家はすぐに国外追放となった。

しかし、ゴールドスタイン氏は「…この地域で増え続ける中国人の労働者による差別的な言動に関する出来事は、とりわけ彼らの政府は中国との関係強化を望む時期であったため、大勢のケニア人を動揺させた。」実は、「ケニアは同地域で大きくなり続ける中国の存在を受け入れており、大勢のケニア人は、国の未来を形づくってくれするものの、差別も持ち込む強大な外国人を、ケニアがうっかり受け入れてしまったのではないかと悩んでいる。これは同国にとって答えを出しがたい疑問であり、多くのケニア人、若い世代はとりわけ21世紀に直面するとは思っていなかった事態だけに苦しんでいる。」繰り返すが、これはケニアだけの問題ではない。なぜなら中国は「アフリカ全土で融資、インフラ整備を行ってきたからだ。このようなプロジェクトのコストを賄うため、多くのアフリカ諸国が中国の融資を受けるか、もしくは石油備蓄等の天然資源
を中国に依存してきた」と指摘している。

ゴールドスタイン氏によると、ナイロビでは「中国人の女性の管理職が、些細なミスでケニア人の女性の顔を叩いた場面を見たという証言もあれば、オフィスのトイレが中国人とケニア人で分かれていると明かしたケニア人もいた。しかし、別のケニア人の労働者曰く、トイレでタバコを吸うのは中国人だけであるにもかかわらず、小便器に詰まったタバコの吸い殻の除去を中国人の幹部職員がケニア人の従業者に命令していた」と言う。

有名なナイロビ-モンバサ間の鉄道に関して、ゴールドスタイン氏は「7月、ケニアの新聞紙「ザ・スタンダード」は中国の経営陣に従うケニア人の労働者の間に漂う「新植民地主義」の雰囲気を伝えていた。一部の労働者は屈辱的な処罰を受けていたという。また、ケニア人の運転士は記者がいない時には、運転を許されなかったようだ。ウフル・ケニヤッタ大統領が乗車した初日の運行では、2名の女性運転士が華々しく列車を運転していたため、この指摘が与えた衝撃は大きかった。ニューヨーク・タイムズ紙の取材で、数名の現役、および退職した機関車の運転士は、中国人しか列車を運転していない点を認め、また中国人による様々な差別的な言動を明らかにした。フレッド・ウンドゥビ(Fred Ndubi)さん(24歳)は中国人の上司に「制服を着ると、猿には見えないな」と言われたことを思い出していた。同じ職場の2人の従業員も同様の話をしていた」と報告している。

非人間化

国外の中国人のエリートによる差別は、テレビにも反映されている。ゴールドスタイン氏によると「2年前、中国の洗剤製造会社は、黒人を明るい肌のアジア人に変えることで、洗剤の有効性を実証するというテレビ・コマーシャルを流した。昨年、中国で人気のあるメッセージ送受信アプリのWeChatは、ソフトウェアが中国語「黒人の外国人」を、人種差別的な英語に翻訳していたとして謝罪した。そして、今年、8億人が視聴していたとされる旧正月の祭りを中継した番組で、顔を黒く塗った、男性が動物の着ぐるみを着用し、アフリカを中傷していた」という。

ケニアの当局は指をくわえて見ていただけではなかった。先月、ケニアの警察は中国の国営放送局のナイロビ本部を強制捜索し、一時的に数名の記者を拘束した。この強制捜索のタイミングは大勢の人々に衝撃を与えた。同じ週にケニヤッタ大統領が北京を訪問しており、ケニア政府内の人物が外交摩擦を起こしたかったのではないかという疑問が浮上したのだ。

この状況は擁護できないレベルに達しつつある。ゴールドスタイン氏も「これは奴隷と植民地化を正当化するための非人間化」だと確信している。ケニア人を猿呼ばわりする行為も全く同じだ。ケニアの運命を掌握するため、ある程度までケニア人を利用し、その後、角に追いやる。Bitter Winterの読者は中国政府、および、中国人の経営者による「非人間化」の言動の概念に残念ながら慣れ親しんでいるのではないだろうか。中国の政府と経営者にとって、邪教(Bitter Winterの読者の方々なら、これが単なる便利な表現に過ぎないことをご存知のはずだ)を信仰する者は、人として生きる資格すらなく、警察署、刑務所、「教育による改心」のための収容所でまるで獣のように扱われている。しかし、ついに邪教とされる団体に属する人々だけでなく、中国共産党政府が認可(および管理)する宗教団体を信仰する人々も対象になった。現在、中国共産党、そして、中国の影響力を拡大するために同政権が国外で事業を行うことを認めた者たちは、アフリカも占拠しつつある。さらに、以前Bitter Winterでも取り上げたように、フォーリン・ポリシー誌の記事によると、中国はその経済力を用いて、宗教弾圧に関するニュース配信を海外のメディアにさせないようにしている。中国の手が国外へと伸びている、当然アフリカにも接近している。

マルコ・レスピンティ(Marco Respinti)

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Bitter Winter: A magazine on religious liberty and human rights in China

(Japanese version), November 1, 2018

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악명높은 중국 박해의 또 다른 모습, 인종차별 ([Korean:] Adding Racism to China’s record of infamous abuses)

Pubblicato da Marco Respinti in 1 novembre 2018
Pubblicato in: articoli in coreano, articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: Africa, Africans, Beijing, black foreigner, British Empire, CCP, China, China Road and Bridge Corporation, China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa, Chinese Communist Party, communism, Day of Responsibility, de-humanization, dehumanization, discrimination, Foreign Aid Office of the Ministry of Communications of China, Foreign Policy, Fred Ndubi, home-rule, Howard W. French, Human Development Index, Human Development Office of the Development Programme of the United Nations Organization, human rights, Joseph Goldstein, Kenya, Kenyans, laundry detergent, Liu Jiaqi, Madaraka Day, Mombasa, Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway, monkey, monkeys, motorcycle company, Nairobi, Neocolonialism, racism, railway, re-education camps, regime, religious freedom, religious liberty, religious persecution, Richard Ochieng, Ruiru, television, television commercial, The New York Times, The Standard, totalitarianism, trains, tv, tv commercial, Uhuru Muigai Kenyatta, WeChat, xie jiao. Lascia un commento

케냐가 중국에 경제적으로 의존하고 있는 상황에서 중국인에게 케냐인은 원숭이에 불과하다. 인종별로 화장실이 분리돼 있으며 케냐인 여성 근로자는 사소한 실수에도 뺨을 맞는다.

이 글은 중국의 세계 영향력 확대를 위해 중국 공산당 정권 및 이들의 “민간” 시종이 벌이는 끔찍한 “인간성 말살” 사례를 소개한다.

 

2014년 하워드 W. 프렌치 전(前) 뉴욕타임스(The New York Times) 해외특파원(상해 지부를 오랫동안 이끌어왔으며 만다린어를 포함해 다개국어를 유창하게 구사함)은 현재 뉴욕 콜롬비아 저널리즘 대학원 교수로 자신의 저서 “중국의 두 번째 대륙: 백만 이주자의 아프리카 새 왕국 건설기(뉴욕: Knopf)”에서 아프리카를 중국의 “뒷마당”으로 묘사했다. 중국은 돈이 많으며 아프리카는 말 그대로 모든 것이 필요한 상황이다. 그렇다면 영향력 확대를 해볼 만한 시장은 어디일까? 케냐 사례 연구를 살펴보자.

1963년 독립 이후, 케냐에서는 224,000제곱 마일의 면적에 인구 약 5천만 명이 거주하고 있으며 공용어는 영어와 스와힐리어다. 47개 민족(반투족, 나일족이 가장 흔하지만 반투족이 나일족에 비해 두 배 이상 많음)으로 구성돼 있고, 대개 기독교인이며 이 중 대부분이 개신교이다. 무슬림이 다음으로 많고 극소수가 토착 종교를 믿고 있다. 소수민족의 경우 전체 아프리카에서 가장 큰 규모를 자랑하는 힌두교 공동체(무엇보다도 이민의 영향), 막강한 영향력을 행사하는 바하이(Bahá’í)교, 그리고 소규모 불교 단체 등에 등록한다. 빈곤율이 굉장히 높은 편이며 유엔개발계획(UNDP)이 매년 산출하는 인간개발지수(Human Development Index)에서 189개국 중 142위를 차지했다.

일련의 욕구

이러한 상황에서 약 4만 명으로 추산되는 중국인 거주자(정확한 통계는 산출하기 어려움)에 대해 고려해 볼 필요가 있다. 비즈니스 논리상 중국인 대다수가 케냐에 몇 년밖에 머물지 않는다. 이직률이 높고 대개 인프라 관여 회사의 관리직을 담당하고 있다. 사실 케냐 정부와 중국 기업은 그 어느 때보다 긴밀히 협력하고 있다. 그중에서도 특히 나이로비에서 인도양의 몸바사 항구까지 하루에 두 번 기차가 왕복하는 290여 마일 철로는 그러한 협력의 상징적인 결과물이 되고 있다. 몸바사-나이로비 구간의 표준궤철도(SGR)로 알려져 있으며 건설에 총 36억 달러가 소요됐고 2017년 6월 1일 케냐 자치정부 수립기념일(Madaraka day, 1963년 영국으로부터의 독립을 기념하는 날) 54주년에 개통했다. 케냐 독립 이래로 가장 중요한 인프라로 꼽힌다. 중국이 자금을 댔고 중국도로교량집단(China Road and Bridge Corporation, 중국 교통운수부의 해외원조실에서 분리됨)이 2만 5천 명의 중국인을 고용해 건설을 진행했으며 추후 수년간 중국인이 운영한다.

전반적으로 오늘날 케냐는 중국과 53억 달러 상당의 부채로 이어져 있고 아프리카에 케냐 외 다른 국가도 같은 처지다. 실제로 지난 10년간 중국은 항만, 도로, 교량, 공항 및 철도 건설 등을 통해 아프리카의 최대 채권국으로 부상했다. 자본과 엄청난 권력의 이동이 단순히 사기업의 계획이라고 보는 것은 터무니없다. 물론 실질적으로 행동하는 것은 사기업에 해당한다. 그러나 쥐도 새도 모르게 중국이라는 국가가 움직이고 있다. 물론 그렇다고 하여 이들이 아프리카인을 원숭이로 부를 명분은 어디에도 없다.

신식민주의 및 차별

조셉 골드스타인(Joseph Goldstein)이 10월 15일 자 뉴욕타임스에서 이야기했듯이, 실제로 많은 중국인 관리자들이 케냐인 근로자를 “원숭이들”이라고 부른다. 리처드 오치엥(Richard Ochieng)의 사례는 큰 반향을 일으켰다. 리차드(26)는 빅토리아호 인근 마을 출신의 26세 젊은이로, 나이로비 변두리의 급성장 지역인 루이루(Ruiru)의 한 중국 오토바이 회사에서 근무하고 있다. 오치엥과 같은 나이인 사장 류 자치(Liu Jiaqi, 26세)는 모든 케냐인은 케냐 대통령 우후루 무이가이 케냐타(Uhuru Muigai Kenyatta)를 포함해 모두가 원숭이라고 말했다. 오치엥이 케냐가 1963년 이후 자유 국가가 됐다고 대답하자 류 씨는 이제 원숭이들도 자유롭다고 되받아쳤다. 오치앵이 휴대폰으로 찍은 해당 영상은 전 세계로 퍼져나갔고 류씨는 그 즉시 추방됐다.

이에 골드스타인은 “[…] 많은 케냐인들이 중국인 노동인구 노동 증가로 촉발되는 차별 행위 사건에 불안해 하고 있으며 케냐가 중국과 더욱 긴밀한 관계를 형성하고자 노력하고 있기에 더욱 그렇다>>. 실제로 <<케냐가 중국의 영향력 확장을 수용하면서 많은 케냐인들은 국가의 미래를 결정짓고 인종차별적 태도를 보이는 이 강력한 외국인들을 부지불식간에 환대한 것이 아닌지에 대해 의문을 품고 있다. 이는 굉장히 가슴 쓰라린 질문인 동시에 특히 케냐의 젊은 세대들이 21세기에 마주하리라고는 생각지도 못했던 문제이다.” 그리고 이는 케냐만이 겪고 있는 문제가 아니다. 중국은 “[…] 엄청난 규모로 아프리카 전역에 돈을 빌려주고 기초시설을 건설하고 있다. 여러 프로젝트의 대금을 지불하기 위해 많은 아프리카 나라들이 중국에 돈을 빌리거나 유전과 같은 천연자원에 기대고 있다”고 전했다.

골드스타인에 따르면, 나이로비에서 “어떤 이는 중국인 관리자가 사소한 실수를 이유로 케냐인 여성 직원의 뺨을 때린 것을 봤다고 진술”했고, 다른 케냐인 근로자들은 “[…] 자신의 회사에서 중국인 직원과 케냐인 직원이 별도의 화장실을 사용한다고 설명했다. 심지어 한 케냐인 근로자는 중국인 관리자가 케냐인 직원에게 소변기에서 담배꽁초를 치우도록 시켰다며 그 화장실에서는 오로지 중국인 직원만 담배를 피운다고 전했다.”

유명한 몸바사-나이로비 철도에 대해 골드스타인은 “[…]7월, 케냐 일간지인 스탠다드(The Standard)는 중국인 관리 밑에서 일하고 있는 케냐인 철도 직원의 상황이 흡사 ‘신식민주의’와 같다고 묘사하는 보도를 발행했다. 일부는 모욕적인 대접을 받고 있다며 언론 취재가 나오는 경우를 제외하고 케냐인 기관사는 기차를 운행할 수 없다. 이는 특히 논란이 될 만한 주장인데 기차 최초 운행 때 우후루 케냐타 대통령이 동승해 두 명의 케냐인 여성이 직접 운전하는 모습을 대대적으로 광고했기 때문이다. 뉴욕타임즈는 현, 전직 기차 운전수와의 인터뷰에서 오직 중국인 기관사만 기차를 운행할 수 있었고 다양한 인종차별 대우가 횡행한 사실을 접했다. 프레드 느두비(Fred Ndubi, 24세)는 자신의 중국인 상사가 ‘유니폼을 입으니 더이상 원숭이 같지 않다’고 말했다고 전했다. 심지어 함께 있었던 다른 두 직원도 같은 말을 했다.”

인간성 말살

해외에 거주하는 중국인 엘리트의 인종차별은 심지어 TV에서도 찾아 볼 수 있다. 골드스타인에 따르면 “2년 전, 한 중국 회사의 세탁용 세제 광고에는 검은 피부의 사람을 하얀 피부의 아시아인으로 체인지하는 효과로 세제의 초강력 효과를 홍보했다. 작년, 중국의 인기 메신저 앱인 위챗은 자사 소프트웨어가 ‘외국 흑인’이라는 중국어 단어를 인종차별적인 영어 표현으로 번역한 사실에 대해 사과하기도 했다. 올해, 약 8억 명이 시청한 중국의 음력 설 기념 TV 프로그램에서 아프리카인의 캐리커처를 검은 얼굴의 동물 옷을 입은 남성으로 묘사하기도 했다.”

케냐 당국이 가만히 앉아서 두고 본 것은 아니다. “지난달, 케냐 경찰은 중국 국영방송 채널의 나이로비 본부를 습격하여 기자 여러 명을 단기 구류했다. 많은 이들이 사건이 일어난 시점을 두고 의아해했던 것은 같은 주에 케냐타 대통령이 북경을 방문했기 때문이다. 케냐 정부의 내부자가 중국과의 외교 갈등을 야기하기 위해 일부러 이런 일을 벌였다는 의심이 나오는 이유다.

상황은 점점 받아들이기 힘든 수준으로 치닫고 있으며 골드스타인은 “[…] 이것이 곧 노예제도와 식민지를 정당화하기 위해 사용됐던 인간성 말살이라는 사실”을 믿어 의심치 않는다. 케냐인을 원숭이로 비하하는 것은 곧 이들을 이용하고 구석으로 몰아 국가의 방향을 좌우하려는 의도를 보여준다. 현재, 비터 윈터의 독자들은 슬프게도 중국 당국 및 관리자들이 행하는 “인간성 말살” 개념이 익숙할 것이다. 이들에게 사교(우리 독자들은 또한 사교가 편의상 사용하기 좋은 표현에 불과하다는 사실을 알고 있다)에 속하는 자들은 인간다운 대우를 받을 권리가 없으며 경찰, 교도소, 재교육수용소 등에서 짐승만도 못한 취급을 받는다. 그러나 이런 상황이 종국에는 이른바 사교에 속한 자뿐만 아니라 공산당 정부가 승인(및 통제)하는 종교를 믿는 사람에게까지 적용되고 있다. 현재 중국 공산당(CCP)과 공산당이 영향력 확장을 위해 해외에서 사업할 수 있도록 허가한 모든 사람들의 인간성 말살 행위는 아프리카를 뒤덮고 있다. 게다가 비터 윈터가 이미 포린 폴리시(Foreign Policy)의 기사에 기반하여 보도했듯이 중국은 자신의 경제력을 이용해 해외 언론이 종교 박해 뉴스를 보도하지 못하도록 막고 있다. 요컨대 중국은 분명 해외에 더욱 침투하고 있고 아프리카도 예외가 아니다.

마르코 레스핀티(Marco Respinti)

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臭名昭著的中國流弊再添一筆:種族歧視 ([Chinese:] Adding Racism to China’s record of infamous abuses)

Pubblicato da Marco Respinti in 1 novembre 2018
Pubblicato in: articoli in cinese, articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: Africa, Africans, Beijing, black foreigner, British Empire, CCP, China, China Road and Bridge Corporation, China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa, Chinese Communist Party, communism, Day of Responsibility, de-humanization, dehumanization, discrimination, Foreign Aid Office of the Ministry of Communications of China, Foreign Policy, Fred Ndubi, home-rule, Howard W. French, Human Development Index, Human Development Office of the Development Programme of the United Nations Organization, human rights, Joseph Goldstein, Kenya, Kenyans, laundry detergent, Liu Jiaqi, Madaraka Day, Mombasa, Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway, monkey, monkeys, motorcycle company, Nairobi, Neocolonialism, racism, railway, re-education camps, regime, religious freedom, religious liberty, religious persecution, Richard Ochieng, Ruiru, television, television commercial, The New York Times, The Standard, totalitarianism, trains, tv, tv commercial, Uhuru Muigai Kenyatta, WeChat, xie jiao. Lascia un commento

肯尼亞在經濟上依賴於中國,但是在中國人眼中肯尼亞人只是猴子,這兩個種族分開使用不同的衛生間,肯尼亞女工因小失誤而遭掌摑。這是與中共政權密切相關的又一個突出的「非人化」事例,也是中國當局在擴大其全球影響力過程中的「祕密」衍生物。

 

傅好文(Howard W. French)是前《紐約時報》駐外記者,曾長期擔任紐約時報上海分社社長,通曉多種語言並能說一口流利的普通話,現任紐約哥倫比亞大學新聞學研究生院教授。2014年,他在《中國的第二大陸:百萬移民如何在非洲建立新帝國》(紐約克諾夫出版社)裡記錄了這一亞洲大國在「黑色大陸」的擴張,並稱非洲是中國的「後院」。中國人有錢,有很多錢,而非洲可謂什麼都缺。那麼,哪個市場更值得擴張?以下是肯尼亞的個案研究。

肯尼亞獨立於1963年,佔地面積略多於224,000平方英里,總人口約為5000萬,官方語言為英語和斯瓦西里語。肯尼亞共有47個已知民族,其中班圖人和尼羅人分布最廣,但前者的規模是後者的兩倍多。肯尼亞人大多數是基督徒,其中新教徒佔絕大多數;其次是穆斯林,另有少數人信奉原始宗教。在眾多少數團體中,人們還必須注意到一個全非洲最大的印度教徒社區(主要因移民原因形成),還有一個是受巴哈伊信仰影響最大的團體,以及一個規模較小的佛教團體。肯尼亞的貧困率非常高,聯合國開發計劃署的人類發展報告辦公室每年發布的人類發展指數顯示,肯尼亞在189個國家中排名第142位。

 

慾望火車

關於這張圖片,人們肯定會想到在肯尼亞大約有40,000名中國人(即使統計數據很難收集)。按照商業常理,許多中國人僅僅在肯尼亞待幾年,因此他們的員工更替率很高,而且他們基本上都在基礎設施建設公司擔任管理職務。事實上,肯尼亞政府與中國企業之間的夥伴關係比以往任何時候都穩固。其主要標誌之一是290多英里長的鐵路:蒙巴薩-內羅畢標準軌鐵路,在那裡火車每天往返兩次穿梭於首都城市內羅畢和印度洋海岸蒙巴薩港之間。該鐵路耗資36億美元,是該國自獨立以來最重要的基礎設施,於2017年6月1日投入使用,即第54屆馬達拉卡日(責任日),1963年的這一天,肯尼亞從大英帝國成立自治政府。該鐵路由中國資助,由中國路橋工程有限責任公司(前身為中國交通部援外辦公室)僱用25,000名中國人歷時幾年建造而成,並將由中國運營。

總體而言,今天的肯尼亞因53億美元的債務與北京緊緊相連,但在非洲,此類事件不一而足。事實上,在過去的十幾年,中國已成為非洲國家最大的債權國,幫助他們建設港口、公路、橋梁、機場和鐵路。雖然在非洲領土上主要是私營公司在奔波,但是如果將這種資本和巨大影響力的流動認為僅僅是私營公司的新措施,這樣的想法是荒謬的,因為北京的意願在此起決定性作用。即便如此,但在所有的投資計劃中絕不存在稱非洲人為猴子等這樣的特權。

 

新殖民主義和歧視

正如約瑟夫·戈德斯坦(Joseph Goldstein)10月15日在《紐約時報》上所記載的那樣,事實上,許多中國經理稱他們的肯尼亞工人為「猴子」。理查德·奧欽(Richard Ochieng)的事例在網絡上瘋傳。奧欽今年26歲,來自維多利亞湖附近的一個村莊,在內羅畢邊緣快速發展的鄉鎮魯伊魯的一家中國摩托車公司工作。他的老闆柳佳奇同樣26歲,他稱所有肯尼亞人都是猴子,包括肯尼亞共和國總統烏胡魯·肯雅塔(Uhuru Muigai Kenyatta)。當奧欽回答說自1963年以來肯尼亞人就獲得自由時,柳佳奇卻重申猴子也是自由的。這位年輕的非洲人用智能手機錄下的這段視頻傳遍了全球,這位年輕的亞洲人立即被遣返回國。

但是,戈德斯坦說:「該地區不斷增加的中國勞動力所帶來的歧視性行為讓許多肯尼亞人感到不安,尤其是在他們的政府尋求與中國建立更緊密聯繫的時候。」事實上,「隨著肯尼亞積極接受中國在該地區不斷擴大的影響力,許多肯尼亞人懷疑這個國家是否在不知不覺中迎接強大的外國人大量湧入,這些人正在塑造本國的未來——同時也帶來了種族主義態度。對於這個國家來說,這是一個痛苦的問題,許多肯尼亞人,尤其是年輕的肯尼亞人,並沒有預料到在21世紀還會面臨這個問題。」但是正如之前所說,肯尼亞的例子並非個案,因為中國「在非洲各地大規模放貸、進行基礎設施建設。為了支付這些項目所需的資金,許多非洲國家向中國借款,或是依賴於例如石油貯藏這樣的自然資源」。

據戈德斯坦說,在內羅畢,「一人描述說她看到一名同為女性的中國經理因為一個小失誤,搧了她肯尼亞同事耳光。其他肯尼亞工人解釋了他們辦公室的衛生間是如何以種族進行區分的:一個是中國員工專用,其他則是給肯尼亞人使用的。另一名肯尼亞工人描述一個中國經理指示肯尼亞員工去疏通被煙蒂堵塞的小便池,儘管只有中國員工敢在裡面吸煙。」

關於著名的內羅畢-蒙巴薩鐵路,戈德斯坦提到:「七月,肯尼亞報紙《旗幟報》刊登了一份報告,對中國管理下肯尼亞鐵路工人所處的『新殖民主義』氛圍作出描述。報告說,一些人遭受了侮辱性懲罰,並且除了記者在場的時候,他們不讓肯尼亞工程師開火車。這是一個尤其爆炸性的說法,因為在該列車的首次通車時,兩名肯尼亞女性開車的新聞獲得了不少報道,當時該國總統烏胡魯·肯雅塔(Uhuru Kenyatta)也在車上。在接受《紐約時報》採訪時,幾名現任及前任火車司機確認了只有中國人能操作火車的說法,對一系列帶有種族主義的行為進行了描述。『穿上制服,你看上去就不像猴子了,』24歲的弗雷德·努比(Fred Ndubi)記得他的中國主管這麼說。和他一起的兩名工人也給出了同樣的說法。」

 

非人化

中國海外精英的種族主義甚至出現在電視上。戈德斯坦解釋道:「兩年前,中國一家洗衣液公司播出的一則廣告中將一個黑人洗成白皙的亞洲人,以此來展示洗衣液的強效。去年,中國受歡迎的通信軟件微信為其將『外國黑人』翻譯為英語中的帶種族污衊的單詞而道歉。今年,約8億觀眾觀看的中國春節晚會電視節目中有塗黑臉和扮動物諷刺非洲人的節目。」

肯尼亞當局也沒有坐視不管,例如:「上個月,肯尼亞警察突擊搜查了中國一個官方電視頻道在內羅畢的總部,幾名記者一度遭到拘留。該行動的時機讓很多人覺得很是奇怪:同一週,肯雅塔總統在北京,這引發了肯尼亞政府內部是否有人想造成外交糾紛的疑問。」

情況漸趨竭澤而漁,戈德斯坦堅信這種「非人化的形容曾被用來作為奴隸制和殖民的正當理由」,把肯尼亞人貶稱為猴子正意味著:眼前利用他們,隨後便棄之如敝履,以便在該國呼風喚雨。如今不幸的是,對《寒冬》讀者而言,中國當局及其領導人所實施的「非人化」概念已屢見不鮮:在中國當局及領導人眼中,屬於「邪教」的人甚至是沒有身為人的權利(而我們的讀者都知道「邪教」只是一種方便有效的措辭),在警察局、監獄和再教育營中他們被當作動物對待;然而,最終遭到如此對待的已不僅限於所謂「邪教」團體的成員,而是擴大到所有信奉宗教的人,甚至包括那些經中共政府授權(並由它控制)的宗教。但是現在中共及其為擴大自身影響力而准許在國外開展業務的中國人的非人化行為也在逐漸侵佔非洲。此外,正如《寒冬》曾報道過,《外交政策》上的一篇文章稱,中國正在利用其經濟實力阻止外國媒體報道宗教迫害的相關新聞。中國的黑手逼近海外,當然非洲也不可避免。

馬可·萊斯賓蒂 (Marco Respinti)

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(Chinese version), November 1, 2018

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Adding Racism to China’s record of infamous abuses

Pubblicato da Marco Respinti in 1 novembre 2018
Pubblicato in: articoli in inglese, articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: Africa, Africans, Beijing, black foreigner, British Empire, CCP, China, China Road and Bridge Corporation, China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa, Chinese Communist Party, communism, Day of Responsibility, de-humanization, dehumanization, discrimination, Foreign Aid Office of the Ministry of Communications of China, Foreign Policy, Fred Ndubi, home-rule, Howard W. French, Human Development Index, Human Development Office of the Development Programme of the United Nations Organization, human rights, Joseph Goldstein, Kenya, Kenyans, laundry detergent, Liu Jiaqi, Madaraka Day, Mombasa, Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway, monkey, monkeys, motorcycle company, Nairobi, Neocolonialism, racism, railway, re-education camps, regime, religious freedom, religious liberty, religious persecution, Richard Ochieng, Ruiru, television, television commercial, The New York Times, The Standard, totalitarianism, trains, tv, tv commercial, Uhuru Muigai Kenyatta, WeChat, xie jiao. Lascia un commento

Kenya depends economically on China, but for the Chinese Kenyans are just monkeys, there are separate baths for each race and Kenyan female workers are slapped in their face for minimal errors. Another striking example of the “dehumanization” dear to the Chinese communist regime and its “private” acolytes to expand Beijing’s influence in the world.

In 2014, Howard W. French, former foreign correspondent for The New York Times (whose Shanghai office he has directed for long time, fluently speaking several languages ​​including Mandarin) and now a professor at Columbia University Graduate School of Journalism in New York, described Africa as China’s “backyard”, documenting the expansion of the Asian giant in the Black Continent in the book China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building in New Empire in Africa (New York: Knopf). The Chinese have money, a lot of, and Africa literally needs everything. Which better market, therefore, for expanding? A case study is Kenya.

Independent since 1963, its little more than 224,000 square miles of surface are inhabited by an estimated 50 million people who officially speak English and Swahili. Divided into 47 acknowledged ethnic groups (Bantu and Nilotic are the most widespread, but in size the former group more than doubles the latter), Kenyans are mostly Christian and predominantly Protestant. Muslims follow, while indigenous worships are practiced by a small minority. Among minorities, one must register also one the largest hindu community of the whole Africa (above all effect of immigration), one of the most significant presences of the Bahá’í faith and also a small Buddhist group. The poverty rate is very high and in the Human Development Index, published annually by the Human Development Office of the Development Programme of the United Nations Organization, the African country is at 142nd place out of 189.

 

The train of desires

Il treno della Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway

To this picture one must add an evaluated Chinese presence (even if the statistics are quite difficult to compile) of about 40,000 people. Following business logic, many Chinese remain in Kenya only a few years: the rate of their turnover is therefore high and for the most part they hold managerial roles in companies mainly engaged in infrastructures. The partnership between the Kenyan government and Chinese entrepreneurship is in fact more solid today than ever. One of its major symbols is the more than 290 miles of railway tracks of the route traveled round-trip twice a day by the trains that shuttle between the capital-city Nairobi and the port of Mombasa on the Indian Ocean: the Mombasa-Nairobi Standard Gauge Railway, costing US$ 3.6 billion, inaugurated on June 1, 2017 – 54th Madaraka Day (Day of Responsibility), i.e. the anniversary of Kenyan home-rule from the British Empire in 1963 ‒ and the foremost infrastructure of the country since its independence. The Chinese have funded it, the China Road and Bridge Corporation (grown out of the Foreign Aid Office of the Ministry of Communications of China) has built it employing 25,000 Chinese and, for several years, it will be operated by the Chinese.

On the whole, today’s Kenya is linked to Beijing by US$ 5.3 billion of debts, but in Africa it is by no means an isolated case. In fact, over the last decade, China has become the largest lender of money to African countries, allowing the construction of ports, roads, bridges, airports and railways. It is a movement of capital and enormous powers that it is ludicrous to imagine to be only the initiative of private companies even if often, on African territory, private companies are those which materially act. Not a leaf stirs but Beijing wills it. Yet in the package there has never been any sine cura for calling Africans names like monkeys.

 

Neocolonialism and discrimination

Liu Jaiqi

As Joseph Goldstein documents in The New York Times edition for October 15th, many Chinese managers in fact call their Kenyan workers “monkeys.” The case of Richard Ochieng went viral. A 26-year-old guy from a village near Lake Victoria, Ochieng works in Ruiru, a fast-growing settlement at the edge of Nairobi, for a Chinese motorcycle company. His boss, aged 26 alike, Liu Jiaqi, claims that all Kenyans are monkeys, including the president of the republic, Uhuru Muigai Kenyatta. When Ochieng replies that the Kenyans are free since 1963, Liu Jiaq reiterates that even monkeys are free. The video recorded by the young African with his smartphone has toured the world and the young Asian was immediately repatriated.

But, Goldstein says, “[…] episodes involving discriminatory behavior by the region’s growing Chinese work force have unsettled many Kenyans, particularly at a time when their government seeks closer ties with China”. In fact, “[a]s the country embraces China’s expanding presence in the region, many Kenyans wonder whether the nation has unwittingly welcomed an influx of powerful foreigners who are shaping the country’s future ‒while also bringing racist attitudes with them. It is a wrenching question for the nation, and one that many Kenyans, especially younger ones, did not expect to be confronting in the 21st century.” And again, it is not just the case of Kenya since China “[…] has lent money and erected infrastructure on a sweeping scale across Africa. To pay for such projects, many African nations have borrowed from China or relied on natural resources like oil reserves.”

According to Goldstein, in Nairobi “[o]ne described watching a Chinese manager slap her Kenyan colleague, who was also a woman, for a minor mistake.” Other Kenyan workers “[…] explained how their office bathrooms were separated by race: one for Chinese employees, the other for Kenyans. Yet another Kenyan worker described how a Chinese manager directed his Kenyan employees to unclog a urinal of cigarette butts, even though only Chinese employees dared smoke inside.”

As to the famous Nairobi-Mombasa railway, Godlstein informs, “[…]in July, The Standard, a Kenyan newspaper, published a report describing an atmosphere of ‘neocolonialism’ for Kenyan railway workers under Chinese management. Some have been subjected to demeaning punishment, it said, while Kenyan engineers have been prevented from driving the train, except when journalists are present. It was a particularly explosive claim because during the train’s maiden voyage, with President Uhuru Kenyatta on board, two Kenyan women drove the train to much fanfare. In interviews with The New York Times, several current and former locomotive drivers agreed that only Chinese drivers got to operate the train, describing a range of racist behavior. ‘With uniforms on, you won’t look like monkeys anymore,’ Fred Ndubi, 24, recalled his Chinese supervisors saying. Two other workers with him offered the same account.”

 

Dehumanization

The racism of the Chinese elites abroad has even ended up on television. “Two years ago,” Goldstein explains, “a laundry detergent company in China ran a television commercial in which the detergent’s effectiveness was demonstrated by transforming a black man into a light-skinned Asian man. Last year, WeChat, the country’s popular messaging app, apologized after its software was found to translate the Chinese words for ‘black foreigner’ into a racial slur in English. This year, China’s televised Lunar New Year gala, estimated to reach 800 million viewers, included caricatures of Africans, with blackface and men in animal suits.”

Nor did the Kenyan authorities simply stayed and watched, as “[l]ast month, the Kenyan police raided the Nairobi headquarters of a Chinese state-run television channel, briefly detaining several journalists. The timing struck many as curious: It was the same week that President Kenyatta was in Beijing, raising the question of whether someone inside the Kenyan government wanted to create a diplomatic row.”

The situation is becoming increasingly unsustainable and Goldstein has no doubts: it is “[…] dehumanization used to justify slavery and colonization.” Degrading Kenyans to monkeys means exactly this: using them to the point and then relegating them to a corner in order to make good and bad weather in the country. Now, readers of Bitter Winter are unfortunately accustomed to the concept of “dehumanization” practiced by Chinese authorities and managers: for them those who belongs to a xie jiao (and our readers know that xie jiao is just an expression of instrumental convenience) has no right even to humanity and are treated like beasts in police stations, prisons, and re-education camps; in the end, however, not only those who belong to an alleged xie jiao, but whoever professes a religion, including those authorized (and controlled) by the communist government. But now the dehumanization practiced by the Chinese Communist Party (CCP) and by those to whom the CCP allows to do business abroad in order to extend its influence is also occupying Africa. Moreover, as Bitter Winter has already reported, based on a Foreign Policy article, China is using its economic power to prevent foreign media from publishing news about religious persecution. China’s hands are far reaching abroad ‒ certainly to Africa. China is in short nearer ‒certainly to Africa.

Marco Respinti

Published, under the same title,
in
Bitter Winter: A magazine on religious liberty and human rights in China

(English version), November 1, 2018

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Cina, lo scisma viene da sinistra?

Pubblicato da Marco Respinti in 30 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, TUTTO. Tag: accordo, APCC, appeasement, AsiaNews, Associazione buddista cinese, Associazione islamica cinese, Associazione patriottica cattolica cinese, Associazione taoista, Bernardo Cervellera, Chiesa Cattolica cinese, Chiesa clandestina, Chiesa ufficiale, Cina, comunismo, diritti umani, Fronte Unito, Gansu, Giuseppe Han Zhihai, Lanzhou, libertà religiosa, ministero degli Esteri, Movimento patriottico protestante cinese delle Tre Autonomie, neo-post-comunismo, Normativa sugli affari religiosi, PIME, Pontificio Istituto Missioni Estere, regime, riconocismento, Santa Sede, scisma, socialcomunismo, Stato del Vaticano, totalitarismo, vecovi, Wang Yi, Xi Jinping, Yan Daming. Lascia un commento

Sulla scia del riconoscimento, il 22 settembre, da parte del Vaticano, di sette vescovi validi per Roma ma ordinati illecitamente da Pechino, un nuovo terremoto scuote la Chiesa Cattolica cinese. Uno scisma, da sinistra. Ne riferisce padre Bernardo Cervellera, il massimo esperto cattolico di questioni cinesi, direttore di AsiaNews, l’agenza stampa del Pontificio Istituto Missioni Estere.

Mons. Giuseppe Han Zhihai, vescovo della diocesi di Lanzhou, nella provincia nordoccidentale del Gansu, è diventato presidente del ramo locale dell’Associazione patriottica cattolica cinese (APCC), lo scisma creato dal regime nel 1957 per separare i fedeli da Roma e controllarli, analogamente a quanto fatto per le altre religioni con il Movimento patriottico protestante cinese delle Tre Autonomie, l’Associazione buddista cinese, l’Associazione islamica cinese e l’Associazione taoista. All’APCC, la “Chiesa ufficiale”, si è dunque sempre contrapposta la “Chiesa clandestina” fedele al Papa, angariata e martirizzata, e la sua esistenza ha costituito per decenni il bandolo della matassa nei rapporti fra Cina e Vaticano. Da un lato, infatti, vi è sempre stata la volontà del Vaticano di ricomporre lo scisma senza però rinunciare alle proprie prerogative, per esempio quanto alla nomina dei vescovi, e dall’altro vi è sempre stata la volontà di non sacrificare i cattolici fedeli sull’altare di un appeasement che, come tutti gli appeasement, finisce solo per fare il gioco dei carnefici. E proprio la questione dell’APCC è tornata prepotentemente alla ribalta in occasione del riconoscimento vaticano dei sette vescovi illeciti. Oggi, infatti, la Chiesa Cattolica cinese ha un solo vescovo per ogni propria diocesi. Quindi i fedeli sono riuniti nella fedeltà a Roma anche sul pianto giuridico, benché questo non implichi automaticamente la soluzione definitiva di ogni controversia. Ma per molti tale traguardo, storico dal punto di vista pastorale (con tutto ciò che implica l’avere per la prima volta, dagli anni 1950, una Chiesa Cattolica unita in Cina), rischia di preludere a una fusione tra cattolici scismatici e cattolici fedeli a Roma che non può che essere il segno dell’acquiesce al regime. Le voci contrarie al riconoscimento dei sette vescovi si sono infatti levate alte, e ovviamente sono venute dai settori più conservatori della Chiesa, con qualcuno che ha cominciato a sentire odore di scisma. Ma lo strappo sta invece avvenendo sul fronte opposto.

Per la nomina di mons. Han Zhihai al vertice dell’APCC locale, svoltasi durante l’incontro dei rappresentanti dell’APCC a Lanzhou, il 29 e 30 settembre, Yan Daming, del dipartimento del Fronte Unito, ha infatti ribadito che la Chiesa di Lanzhou «deve aderire ai princìpi di indipendenza e di autonomia», «amare la patria e (in secondo luogo) amare la Chiesa», «accettare consapevolmente la guida del Partito comunista cinese» e «svolgere le attività religiose secondo la legge». Insomma, che la questione è tale e quale a prima, con un vescovo valido e legittimo che torna indietro, allineandosi al regime. La situazione, insomma, è ben lungi dall’essere risanata, ma la frattura non proviene da chi penserebbe di abbandonare Roma per denunciarne la presunta acquiescenza al regime, bensì da chi preferisce il regime onde sconfessare un possibile accordo futuro che favorirà soltanto Roma. Infatti, fino a sviluppi ulteriori che per ora non si vedono e quindi non ci sono, questione dei vescovi a parte (perché è un’altra questione), l’APCC è e resta una realtà scismatica. Finché esisterà un’APCC che manterrà una qualsiasi forma di autonomia rispetto a Roma, lo scisma non sarà per nulla sanato. E se mons. Han Zhihai viene eletto capo di un ramo locale dell’APCC mentre un emissario del governo sottolinea ancora e sempre l’autonomia dell’APCC da Roma, lo scisma rimane e il vescovo in questione non sta dalla parte dell’unica Chiesa Cattolica possibile ed esistente.

Questo fatto, grave, conferma quanto a metà settembre aveva puntualmente osservato sempre padre Cervellera, ovvero che l’opposizione a un eventuale accordo futuro tra Cina e Vaticano viene anzitutto dall’interno del Politburo comunista. Se da un lato vi è, favorevole all’accordo, il ministero degli Esteri, Wang Yi, all’opera per migliorare l’immagine della Cina a fronte del diffondersi di notizie sulla persecuzione religiosa brutale e sulla violazione sistematica dei diritti umani di cui è responsabile Pechino, dall’altro, contrario, vi sono il Fronte Unito (cioè uno dei partiti cinesi autorizzati, una vera foglia di fico del regime), l’Amministrazione statale per gli affari religiosi (che prima o poi verrà cancellata dalla riforma varata a febbraio dalla nuova Normativa sugli affari religiosi, causa dell’inasprirsi della persecuzione, persino contro le fedi autorizzate) e proprio la stessa APCC. Infatti, spiega Cervellera, «per essi qualunque spazio dato ai rapporti col Vaticano rappresenta una riduzione del loro potere assoluto». Che a benedire solennemente il dietrofront di mons. Han Zhihai sia proprio responsabile del Fonte Unito conferma l’analisi. E dimostra che la minaccia alla Chiesa Cattolica viene proprio da sinistra.

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
Cina, la Chiesa fedele al Partito si oppone all’accordo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 30-10-2018

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LifeSiteNews vince contro la censura di Twitter

Pubblicato da Marco Respinti in 26 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, TUTTO. Tag: aborto, AIDS and Behavior, antiabortismo, Bill Cosby, bisex, Cambridge Analytica Silicon Valley, censura, Centers for Disease Control and Prevention, Coalition on Abortion/Breast Cancer, comunicazione commerciale, democrazia, dispotismo, Donald J. Trump, Facebook, gay, gender, Gerard M. Nadal, gonorrea, hate crime, HIV, Internet, lesbiche, LGBT, libertà, LifeSiteNews, Louis Farrakhan, Mark Zuckerberg, Million Man March, mondo libero, Nation of Islam, omosessualismo, omosessualità, PayPal, Peter Thiel, princìpi non negoziabili, pro-family, pro-life, Seth C. Kalichman, sifilide, social media, social medium comunicazione politica, social network, Ted Cruz, tirannia, totalitarismo, trans, transgenderismo, Twitter. Lascia un commento

Il 18 ottobre la “democrazia” dei social media ha bloccato LifeSiteNews, uno dei siti statunitensi storici della battaglia in difesa dei princìpi non negoziabili, per avere pubblicato, quattro anni fa, un articolo in cui uno specialista medico, citando statistiche del tutto laiche e vari studi scientifici, metteva l’accento sulla recrudescenza delle malattie che si trasmettono per via sessuale (ovviamente perché la sola idea cozza contro la retorica dell’“amore libero” e quindi dell’omosessualità, come se gli aumenti sul pallottoliere dei ricoverati fosse una questione di destra o di sinistra), ma, nel giro di 24 ore, il 19 ottobre, LifeSiteNews ha vinto. Twitter ha infatti compiuto un pesante passo indietro riaprendo l’account dopo avere ricevuto le lamentele di 7500 persone in calce a una petizione e avere rimediato una figuraccia pessima su tutto il web.

«Abbiamo ripristinato il vostro account», ha detto il colosso della rete con la coda fra le gambe, «e ci scusiamo per gli eventuali disagi causati. Twitter prende molto sul serio le segnalazioni di violazioni delle proprie Regole. Ma, dopo aver esaminato il vostro account, sembra proprio che ci siamo sbagliati». Con grande serenità, infatti, LifeSiteNews aveva spiegato a Twitter che l’articolo incriminato non faceva altro che fare informazione, ripetendo dati peraltro già disponibili online.

Ora, citando una fonte al di sopra di ogni sospetto qual è il ricco imprenditore Peter Thiel, omosessuale dichiarato, da queste colonne abbiamo parlato senza mezzi termini di «totalitarismo». Non abbiamo cambiato idea, soprattutto nell’apprendere, sempre da LifeSiteNews, che qualche giorno prima Twitter si era rifiutato di cancellare un video diffuso da Louis Farrakhan, il leader di Nation of Islam tanto fanatico quanto antisemita e famoso per avere organizzato, nel 1995, la “Million Man March” dell’“orgoglio afroamericano” (fra i sostenitori c’era anche l’attore Bill Cosby, in settembre condannato per stupro a una pena fra i tre e i dieci anni di carcere), video in cui Farrakhan definisce gli ebrei «termiti». Però prendiamo atto che, una volta tanto, Golia si è fermato, ha ammesso di avere preso un granchio enorme e ha chiesto scusa. Qualche legittimo dubbio sul fatto che Twitter lo abbia fatto volentieri resta, soprattutto perché l’impressione è che Twitter abbia cercato di fare, come sempre fa certa gente, il debole con i forti (Farrakhan) e il forte con i deboli (LifeSite Newsw), però stavolta pare avere fatto male i conti. Alla democrazia malata e totalitaria del pensiero unico è infatti ancora capace di opporsi una democrazia alternativa che sfrutta proprio le armi che i Golia come Twitter hanno contribuire a creare, il fatidico Internet. Agli apprendisti stregoni è insomma sfuggito di mano lo spirito che hanno evocato, e la “piazza virtuale” ha avuto la sua soddisfazione. Nel deserto dei tartari è una notizia quantomeno confortante.

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 26-10-2018

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Trump torna all’ovvio: ripristina maschio e femmina

Pubblicato da Marco Respinti in 24 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, conservatorismo (USA), I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, TUTTO. Tag: agender, androgino, Barack Obama, bisex, brotherboy, crossdresser, Donald J. Trump, gay, gender, genere, intergender, intersex, lesbiche, LGBT, omosessualismo, omosessualità, Peter Thiel, sistergirl, Stati Uniti d’America, The New York Times, totalitarismo, trans, transgender. Lascia un commento

Nel mondo alla rovescia in cui viviamo le persone normali vengono considerate alieni, e quando proferiscono affermazioni normali, gli alieni si stracciano le vesti.

Un caso di specie è quello del presidente Donald J. Trump, notoriamente il bersaglio preferito di ogni e qualsiasi critica benpensate, ma in questo momento ancora più nell’occhio del ciclone per avere detto semplicemente l’ovvio. E cioè che una persona è sia di genere maschile e femminile a seconda che abbia l’apparato genitale maschile oppure femminile.

Certo, è come dire che l’acqua sia bagnata, ma da tempo il nostro mondo sostiene, contro ogni buonsenso ma nondimeno con pervicacia violenta, che l’acqua sia asciutta. Impera, infatti, quell’ideologia “di genere” che costituisce un salto di qualità enorme rispetto al semplice tentativo di legittimare l’omosessualità. L’ideologia gender mira infatti a una trasformazione completa della persona umana nella misura in cui, dopo avere staccato ideologicamente il genere maschile e femminile dalla sessualità fisica maschile e femminile, cerca di accreditare l’idea che in realtà non esistano affatto sessi definiti dalla natura umana, nemmeno invertiti, ma che sia solo l’essere umano singolo a stabilire quale gender essere, e non solo: pure cambiando, tornando indietro, ritornando avanti, sperimentando, inventando. Il traguardo è la non-definizione, persino il non-essere, visto che l’obiettivo è la fluidità, l’idea cioè il gender non sia appunto un orientamento dato, magari persino “sbagliato” nel caso “legittimo” del maschio che “si sente” femmina e della femmina che “si sente” maschio”, bensì solo la rappresentazione di se stesso che la volontà assoluta di ognuno dà, laddove ovviamente la dualità maschio/femmina è semplicemente una gabbia da cui evadere (anche l’omosessuale che inverte il maschio con la femmina, o viceversa, da quella gabbia non esce).

Il mondo è dunque trans, transgender sempre anche se non sempre transessuale nel senso chirurgico del termine. O meglio. Non è, ma sarebbe, visto che il transgenderismo, oltre a una postura etica e intellettuale, è un’impostura bella e buona, sconfitta dalla natura stessa delle cose. L’uomo che si “ricrea” donna, o viceversa, e a maggior ragione chiunque opti per una delle decine e decine di nuove forme di gender che la fantasia malata del nostro mondo sforna a ritmo quotidiano, potrà pur sognare di essere intersex, androgino, agender, crossdresser, intergender,  sistergirl, brotherboy o qualunque esercizio linguistico si voglia accreditare, ma se si guarda allo specchio resta sempre maschio oppure femmina, le due cose restando irriducibili proprio perché essenzialmente complementari. Quelli che infatti ricorrono alla chirurgia, manipolano sì parti del proprio corpo, ma non ricreeranno mai veri organi maschili e veri organi femminili come quelli di cui ci dota la natura alla nascita, e il resto è solo una storia di ormoni a badilate.

Ebbene, come ha riferitoThe New York Times, Trump e il suo entourage stanno studiando il modo per cancellare il più in fretta possibile le aberrazioni concesse, quanto agli Stati Uniti d’America, dall’era di Barack Obama in cui il dispotismo di genere e l’utopia dell’uomo post-sessuato quasi fosse un X-Man allo stadio finale della propria evoluzione avevano trionfato. Tra l’altro, la cosa più grave e non detta è che queste assurdità del “buonismo” obamiamo, invece di lenire il disagio più che evidente di chi, guardandosi allo specchio, odia la propria natura cercando di riplasmarsela con definizioni pirotecniche degne solo della lalìa più stucchevole, quel disagio lo aggravano, magari rendendolo pure irrimediabile.

Avendo, dice con precisione chirurgica The New York Times, «[…] allentato il concetto giuridico di gender nei programmi federali, tra cui scuola e sanità», l’Amministrazione Obama ha infatti compiuto uno sfacelo. Ora Trump ci sta mettendo una pezza e lo strumento giuridico dovrebbe essere un intervento che definisca giuridicamente che il sesso coincide con il gender (appunto che l’acqua è bagnata) nel Titolo X della legislazione sui diritti civili, cioè gli emendamenti in tema di educazione varati nel 1972.

Storico, e l’occasione si presenta propizia per un aggiornamento doveroso. Da due anni Trump si batte come un leone per la tutela dei princìpi non negoziabili, ma il suo tallone d’Achille è sempre parsa essere proprio la questione omosessuale. Ora però non più. Se riuscirà a legare di nuovo, giuridicamente, il gender al sesso, Trump compirà una contro-rivoluzione fondamentale, e mentre lui fa così, l’uomo che pareva essere la causa di quella sua debolezza sul tema, il ricchissimo imprenditore Peter Thiel, si sta dimostrando essere fatto di gran pasta. Omosessuale dichiarato, Thiel si sta impegnando seriamente in cause conservatrici non certo prone all’ideologia omosessualista e in più occasioni ha voluto egli stesso definire «totalitarismo» la dittatura del gender. Il vento soffia sempre dove vuole.

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 24-10-2018

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Missouri, gli abortifici chiudono perché negano servizi sicuri

Pubblicato da Marco Respinti in 23 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli sul web, I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, TUTTO. Tag: abortificio, Abortion performed by other than a physician with surgical privileges at a hospital a felony, aborto, bisex, Cecile Richards, Cheryl Sullenger, Colleen Patricia McNicholas, Columbia, Comprehensive Health of Planned Parenthood Great Plains, cultura della vita, cultura di morte, Department of Health and Senior Services, DHSS, difesa della vita, diritti della madre, gay, gender, Hillary Clinton, Kansas City, lesbiche, LGBT, LifeSiteNews, ministero della Salute e dei servizi agli anziani dello Stato del Missouri, Missouri, omosessualismo, omosessualità, Overland Park, Planned Parenthood, privilegio di ammissione, pro-life, salute riproduttiva, St. Louis, trans, Women in Medicine. Lascia un commento

“Si avvisa la gentile clientela che gli aborti in programma oggi sono stati cancellati”. È quello che dal 1° ottobre è capitato alla clinica gestita a Columbia, nel Missouri, dalla Planned Parenthood (PP), il maggior abortificio mondiale. Lo stesso è avvenuto nell’abortificio gestito dalla PP a Kansas City, sempre in Missouri. Come mai? Perché dal 2005 in Missouri c’è una legge che, se applicata, produce questo effetto. La legge è stata bloccata nel 2017, ma adesso è tornata in pieno vigore. Risultato, in Missouri gli abortifici chiudono. Oggi ne resta aperto uno solo, quello gestito dalla PP a St. Louis.

Negli Stati Uniti, infatti, le cliniche dove si praticano aborti debbono possedere (come tutte le altre strutture mediche) il “privilegio di ammissione” a un ospedale. Con “privilegio di ammissione” si indica il diritto di un medico, conseguente al fare parte del personale sanitario di un determinato ospedale, di ammettere i pazienti a un ospedale o a un centro medico che forniscano servizi diagnostici o terapeutici specifici ed evidentemente non disponibili in altra struttura dove il suddetto medico si trovi a operare. Ogni ospedale ha dunque un proprio elenco di operatori sanitari convenzionati con “privilegio di ammissione”. Il criterio è quello di garantire sempre a tutti i pazienti tutta la sicurezza e tutta l’assistenza possibili, anche in casi di urgenza. Può darsi infatti che una certa struttura clinica non disponga di tutte le tecnologie e le risorse che garantiscano il massimo della sicurezza e dell’assistenza ai pazienti, e che dunque, per potere operare secondo la legge, debba appoggiarsi a una struttura esterna meglio equipaggiata. Questo non inibisce affatto le strutture meno attrezzate eppure in grado di offrire servizi sanitari di qualità: esige solo che, per fornire proprio quei servizi di qualità, le cliniche meno attrezzate siano preparate a fronteggiare imprevisti e necessità ulteriori, operando nel pieno rispetto della legge per la tutela completa dei pazienti. Buonsenso puro in nome della trasparenza, dell’efficienza e della tranquillità dei cittadini.

L’abortoificio della Planned Parenthood, a Columbia, in Missouri

Un caso da manuale sono appunto gli abortifici: strutture in grado di sopprimere i bambini nel ventre delle loro madri, ma non di gestire le emergenze sanitarie perché non dispongono dell’attrezzatura di cui invece dispone un ospedale vero. Per questo la legge impone, a esse come a ogni altra struttura medica, di organizzarsi in modo da garantire tutta la sicurezza e tutta l’assistenza possibili alle madri che sopprimono il figlio che portano in grembo appoggiandosi a centri sanitari maggiori e migliori.

Ebbene, una regola varata per la prima volta dallo Stato del Missouri nel 2005, presente negli Statuti revisionati nel 2005 di quello Stato, Titolo XII, Public Health and Welfare, cap. 188, Regulation of Abortions, § 188.080, Abortion performed by other than a physician with surgical privileges at a hospital, a felony, stabilisce che il “privilegio di ammissione” dei medici abortisti si eserciti tassativamente entro 30 miglia dalla clinica abortista in cui operano. Un altro purissimo e ragionevolissimo criterio sanitario. Se infatti si presentasse la necessità di un intervento d’urgenza, 50 chilometri di distanza sono persino troppi.

Nel maggio 2017, però, il tribunale del Distretto occidentale del Missouri aveva accolto un ricorso della PP e temporaneamente bloccato questa legge di buonsenso vigente nel Missouri. In virtù di essa, la Planned Parenthood of Kansas and Mid-Missouri, oggi Comprehensive Health of Planned Parenthood Great Plains con sede a Overland Park, nel Kansas, cioè la sezione regionale della PP, ha potuto aprire la clinica di Kansas City e rilanciare quella di Columbia. Ovvero, siccome un giudice di un tribunale minore ha stabilito che una madre può subire un aborto senza che le siano garantire tutte le procedure di sicurezza e di assistenza immaginabili, possibili e doverose, la PP ha aperto abortifici dove per definizione le madri non godono affatto di tutta la sicurezza e l’assistenza che, essendo immaginabili, possibili e doverose, sono per definizione ragionevoli, auspicabili e necessarie.

È reagendo contro quest’assurdità, dunque, che, il 10 settembre, la Corte d’appello dell’8° Circuito degli Stati Uniti, un tribunale federale, ha dichiarato decaduto il provvedimento temporaneo del 2017 di modo che il Department of Health and Senior Services (DHSS), cioè il ministero della Salute e dei servizi agli anziani dello Stato del Missouri, potesse nuovamente far applicare la regola degli Statuti del 2005 a partire dal 1° ottobre 2018.

Normative analoghe sono in vigore in altri Stati dell’Unione nordamericana e in tutti gli Stati Uniti la lobby abortista cerca di farle sospendere o abolire perché – in questo hanno perfettamente ragione – sono regole che ostacolano e alla fine bloccano l’aborto. Ma il punto nodale è chiedersi perché queste regole ostacolino e alla fine blocchino l’aborto. La prima a invocare il “privilegio di ammissione” a garanzia delle madri che abortiscono dovrebbe essere infatti proprio la lobby della retorica sulla “salute riproduttiva” e sui “diritti della madre”. Invece sta accadendo l’esatto contrario. La PP punta il dito contro due elementi. Il primo è che la regola delle 30 miglia non serve a garantire alle madri abortiste maggiore sicurezza e tutela. Il secondo è che i medici abortisti non godono del “privilegio di accesso” per i propri pazienti. Ora, la prima obiezione farebbe ridere se non fosse tragica: l’aborto non è una pratica sicura per la madre se non sono disponibili tutte le attrezzature necessarie e gli imprevisti capitano più spesso di quanto si immagini.

Ma poi, davvero la PP si sente in coscienza di dire alle madri che abortiscono di far finta di niente se la clinica dove abortiscono non dispone, per definizione e per evidenza, di tutte le apparecchiature in grado di garantire loro la serenità? Quanto alla seconda obiezione, perché, vista la legge, la lobby abortista semplicemente non si serve di personale in regola? Perché il personale medico di cui si serve la lobby abortista non è in regola. Non un’opinione, ma un fatto. Stante infatti che per garantire a un medico i “privilegi di ammissione” un ospedale verifica le credenziali professionali del medico richiedente, la regolarità delle sue licenze e la storia di malasanità che possa riguardarlo, è la lobby abortista a dover dire al mondo, e alle madri cui mette le mani addosso, perché gli ospedali non garantiscano al personale abortista i “privilegi di ammissione”. Fatti salvi quei casi in cui un ospedale, per esempio gestito o fondato da una realtà religiosa, nega per ragioni morali i “privilegi di ammissione” ai medici abortisti anche se questi sono in regola. Nella stragrande maggioranza dei casi, insomma, i medici abortisti sono incapaci di stare sul mercato e pretenderebbero che il diritto chiudesse un occhio nei loro confronti, condonandone l’incuria e permettendo loro di operare in assenza di tutte quelle garanzie per i pazienti che si richiedono invece a ogni altro loro collega.

Coleen Patricia McNicholas

Che non siano illazioni partigiane lo dimostra proprio la citata clinica di Columbia, chiacchieratissima, clinica che ha smesso di praticare aborti perché nessun ospedale ha garantito il “privilegio di ammissione” alla dottoressa Colleen Patricia McNicholas, la quale in quella clinica pratica appunto la soppressione dei bimbi nel seno delle proprie madri, è un vera “missionaria” dell’aborto, è il tesoriere della Women in Medicine ‒ un’organizzazione che raggruppa dottoresse e studentesse in medicina rigorosamente tutte lesbiche ‒ e nel marzo 2016 organizzava appuntamenti elettorali in casa propria a favore della candidatura presidenziale di Hillary Clinton assieme all’allora presidente della PP, Cecile Richards. Del resto, quella clinica «[…] non è stata in grado di garantire i privilegi di cui deve godere un medico o di trovarne uno che ne sia in possesso dopo che una commissione medica della University of Missouri Health Care», il sistema accademico-sanitario che, con sede a Columbia, raggruppa cinque ospedali, «ha votato per rifiutarglieli completamente nel 2015». Ed è la stessa clinica che il 26 settembre è stata denunciata dal ministero della Salute del Missouri perché, durante un’ispezione finalizzata al rinnovo della licenza di aborto in scadenza, le macchine per la suzione del feto (una delle tecniche abortive consiste nell’aspirare il bambino dal ventre della madre con una specie di aspirapolvere che lo smembra) che in quella struttura sono usate per operare circa 14 aborti al mese sono state stata trovate in condizioni raccapriccianti: in particolare, una era arrugginita e i suoi tubi aspiratori contenevano muffa e sangue raggrumato rimasto dall’ultimo aborto praticato cinque giorni prima.

Quanto all’unica struttura abortista rimasta in Missouri, quella di St. Louis, ha avuto anch’essa «[…] i suoi problemi tra rapporti di ispezione falliti e un alto numero di donne ricoverate in ospedale a causa di emergenze mediche legate all’aborto», scrive Cheryl Sullenger su LifeSiteNews.

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 23-10-2018

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Twitter banna LifeSiteNews. Il totalitarismo social

Pubblicato da Marco Respinti in 22 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, TUTTO. Tag: aborto, AIDS and Behavior, antiabortismo, bisex, Cambridge Analytica Silicon Valley, censura, Centers for Disease Control and Prevention, Coalition on Abortion/Breast Cancer, comunicazione commerciale, dispotismo, Donald J. Trump, Facebook, gay, gender, Gerard M. Nadal, gonorrea, hate crime, HIV, Internet, lesbiche, LGBT, libertà, LifeSiteNews, Mark Zuckerberg, mondo libero, omosessualismo, omosessualità, PayPal, Peter Thiel, princìpi non negoziabili, pro-family, pro-life, Seth C. Kalichman, sifilide, social media, social medium comunicazione politica, social network, Ted Cruz, tirannia, totalitarismo, trans, transgenderismo, Twitter. Lascia un commento

Viviamo nel mondo libero, ma qualcuno è più libero degli altri. È quel qualcuno che ha la forza dei numeri, il potere della censura, il consenso dei manovratori e il plauso delle masse mugghianti che credono di volere quello che vogliono semplicemente perché il demagogo di turno li ha così tanto rintronati da indurli a pensare che la loro libertà sia quella che sorbiscono per via ipodermica dalla voce del padrone. Twitter, per esempio.

Giovedì 18 il social medium che regna incontrastato dalla comunicazione politica a quella commerciale ha bannato LifeSiteNews, uno dei siti storici della battaglia per i princìpi non negoziabili, noto, famoso, senza peli sulla lingua e quindi più che scomodo. E lo ha fatto come lo fanno le tirannie totalitarie: sentenza capitale applicata in modo retroattivo, senza parola alla difesa, senz’appello. LifeSiteNews è infatti stato oscurato da Twitter qualche giorno fa per un articolo di quattro anni fa sull’aumento, tra gli omosessuali, delle malattie che si trasmettono per via sessuale (HIV, sifilide, gonorrea), un articolo, scientifico e documentato, firmato da Gerard M. Nadal, biologo molecolare e microbiologo, presidente e CEO della Coalition on Abortion/Breast Cancer. Per Twitter, infatti, l’articolo violerebbe le regole che il social medium si è dato contro chi fomenti l’odio e minacci o molesti altri per via del loro orientamento sessuale o per qualche grave male che li affligga. Adesso, per uscire dall’“isolamento sanitario”, LifeSiteNews avrebbe una sola possibilità: fare quello che impone Twitter e rimuovere il post che rimanda all’articolo incriminato.

Ora, un potrebbe dire che Twitter ha fatto bene. In fin dei conti ogni utente di Twitter, come di qualsiasi altro social medium, di Twitter è ospite. Fruisce di un servizio gratuito e dunque deve comportarsi secondo le regole della casa. Verissimo. Ma il punto è che Twitter, come qualsiasi altro social medium, si definisce orgogliosamente una piazza virtuale dove ognuno può esprimere il proprio parere senza censura a meno che non si volino le norme minime della convivenza, cioè non si sparli degli altri prendendone di mira caratteristiche o difetti. Ora, da quando in qua è gossip, calunnia o hate crime citare una statistica scientifica resa nota dai Centers for Disease Control and Prevention, che, dipendendo dal ministero della Salute, sono un pezzo del governo degli Stai Uniti, da quando lo è citare The New York Times e da quando lo è citare AIDS and Behavior, il periodico medico peer-reviewed edito dalla prestigiosa Springer tedesca e diretto da Seth C. Kalichman, docente di Psicologia sociale nell’Università del Connecticut a Stoors, esperto di ricerche sulla prevenzione e la cure dell’HIV/AIDS) come fa l’articolo di Nadal che LifeSiteNews ha pubblicato e quindi twittato?

Ovviamente mai. Ma l’episodio fa venire alla mente una di quelle notizie che tanto sono importanti quanto sono nascoste: le parole di Mark Zuckerberg, il ricchissimo fondatore di Facebook che, incalzato dal senatore Ted Cruz, nei giorni caldi dello scandalo di Cambridge Analytica e Facebook, ha detto candidamente al mondo che Silicon Valley «[…] è un luogo estremamente di sinistra». Del resto, che sia esattamente così lo dice anche Peter Thiel, che è sì il milionario amico del presidente Donald J. Trump co-fondatore di PayPal e tra i primi azionisti di Facebook, ma che è pure un omosessuale notorio, il quale non ha il minimo dubbio. Silicon Valley, dice, è un «luogo totalitario».

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 22-10-2018

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Russell Kirk, o della naturale grazia del vivere

Pubblicato da Marco Respinti in 19 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, conservatorismo (USA), I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, Russell Kirk Memorial, Russell Kirk Memorial (articoli), TUTTO. Tag: ad multos annos, adsum, anima, Annette Kirk, anniversario, anthropo, Barry M. Goldwater, bellezza, Bernard Lugan, centenario, conservatorismo, cuore, David Arias Pérez, Edmund Burke, ethos, fantasy, forma mentis, formalismo, Gerald Ford, gratuità, grazia, ideologia, in Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, la naturale grazia del vivere, libertà, Mecosta, mente, Michigan, pensiero conservatore, Plymouth, polis, pulchrum, Raimondo Luraghi, responsabilità, Richard M. Nixon, rinascita conservatrice statunitense nella seconda metà del Novecento, Ronald Reagan, Russell Kirk, Stati Uniti d’America, The Conservative Mind, the unbought grace of life, volontarismo. Lascia un commento

Cento anni fa, il 19 ottobre 1918, nasceva a Plymouth, un sobborgo di Detroit, in Michigan, Russell Kirk, il padre della rinascita conservatrice statunitense nella seconda metà del Novecento.

La Plymouth americana è un calco della Plymouth inglese e nel suo nome riecheggia la storia delle origini stesse degli Stati Uniti d’America; o, meglio, della componente anglosassone delle origini del Paese, che certamente non è l’unica componente, come – anche solo a voler suggerire qualche nome emblematico – hanno sottolineato storici di vaglia quali l’italiano Raimondo Luraghi (1921-2012), il francese Bernard Lugan e lo spagnolo David Arias Pérez, agostiniano recolletto, già vescovo ausiliare di Newark, nel New Jersey, ora a riposo. Curioso, o, meglio, simbolico, visto che gran parte dell’opera di Kirk si è occupata di riscoprire le origini autentiche degli Stati Uniti, interrogandosi profondamente su di esse e in questo stabilendo un magistero culturale unico.

Eppure la Plymouth di Kirk è solo un luogo dignitosamente modesto, anche se affatto dimesso. La sua casa natale negli anni è diventata un negozio (di fiori e piante quello che visitai io anni fa), ma anche così ha sempre rispecchiato quella che è stata l’infanzia e l’adolescenza del suo illustre ex inquilino. Sobria, se non a tratti spartana; essenziale, più che asciutta; morigerata senza mai essere bacchettona. Infanzia e adolescenza, certo, ma così anche maturità e vecchiaia. Kirk è stato un gigante del pensiero proprio per questo. Non è mai stato attratto dalle cronache e dalle luci della ribalta anche se ha avuto occasione di spingersi sino ai piani alti della politica del suo Paese, consigliere di Barry M. Goldwater (1909-1998), Richard M. Nixon (1913-1994), Gerald Ford (1916-2003) e Ronald Reagan (1911-2004). Per molti aspetti ha infatti vissuto la vita del recluso, fra gli alberi che personalmente piantava attorno alla casa avita in un paesino sperduto del Michigan centrale, Mecosta (finché la casa non è bruciata e quindi lui l’ha ricostruita in uno stile “italianesco” che però per certi versi ricorda il fantasy), e le centinaia di libri cui aveva trovato posto nella vecchia fabbrica di giocattoli in legno che aveva ereditato dai nonni e che ha ricondizionato.

In questo modo si è goduto un privilegio, oggi sempre più raro. Quello di poter osservare con distacco il mondo e la sua umanità varia, talora avariata. Distacco che però non è mai stato estraniazione. Più che altro ha avuto a che fare con la contemplazione. Campione del conservatorismo Kirk lo è diventato così.

Edmund Burke

Una frase esprime bene il fulcro del suo conservatorismo. «The unbought grace of life». È del suo maestro, il pensatore e uomo politico irlandese Edmund Burke (1729-1797), di cui è diventato uno degli interpreti migliori, in Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, del 1790. Tradurre bene in italiano quella frase è davvero arduo. Qualcosa che si avvicina potrebbe essere “la naturale grazia del vivere”, ma l’unbought inglese si porta dentro un cuore unico: la gratuità. L’immagine, più che il concetto, che quella frase burkeana-kirkiana propone è quella della vita vissuta come occasione storica per sperimentare una grazia imprevista e sovrabbondante capace di ricolmare tutto e di dare senso alle cose o se non altro di suggerirne la possibilità, nella certezza che, pur con i limiti dell’umano comprendere, il senso esiste, eccome. L’esistenza, insomma, come possibilità non richiesta e quindi “miracolosa”, addirittura come chance. Chance, ovviamente, di prenderla seriamente, la vita, tra le mani e farne qualcosa di grande, pur se piccola. Tutti gli sproloqui accademici e parrucconi sul necessario coniungo fra libertà e responsabilità non riescono nemmeno a scalfire la superficie di quel che significa trovarsi inondati dalla grazia gratuita di una vita che non ci siamo scelti e che però indossiamo come un’armatura, a volte smoccolando, ma almeno una volta dicendo, fieri, lucidi, con lo sguardo retto «adsum».

Il conservatorismo di Kirk è stato questo. Non una filosofia, non un pensiero, men che meno un sistema (ideologico), bensì un atteggiamento verso la vita, un’attitudine, un modo di essere, un sì detto di continuo. La sua opera maggiore, The Conservative Mind, pubblicata in prima edizione nel 1953 e da allora un classico di riferimento per tutti i conservatori, compresi quelli che non l’hanno letta ma che non se la sentono di confessarlo e quindi in qualche modo vi fanno riferimento, lo dice acuminato e icastico proprio con il titolo. La sua traduzione non è “il pensiero conservatore”. Per tradurre bene quel mind inglese occorre infatti il latino: “la forma mentis conservatrice”, dove la forma è l’immagine che la sostanza ha e dove si concentrano, sovrapponendosi a strati e penetrando per cerchi concentrici, la mente, il cuore, l’anima.

Anche se in parte ovviamente lo ha fatto, nella trentina di libri che ha lasciato ai posteri al fianco di centinaia e centinaia di articoli e saggi, Kirk non ha cioè proposto solo un una sequenza di idee e di personaggi. Ha offerto piuttosto un ethos. L’idea kirkiana di fondo è chiara, anche se Kirk non l’ha mai messa nero su bianco in una qualche formula. Quello che chiamiamo, per assenza di definizione più piena, “essere conservatori” non è uno sforzo fuori di sé, non è l’adesione, ideologica o formalistica o volontaristica, a una seconda natura che ci è un po’ estranea, ma è l’abbracciare quel che si deve e quindi si può essere per come si è e si è stati fatti, appunto per grazia gratuita. In radice l’idea è ancora una volta burkeana; e non a caso Burke è il padre di quello che oggi s’intende, da due secoli, per “conservatorismo”. Ci sarà una ragione per cui oggi pochi capiscono Burke e il conservatorismo.

Essere conservatori significa allora imparare prima a rispettare e poi a (ri)conoscere la natura umana del proprio “io” per saperla quindi anche difendere, garantire, sviluppare. La politicizzazione del conservatorismo, che è una cosa nobile nonostante le scene cui la politica ci abitua, è il prendere sul serio questo incipit, facendo quel che gli antichi Greci della metafisica ricordavano dicendo che la polis altro non è se non l’anthropos scritto in grande.

Nel conservatorismo di oggi Kirk manca, i Kirk mancano. Forse Kirk non riconoscerebbe come conservatori alcuni che il mondo percepisce come tali, o che si pensano e presentano come tali. Magari lo sono sul serio, nonostante quel che Kirk ne direbbe, eppure finché non riscopriranno l’unbought grace of life saranno sempre zoppi pur con tutte le cose belle che possano dire o fare. Le elezioni si vincono e si perdono, il potere va e viene, i nemici si sconfiggono o si subiscono, ma quel che conta perché resta è l’anima. Se una cosa Kirk ha insegnato è questa: a che serva guadagnare anche tutto il mondo se poi si perde la propria anima? Essere conservatori vuol dire non smarrire mai l’anima, anzi riguadagnarla a ogni istante dandoci l’anima.

Kirk è diventato cattolico nel 1964, grazie soprattutto alla donna fantastica che ha sposato, cradle-catholic, Annette. Però per molti versi era cattolico in pectore pure prima. Pensava da cattolico, scriveva da cattolico, era affascinato dal cattolicesimo. Non lo si dice qui per cercare di “sistemare le cose”, ma perché Kirk non si sarebbe mai convertito se il suo animo non fosse stato predisposto a quella pienezza della verità che un giorno, per unbought grace of life, non lo ha investito. Come a dire che per essere sul serio conservatori tutti di un pezzo bisogna diventare cattolici. Nel 1964 Kirk iniziò a essere cattolico, e ha continuato a provarci fino al giorno in cui è nato al cielo, il 29 aprile 1994, malato, stanco e provato a Mecosta, rivolgendo l’ultimo proprio pensiero a Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005). La seconda cifra della sua straordinaria avventura umana è stata la bellezza, ricercata, coltivata, inseguita, spesso trovata. Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te, Signore, diceva sant’Agostino (354-430), e quella meta, ha avuto modo di sperimentare Kirk, è una sublimità che mette i brividi abbracciandoci prima proprio come pulchrum che come pensiero razionale. Non fosse che per questo, Kirk è di un’attualità sorprendente. Sia questo lo spunto per un altro round. Russell Kirk oggi compirebbe 100 anni, ma non è mai morto. Ad multos annos.

Marco Respinti

Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 19-10-2018

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Xinjiang, the ridiculous defense of the indefensible

Pubblicato da Marco Respinti in 18 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli in inglese, articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI. Tag: Bitter Winter, Central Institute of Socialism, China, Chinese Communist Party, communism, Corriere della Sera, de-programming, forced labor, Global Times, Great Britain, human rights, islam, Muslims, re-education, regime, religious liberty, Shen Guiping, Shohrat Zakir, The Guardian, totalitarianism, Uyghurs, Xinhua, Xinjiang. Lascia un commento

According to the communist regime, the repressed Muslims are very happy to be repressed. And the real victim is the government, deceptively insulted by those who defend human rights

Bitter Winter has been among the first to denounce the recent massive wave of repression unleashed against Muslims in the autonomous region of Xinjiang, especially but not solely Uyghurs, which brought more than one million of them (out of a million and a half of prisoners totally) in the nightmare called “re-education” camps. After Bitter Winter, other media began to realize the situation in face of, for example, the ridiculous move by Beijing that – as once more reported by Bitter Winter ‒, having for long time claimed to have closed the forced labor camps, has just admitted of having actually only replaced them with the very worst “re-education” camps, quickly approving a law that authorizes them retrospectively. Among the newspapers that have noticed this scourge are The Guardian in Great Britain, which seems to be taking the Uyghur question serioulsy, and Corriere della Sera in Italy, which on the other hand has managed to find only a slim space for the topic.

Now, though, the regime is trying to sell to the media the idea that those who are very happy with the “re-education” operated in those camps where Muslims are “de-programmed” through psycho-physical violence are the Muslims themselves. The Xinjiang Governor, Shohrat Zakir, said it blatantly during a long interview published on October 16 by Xinhua, the official government press agency. Since the excuse that the regime adopts to justify “de-programming” is the false idea that all Muslim Uyghurs are religious extremists, the line of defense adopted by the Chinese Communist Party insists on this point. Hypocritically calling the prisoners “trained people” because “deprogramming” is often referred to as “training,” perhaps professional, and using an alarming quasi-medical language, Zakir said: “Many trainees have said that they were previously affected by extremist thought  […] and now they have realized that life can be so colorful.” In the face of what happens in those camps, the words of Zakir are a cruel joke, but their real purpose is to defend an increasingly unsustainable system internationally. To convince the world, Zakir also refers to the words of an anonymous “trained”, a “repentant”: “I didn’t understand the country’s common language, nor did I know about the laws. I wouldn’t even have known that I had made mistakes. But the government didn’t give me up. It has actively saved and assisted me, giving me free food, accommodation and education. Now I have made great progress in many aspects. I will cherish this opportunity and become a person useful to the country and society.”  It seems to read the worst caricatures produced by the most gloomy totalitarianism of the twentieth century: brutally mistreated prisoners who thank their torturers.

An article, truly sarcastic, supporting Zakir, published by the Chinese Communist Party’s newspaper Global Times on October 16th, maintains then that the governor’s is “[…] a positive response to overwhelming Western media reports criticizing China’s policy on Xinjiang,” articles that, according to Shen Guiping, an alleged expert of religions of the Beijing’s Central Institute of Socialism, are made of “thin air” and insolent towards the regional government. In short, the Chinese government that violently tramples human rights every day is the victim and we all should repent.

Marco Respinti

Published, under the same title,
in
Bitter Winter: A magazine on religious liberty and human rights in China

(English version), October 18, 2018

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Xinjiang, la ridicola difesa dell’indifendibile

Pubblicato da Marco Respinti in 18 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, Bitter Winter, I MIEI ARTICOLI, TUTTO. Tag: addestramento, Bitter Winte, Cina, comunismo, Corriere della Sera, depogrammazione, diritti umani, estremismo, Global Times, Gran Bretagna, islam, Istituto centrale per il socialismoo, lavoro forzato, libertà religiosa, musulmani, Partito Comunista Cinese, regime, rieducazione, Shen Guiping, Shohrat Zakir, socialcomunismo, The Guardian, totalitarismo, Xinhua, Xinjiang. Lascia un commento

Secondo il regime comunista, i musulmani repressi sono felicissimi di esserlo. E la vera vittima è il governo, proditoriamente insultato da chi difende i diritti umani

Bitter Winter è stato tra i primi a denunciare la recente massiccia ondata di repressione scatenata contro i musulmani della regione autonoma dello Xinjiang, soprattutto ma non solo uiguri, che ha portato più di un milione di loro (su un milione e mezzo totale di internati) in quell’incubo che sono i campi di “rieducazione”. Dopo Bitter Winter, altri mezzi di comunicazione hanno cominciato a rendersi conto della situazione a fronte per esempio della ridicola mossa di Pechino che ‒ sempre Bitter Winter ne ha riferito ‒, avendo a lungo affermato di avere chiuso i campi di lavoro forzato, ha appena semplicemente ammesso di averli in realtà solo sostituiti appunto con i ben peggiori campi di “rieducazione”, approvando in fretta una legge che li autorizza retrospettivamente. Tra i quotidiani che si sono accorti di questa piaga ci sono The Guardian in Gran Bretagna, che pare stia prendendo la questione uigura seriamente, e il Corriere della Sera in Italia, che invece per l’argomento riesce solo a trovare uno spazio smilzo.

Adesso, però il regime pretende di vendere ai media l’idea che della “rieducazione” nei campi dove i musulmani vengono “depogrammati” con la violenza psico-fisica a essere contentissimi siano proprio i musulmani. Il governatore dello Xinjiang, Shohrat Zakir, lo ha detto platealmente nel corso di una lunga intervista pubblicata il 16 ottobre dall’agenzia governativa ufficiale cinese Xinhua. Siccome la scusa che il regime adotta per giustificare la “deprogrammazione” è l’idea, falsa, che tutti gli uiguri musulmani siano automaticamente estremisti religiosi, la linea di difesa del Partito Comunista Cinese insiste su questo punto. Chiamando ipocritamente gli interanti «persone addestrate» poiché la “deprogrammazione” viene spesso definita «addestramento», magari professionale, e usando un allarmante linguaggio quasi medico, Zakir ha detto: «Molte delle persone addestrate hanno detto di essere state un tempo affette da pensiero estremista […] e invece ora si rendono conto che la vita può essere tanto gioiosa».

A fronte di quello che avviene nei campi, le parole di Zakir sono una beffa crudele, ma il loro vero scopo è quello di difendere un sistema sempre più insostenibile a livello internazionale. Per convincere il mondo, Zakir riferisce anche le parole di un anonimo “addestrato”, un “pentito”: «Non capivo il linguaggio comune e non conoscevo le leggi del Paese. Non sapevo nemmeno di avere sbagliato. Ma il governo non mi ha abbandonato. Mi ha positivamente salvato e assistito, dandomi cibo, alloggio ed educazione gratuiti. Adesso ho fatto progressi in molti ambiti. Coglierò questa opportunità e diventerò una persona utile al Paese e alla società». Sembra di leggere le peggiori caricature prodotte dal più tetro totalitarismo del secolo XX: prigionieri brutalmente maltrattati che ringraziano gli aguzzini.

Un articolo beffardo di appoggio a Zakir, pubblicato dal quotidiano del Partito Comunista Cinese Global Times sempre il 16 ottobre, sostiene quindi che quella del governatore è «[…] una risposta positiva all’enorme numero di articoli comparsi sui media occidentali per criticare la politica cinese nello Xinjiang», articoli che, secondo Shen Guiping, un presunto esperto di religioni dell’Istituto centrale per il socialismo di Pechino, sono fatti di «aria fritta» e insolenti verso il governo regionale. Insomma, il governo cinese che calpesta violentemente i diritti umani ogni giorno sarebbe la vittima e noi tutti dovremmo pentirci.

Marco Respinti

Pubblicato con il medesimo titolo
in
Bitter Winter. Libertà religiosa e diritti umani in Cina

(Versione italiana), 18-10-2018

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Il realismo fantastico al Guastalla

Pubblicato da Marco Respinti in 18 ottobre 2018
Pubblicato in: Conferenze, Conferenze in Italia. Tag: Collegio della Guastalla, fantasy, narrativa, realismo fantastico, Silvana De Mari. Lascia un commento

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Cina, Xi Jinping è l’unico dio ammesso

Pubblicato da Marco Respinti in 17 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli su cartacei, I MIEI ARTICOLI, Libero, TUTTO. Tag: Abramo, Agar arabi, Allah, Apocalisse, Assemblea del Popolo, Associazione buddista cinese, Associazione islamica cinese, Associazione patriottica cattolica cinese, Associazione taoista, Australia, autodivinizzazione, Bitter Winter, Budda, campo di concentramento, campo di rieducazione, Chiesa di Dio Onnipotente, comunismo, culto, Deng Xiaoping, deprogrammazione, dio, drago rosso, egualitarismo, Eid al Adha, fake news, hui, Il Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era, Isacco, islam, Ismaele, James Leibold, Karl Marx, kazaki, Madonna, mandato presidenziale, Mao Zedong, maxismo-leninismo, Melbourne, Ming, Movimento patriottico protestante cinese delle Tre Autonomie, musulmani, neo-post-comunismo, Normativa sugli affari religiosi, Partito Comunista Cinese, regime, rieducazione attraverso il lavoro, sacrificio, santi, The Guardian, totalitarismo, ubbidienza totale, uiguri, Università La Trobe, uomo-partito-Stato, Xi JinpingCina, xie jiao, Xinjiang. Lascia un commento

Non avrai altro dio al di fuori di Xi Jinping. È questa la politica del leader neo-post-comunista cinese, che alle famiglie della regione autonoma nord-occidentale dello Xinjiang impone di pregare un suo ritratto al posto di Gesù, la Madonna, i santi, Allah o Budda, tutti impostori che drogano la mente e fomentano la sedizione. Figurarsi che c’è persino chi identifica il drago rosso del libro dell’Apocalisse con il Partito Comunista Cinese, cioè la Chiesa di Dio Onnipotente, il più vasto nuovo movimento religioso cinese di origine cristiana (Pechino ne calcola i fedeli in 4 milioni), che proprio per questo è represso con particolare violenza e ingiuriato mediante fake news ad alzo zero benché in realtà sia un movimento del tutto pacifico.

L’“autodivinizzazione” di Xi Jinping è del resto il vero volto della Cina oggi. Da quando, l’11 marzo, l’Assemblea del Popolo ha abolito (2.958 voti favorevoli, due contrari e tre astensioni) il limite del doppio mandato presidenziale, il “caro leader” non ha più argini. È l’uomo-partito-Stato a vita e pure oltre, visto che da gennaio “Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” integra, fra il materialista e l’apocalittico, la Costituzione del Paese al fianco dei pensieri di Karl Marx, di Mao Zedong (l’unico ad avere già fatto quel che Xi sta rifacendo) e di Deng Xiaoping (che però è stato “glorificato” solo da morto).

Le testimonianze dallo Xinjiang, raccolte dalla testata specializzata Bitter Winter, pubblicata in sette lingue, riferiscono dettagli significativi. Xi teme la concorrenza di Dio, e per questo soppesa con cura le mosse. Tra il 20 e il 24 agosto si è per esempio celebrata la festa islamica di Eid al Adha, che ricorda la richiesta fatta da Dio ad Abramo di sacrificargli il figlio salvo poi fermarlo all’ultimo (per molti musulmani quel figlio sarebbe Ismaele, nato dalla schiava Agar e progenitore degli arabi, mentre la Scrittura giudeo-cristiana lo identifica con Isacco). Per i musulmani, che nello Xinjiang abbondano e che il regime perseguita aspramente, l’Eid al Adha è il sigillo dell’ubbidienza totale (islām) dell’uomo a Dio, il centro stesso della fede. Proprio per questo Xi Jinping ha ordinato ai musulmani di essere pregato in quella data al posto di Allah. Perché esige ubbidienza totale divina. Siccome i musulmani (uiguri, kazaki o di etnia hui) resistono, per loro si spalancano le porte dei campi di “rieducazione”, un milione su un milione e mezzo di internati complessivi. Pechino dice di averli smantellati tempo fa. In realtà nel 2013 ha smantellato i campi di “rieducazione attraverso il lavoro”, ma solo per sostituirli con campi di concentramento nuovi e peggiori dediti alla “deprogrammazione” psico-fisica. E dato però che l’opinione pubblica mondiale glieli rinfaccia, e che di per sé la legge non li prevedeva, Xi Jinping ha pensato bene di legalizzarli retrospettivamente con un decreto emanato il 10 ottobre. Ne ha parlato anche The Guardian giovedì scorso, dando voce a James Leibold, studioso delle politiche etniche cinesi nell’Università La Trobe di Melbourne, in Australia.

La nuova lotta di Xi Jinping a tutte religioni fuorché il culto di se stesso è peraltro certificata dalla Normativa sugli affari religiosi, entrata in vigore il 1° febbraio. Una dichiarazione di guerra, cioè, contro ogni fede e gruppo religioso, compresi paradossalmente quelli “ufficiali” filogovernativi: il Movimento patriottico protestante cinese delle Tre Autonomie, l’Associazione patriottica cattolica cinese, l’Associazione buddista cinese, l’Associazione islamica cinese e l’Associazione taoista. E chi non si piega finisce nell’elenco degli xie jiao, una vecchia dizione dell’epoca Ming riesumata ad hoc in salsa rossa per creare quelle liste di proscrizione che sono semplicemente il lasciapassare verso la tortura e spesso la morte per chi non rivolge preci quotidiane al despota. Senza distinzioni. Si chiama egualitarismo ed è un vanto del comunismo.

Marco Respinti

Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
Islamici cinesi costretti a pregare il dio Partito
in Libero [Libero quotidiano], anno LIII, n. 286, Milano 17-19-2018, p. 11

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Il Ven. Pio XII a Pienza nel 60° della scomparsa

Pubblicato da Marco Respinti in 9 ottobre 2018
Pubblicato in: Conferenze, Conferenze in Italia, TUTTO. Tag: Andrea Malacarne, Pienza, Pieve dei santi Vito e Modesto a Corsignano, Pio XII, Stefano manetti. Lascia un commento

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Entra Kavanaugh, e la Corte Suprema diventa conservatrice

Pubblicato da Marco Respinti in 7 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, conservatorismo (USA), I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, Trumplandia, TUTTO. Tag: Brett M. Kavanaugh, Clarence Thomas, conservatorismo, Corte Suprema federale, Costituzione federale, decent society, diritto naturale, Donald J. Trump, George W. Bush Jr., George W. H. Bush, giusnaturalismo, GOP, Grand Old Party, John G. Roberts, Joseph Manchin, lex suprema, Lisa Murkowski, maggioranza, materialismo, Neil M. Gorsuch, Partito Democratico, Patito Repubblicano, pro-family, pro-life, relativismo, Samuel A. Alito, secolarizzazione, Stati Uniti d’America, Steve Daines, Ulpiano. Lascia un commento

Il momento per cui i conservatori hanno combattuto, sperato, addirittura pregato per decenni è arrivato ieri, sabato 6 ottobre, attorno alle 16,00 ora di Washington, le 22,00 ora italiana. Brett M. Kavanaugh, il conservatore, il pro-life, il pro-family, il guardiano della Costituzione, il cattolico, è giudice della Corte Suprema federale degli Stati Uniti d’America, il tribunale che, con veri e propri colpi di mano, almeno nell’ultimo mezzo secolo, ha tralignato più e più volte, rendendo irriconoscibile il Paese più importante del mondo. La restaurazione è insomma iniziata.

Dopo il voto procedurale di venerdì, e un lungo dibattito finale, di rito, fra i senatori, Kavanaugh è stato eletto ieri con 50 voti su 100 a favore e 48 contrari. Il senatore Joseph Manchin è stato l’unico Democratico a votare “sì” e Lisa Murkowski l’unica Repubblicana ha schierarsi per il “no”. Tutto come annunciato. Ma in aula la Murkowski non ha espresso il proprio voto, limitandosi a dirsi “presente”. Lo ha fatto per fare un favore al collega sentore Steve Daines, assente poiché impegnato in Montana al matrimonio della figlia, evento fissato da mesi e che Daines aveva detto di non volersi perdere per nulla al mondo, così da non trasformare l’assenza di Daines, sostenitore di Kavanaugh, in un voto contro Kavanaugh. Alla fine dei conti si potrebbe dire che Kavanaugh è diventati giudice della Corte Suprema grazie al comportamento tanto decisivo quanto inaspettato, per ragioni diverse, delle due mele marce liberal Repubblicane e di un senatore Democratico preoccupato di essere rieletto il 6 novembre in West Virginia, uno Stato che nel 2016 si è abbondantemente schierato con Donald J. Trump.

L’opposizione Democratica ha fatto di tutto per cercare di boicottare uno dei momenti politici più importanti della storia statunitense, e quindi mondiale, degli ultimi decenni. Ha cercato di distruggere  il carattere, il morale, la persona stessa di Kavanaugh, ma ha fallito, portando a casa solo un pugno di mosche e una figuraccia pessima. Con Kavanaugh alla Corte Suprema, infatti, la maggioranza dei nove giudici del massimo tribunale statunitense passa ai conservatori e si caratterizza per essere la compagine più conservatrice dagli anni 1930 a oggi. Non solo, la maggioranza conservatrice della Corte Suprema di oggi, cinque giudici su nove, è in maggioranza cattolica, quattro giudici su cinque: sono infatti cattolici il presidente di quell’augusta assise John G. Roberts e i giudici Clarence Thomas, Samuel A. Alito e Kavanaugh, e questo è un punto assolutamente rilevante. Soprattutto perché nessuno dei giudici conservatori cattolici della Corte Suprema è stato nominato da un presidente cattolico. Il cattolico Thomas è stato nominato dall’episcopaliano George W. H. Bush, il cattolico Roberts e il cattolico Alito sono stati nominati dal metodista George W. Bush Jr. e il cattolico Kavanaugh è stato nominato dal presbiteriano Trump. Il che significa due cose precise: la prima è che i presidenti degli Stati Uniti amici dei conservatori vedono nei conservatori cattolici una risorsa enorme per il Paese, la seconda è che i cattolici conservatori sono gl’interpreti e i garanti migliori della legge fondamentale del Paese, in una parola i patrioti più limpidi. Quale eterogenesi dei fini dalla fondazione degli Stati Uniti, quando i cattolici, minoranza, erano considerati poco o punto leali al Paese. E questo dà l’occasione per sottolineare, una volta in più, quanto, al momento decisivo, l’improbabile, surreale, istrionico Trump non sbagli un colpo. Per restare alla sola Corte Suprema, due volte Trump ha avuto l’occasione, inimmaginata, soprattutto in tempi tanto rapidi, di scegliere nuovi giudici e due volte, prima con Neil M. Gorsuch (protestante) e ora con Kavanaugh, Trump ha scelto due veri gioielli.

Kavanaugh ha giurato poche ore dopo la ratifica. Con tutta probabilità lunedì sarà ricevuto alla Casa Bianca (nel week-end Trump era in Kansas per sostenere i candidati Repubblicani alle prossime elezioni) e quindi da martedì sarà già al lavoro. A lui e alla Corte Suprema dove i conservatori sono finalmente maggioranza, e dove tra i conservatori sono maggioranza i cattolici, e dove la stessa presidenza è retta da un cattolico, spetta adesso il compito di riprendere le redini di un Paese in balia dell’estremismo ideologico e della partigianeria. Spetterà ai conservatori, e fra loro ai cattolici, ricuperare lo spirito autentico della nazione, debellare la malsana idea che il diritto sia ostaggio delle maggioranze politiche, dei tornaconti di parte e dei capricci delle lobby, restaurando il senso dell’onore e quello del dovere, lo spirito della libertà e quello della responsabilità. E francamente non c’è nessun altro che lo sappia fare meglio dei conservatori, e dei cattolici conservatori, gli unici a riverire ancora e a temere una lex suprema addirittura trascendente, un’idea di bene e di male che sovrasta e che precede e che attende alla meta gli uomini e le società storiche. Il relativismo, la secolarizzazione, il materialismo stanno aggredendo anche i religiosissimi Stati Uniti e ai conservatori tocca mettersi di mezzo, fermare il trend, addirittura invertirlo. Da sempre la tentazione, e purtroppo spesso la realtà, delle società umane è fare ciò che ricorda un famoso brocardo del giurista romano Ulpiano (170-223): «Quod principi placuit, legis habet vigorem», «Ciò che aggrada all’imperatore, ha vigore di legge». I conservatori hanno oggi l’occasione storica di affermare che ha invece vigore di legge ciò che nei cieli è scritto da sempre e per sempre essere giusto e buono e bello anche se non aggrada all’imperatore, ai suoi lacchè e alle turbe vocianti che egli mantiene con prebende ed elemosine. Non è nel potere dei giudici cambiare le mentalità e rifare le società, ma i giudici possono contribuire alla bontà delle leggi e le leggi creano il costume. Alla lunga contribuiscono significativamente cioè alla sanificazione della società, se non altro indicando con chiarezza alla sovrana libertà dell’uomo quale sia la strada per il baratro e quale invece sia la strada per quella che, con un understatement di umiltà e di realismo, i conservatori statunitensi chiamano da sempre a decent society. Da martedì. Oggi si godono la beatitudine di un momento più unico che raro.

 Marco Respinti

Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
Con Kavanaugh, una Corte Suprema con più cattolici

in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 7-10-2018

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Kavanaugh verso la Corte Suprema, una contro-rivoluzione

Pubblicato da Marco Respinti in 6 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, conservatorismo (USA), I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, Trumplandia, TUTTO. Tag: American Journal of Clinical Hypnosis, Amministrazione Trump, astinenza, Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, Brett M. Kavanaugh, caso Kavanaugh, Christine Blasey Ford, conferma, Democratici, Donald J. Trump, egodistonico, Esercito di liberazione simbionese, fase dibattimentale, FBI, giudice. Corte Suprema federale, GOP, Grand Old Party, Implications of Learning Theory in Treatment of Depression by Employing Hypnosis as an Adjunctive Technique, Interoception and Mental Health A Roadmap, ipnosi, Jeff Flake, John Manchin, Journal of Clinical Psychology, judge, justice, lavaggio del cervello, Lisa Murkowski, macchina della verità, Meditation With Yoga Group Therapy With Hypnosis and Psychoeducation for Long-Term Depressed Mood A Randomized Pilot Trial, Mental Insight Foundation, Mike Pence, nomina, Partito Democratico, Partito Repubblicano, Patricia Hearst, psicologia, psicologia forense, ratifica, Repubblicani, Senate Committee on the Judiciary, Senato federale, sessualità, Stanley Abrams, Stati Uniti d’America, Susan Collins, Tania la guerrigliera, terrorimmo, voto procedurale, W.O.S.C. School of Polygraph. Lascia un commento

A meno di un cataclisma davvero imprevisto, Brett M. Kavanaugh è il prossimo giudice della Corte Suprema federale degli Stati Uniti d’America. Un risultato eccezionale e clamoroso, visto che in questo modo i conservatori avranno finalmente l’agognata maggioranza nel massimo tribunale del Paese e quell’assise sarà la più conservatrice dagli anni 1930 in qua.

Certo, il voto finale si terrà oggi, a partire dalle 16,30 ora italiana, ma il “pre-voto” di ieri ha già di fatto chiuso la partita. Ieri, infatti, il Senato ha espresso il voto procedurale per dichiarare conclusa la fase dibattimentale del processo di ratifica della candidatura di Kanavaugh aprendo al voto tombale che oggi deciderà se confermarne la nomina, promuovendolo o meno da judge a justice. Ma i “sì” di ieri sono stati 51 e i “no” 49, e praticamente per nessuna ragione oggi la maggioranza dovrebbe cambiare, soprattutto dopo le intenzioni di voto espresse ieri, diverse ore dopo il voto, quasi alle 22,00 ora italiana. dagli unici due senatori che oggi avrebbero potuto alterare il risultato, la Repubblicana Susan Collins e il Democratico Joseph Manchin. Vediamo perché.

Photo by Zach Gibson/Getty Images

Il voto di ieri ha rispecchiato esattamente i numeri che al Senato hanno i Repubblicani (51) e i Democratici (49: in realtà 47 più due indipendenti che però votano sempre con i Democratici). Ma i 51 “sì” di ieri non sono stati tutti Repubblicani: la senatrice Repubblicana di sinistra (rara avis) Lisa Murkowski ha votato “no”, compensata però immediatamente da Manchin, l’unico Democratico che abbia votato “sì”, un Democratico del West Virginia ondivago che talvolta ha votato a favore di cause conservatrici. I partigiani di Kavanaugh hanno gioito pregustando la vittoria, ma a freddarli subito è giunto l’annuncio, diramato immediatamente dopo il voto, che alle 15,00 ora di Washington (le 21,00 in Italia), Susan Collins avrebbe rilasciato una dichiarazione.

Ora, la Collins è l’altra senatrice Repubblicana di sinistra (fortunatamente sono solo due) che fa spessissimo coppia con la Murkowski. Ieri ha votato “sì”, ma magari solo per accelerare l’occasione di un “no” oggi. La sua promessa di una dichiarazione importante è infatti a lungo sembrata un “no” annunciato. Invece è accaduto esattamente il contrario. La Collins si è prodotta in un discorso di quasi 50 minuti, dotto, forbito, a tratti davvero da antologia della retorica pubblica, per spiegare ai compagni di partito e all’opposizione (con cui spesso si schiera) perché Kavanaugh non è affatto il mostro giuridico che la “piazza” liberal, sia essa parlamentare, mediatica o popolare, descrive proditoriamente da settimane. Anzi, che Kavanaugh non sarà affatto un uomo divisivo come la Sinistra teme e urla, e proprio questo è stato il motivo forte con cui la Collins si è schierata a favore della ratifica della sua nomina. Lo ha sicuramente fatto con argomentazioni indigeste alla Destra, ma il suo sorprendente “progressismo conservatore” alla fine ha sconfitto la Sinistra. Anche perché, dopo appena due, al massimo tre minuti il senatore Democratico Manchin ha confermato che anch’egli voterà un altro “sì” anche oggi. Appunto: a meno di un cataclisma davvero imprevisto, Brett M. Kavanaugh è il prossimo giudice della Corte Suprema. In teoria potrebbe ancora esserci un franco tiratore, ma sino a ora non se n’è nemmeno presagita l’ombra.

La senatrice Repubblicana Susan Collins dice “sì” a Kanavaugh
(Photo by Uncredited/AP/Shutterstock)

E per bocciare Kavanaugh non ne basterebbe peraltro uno, ma ce ne vorrebbero almeno due. Uno solo, infatti, porterebbe il voto del Senato alla parità, 50 a 50, e a quel punto sarebbe risolutorio il voto del presidente del Senato, che è il vicepresidente federale Mike Pence, che è un “sì” certo. Qualcuno avanza, ma nemmeno troppo convintamente, il nome del Repubblicano Jeff Flake, che ieri ha comunque votato “sì”, ma è un’ipotesi ardita. Il suo nome circola perché è stato l’ago della bilancia nel voto espresso dalla Commissione bipartisan e a maggioranza Repubblicana (rispecchiando le proporzioni del Senato) incaricata di valutare la candidatura di tutti i giudici federali di nomina presidenziale che venerdì 28 settembre ha dato via libera al voto plenario Senato di ieri e di oggi all’indomani dell’oramai famosa udienza di Christine Blasey Ford, la 51enne californiana docente universitaria di Psicologia clinica che, tra molti «non ricordo» e un bel po’ di contraddizioni, accusa Kavanaugh di avere cercato di stuprarla, con un complice, 36 anni fa, ai tempi del liceo.

Una settimana fa Flake è stato cruciale perché, dapprima indeciso (e i Democratici ci hanno sperato moltissimo), ha poi scelto di votare come i colleghi Repubblicani affinché l’intero Senato avesse la possibilità di giungere al voto finale (appunto quello di oggi), ma vincolando il proprio “sì” alle famose indagini dell’FBI invocate dall’opposizione e quindi aggiudicando a Kavanaugh solo una mezza vittoria: “vittoria” perché con il voto di Flakes il “caso Kavanaugh” ha finalmente lasciato il Senate Committee on the Judiciary per approdare all’aula, “mezza” perché per volontà di Flakes sono stati procrastinati di qualche giorno il voto procedurale che altrimenti si sarebbe tenuto lunedì 1° ottobre e quello finale calendarizzato per il giorno seguente.

Stante che l’indagine dell’FBI chiesta dai Democratici e svolta perché Flake si è impuntato sembrerebbe cosa logica e doverosa ma non lo è affatto (come spiegato in precedenza su queste stesse colonne), il ritardo con cui il voto finale su Kavanaugh arriva solo oggi ha infatti semplicemente tirato la volta ai Democratici. Perché tutto lo sfruttamento emotivo, mediatico, propagandistico e politico che i liberal hanno fatto e fanno della testimonianza della Blasey Ford ha mirato a ottenere un solo scopo: ritardare quanto più possibile il voto del Senato, anche solo di pochi giorni, nella speranza che la macchina del fango riuscisse a macinare altro guano e che, calunnia calunnia, qualche altro accusatore, o anche solo qualche temerario in cerca di 15 minuti di celebrità, scodellasse l’ennesima accusa non provata e non provabile contro Kavanaugh onde spostare ancora oltre il voto finale. All’infinito? Ovviamente no, ma almeno sin dopo il 6 novembre, giorno delle elezioni “di medio termine” in cui i Democratici sperano, appunto pompando aria nel “caso Kavanaugh”, di strappare il Senato ai Repubblicani. Se questo avvenisse, un nuovo Senato a maggioranza Democratica polverizzerebbe la candidatura Kavanaugh in un battito di ciglia e con lui quella di qualsiasi altro candidato conservatore che Trump volesse nominare al massimo tribunale del Paese.

Ma non è successo. L’indagine dell’FBI tanto invocata non ha prodotto nulla e nulla hanno sortito i goffi tentativi di gettare nuovo discredito su Kavanaugh. L’FBI, che certo non ha mai fatto sconti all’Amministrazione Trump, ha scoperto nulla perché nulla c’è da scoprire. Se io dico che 40 anni fa un tizio mi ha fatto del male in un posto dove non c’era nessuno, la polizia non potrebbe mai provarlo nemmeno se io dicessi io vero. Lo stesso dicasi per le accuse della Blasey Ford. Parrebbe essere una sua debolezza e invece è una grande forza. Basta saperla sfruttare appropriatamente. Siccome nessuno potrà mai né sementire né confermare, resterà soltanto quello che la propaganda saprà seminare: la sfiducia verso un professionista altrimenti al di sopra di ogni sospetto. Non dovrebbe mai essere possibile aprire una vertenza in assenza almeno della possibilità teorica di provare o di smentire le accuse oltre ogni ragionevole dubbio. Perché se le accuse fossero vere, nessuno potrà mai essere incriminato e punito, e se invece fossero false, nessuno potrà mai liberarsi dalle malelingue.

Però, mentre l’FBI non trovava nulla su Kavanaugh, qualcosa sulla Blasey Ford è venuta fuori. Psicologa, è un’esperta dell’ipnosi e del controllo mentale. Ha per esempio fatto parte di un pool di ricercatori che nel 2008 ha pubblicato uno studio scientifico sull’argomento: finanziato dalla ricca Mental Insight Foundation (che a questi temi pone grande attenzione) e intitolato Meditation With Yoga, Group Therapy With Hypnosis, and Psychoeducation for Long-Term Depressed Mood: A Randomized Pilot Trial, è comparso sul Journal of Clinical Psychology. A p. 808 vi si legge: «Nel 1964, Abrams ha suggerito l’idea che l’ipnosi possa essere usata per migliorare il rapporto nella relazione terapeutica, per contribuire al ricupero di ricordi importanti e per creare situazioni artificiali che possano permettere al paziente di esprimere emozioni distoniche in modo sicuro». Ora, dove qui si è tradotto con «paziente» il testo dice letteralmente «cliente» e con «egodistonico» la psicologia intende qualunque comportamento o idea che non sia in armonia con i bisogni dell’io, o specificatamente coerente con l’immagine e la percezione che il soggetto ha di sé. Si definisce per esempio tale chi non accetta il proprio orientamento sessuale, vivendo con disagio la sessualità naturale o l’astinenza. E l’Abrams citato è l’autore di Implications of Learning Theory in Treatment of Depression by Employing Hypnosis as an Adjunctive Technique, pubblicato nel 1964 sull’American Journal of Clinical Hypnosis. Cioè lo psicologo forense Stanley Abrams (1930-2012) che ha fondato la W.O.S.C. School of Polygraph: ecco che entra in scena la macchina della verità, a cui anche la Blasey Ford si è recentemente sottoposta per il “caso Kavanaugh”. Esperto ascoltato in molti processi penali, Abrams è stato anche perito di parte nella difesa di Patricia Hearst, la ricca ereditiera statunitense rapita nel 1974 a Berkeley, in California, dall’Esercito di liberazione simbionese, un gruppo di terroristi e di omicidi di estrema sinistra, in maggioranza donne e alcune di loro lesbiche. Ben presto, la Hearst prigioniera aderì all’ideologia dei propri carcerieri e si trasformò in “Tania, la guerrigliera” rapinando banche, talora anche con il morto, e mettendo bombe alle auto della polizia. La difesa della Hearst ha sempre puntato tutto sulla teoria del “lavaggio del cervello”.

Un’altra ricerca su argomenti non lontani cui la Blasey Ford ha partecipato è Interoception and Mental Health: A Roadmap, pubblicato su Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging nel giugno scorso. Ipnosi, dunque, ipotesi interessante.

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Kavanaugh verso la Corte Suprema, una rivoluzione

in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 6-10-2018

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Travaglio e Saviano: siete per il diritto naturale?

Pubblicato da Marco Respinti in 4 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, I MIEI ARTICOLI, Sito di Allenza Cattolica. Tag: aborto, Aleksandr I. Solženicyn, anarchia, Andrej D. Sacharov, Antigone, bene superiore, bene supremo, Cicerone, Cina, coscienza, David Henry Thoreau, diritto, diritto naturale, disobbedienza civile, dissidenti, dissidenza, Domenico Lucano, Edwin S. Corwin, eutanasia, higher law, Il Fatto Quotidiano, immigrazione clandestina, la Repubblica, laogai, legge, legge naturale, Mahatma Gandhi, Marco Pannella, Marco Travaglio, Medioevo, Mimmo Lucano, moralità, obiezione di coscienza, oggettività, persona, progressismo nordista, ratio recta summi Iovis, resistenza alla tirannia, Riace, Roberto Saviano, Rosa Bianca, samizdat, san Massimiliano Kolbe, Socrate, Sofocle, Stoici, suprema lex, trascendentalismo, vita umana. Lascia un commento

Spettabili signori Marco Travaglio e Roberto Saviano, sono imbarazzato. È la prima volta che sono d’accordo con voi, e ancora mi lambicco il cervello per capire dove abbia sbagliato.

Di lei, Travaglio, leggo l’articolo I gonzi di Riace  (in questi giorni di Nobel, non c’è quello per il titolista?), e di lei, Saviano, leggo, Il sindaco di Riace Domenico Lucano è stato arrestato per un peccato di umanità, comparsi l’uno su Il Fatto Quotidiano e l’altro su la Repubblica di ieri, 3 ottobre. La vicenda è quella, notissima, del primo cittadino della città calabra finito ai domiciliari per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e affidamento fraudolento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due cooperative della zona. Pare che, quanto alla prima accusa, il sindaco Lucano combinasse falsi matrimoni fra immigrate e italiani onde far avere la cittadinanza alle prime al di là delle regole della repubblica cui ha giurato fedeltà. Del resto, è la prima accusa quella che ha attirato la vostra attenzione, spingendovi a scomodare il concetto di “disobbedienza civile”.

Quello di “disobbedienza civile” è un principio nobile, e deve il nome all’omonimo pamphlet pubblicato nel 1849 da David Henry Thoreau (1817-1862), filosofo, scrittore e poeta statunitense, quintessenza del “trascendentalismo”, emblema del “progressismo nordista”, interprete del pensiero anarchico e capace di sontuosi ragionamenti sulla difesa della persona, sull’intangibilità della vita umana, sulla resistenza alla tirannia e persino ‒ dicendone bene ‒ sul Medioevo.

Lei, Travaglio, davanti al paradosso dell’uomo delle istituzioni che viola la legge volontariamente in nome di quello che ritiene essere un bene superiore, scrive: «se a violare una legge è colui che per primo dovrebbe rispettarla, perché ha giurato di adempiere a quel dovere o perché addirittura la legge l’ha scritta lui, salta il patto sociale che ci tiene tutti uniti e a quel punto vale tutto». Lo scrive come introduzione alla variante indipendente che nel suo articolo cala subito magistralmente in forma di domanda retorica: «Ma c’è un problema: se una legge è ritenuta ingiusta, disumana, immorale, che si fa? Si prova a cambiarla». Sacrosanto. E però – sono sempre parole sue -, «[…] se poi non ci si riesce, c’è una scelta estrema: quella della disobbedienza civile nonviolenta. Quella di Gandhi e dei suoi epigoni, giù giù fino a Pannella». Lei dice Gandhi e Pannella: de gustibus… Apprezzo però che, all’indirizzo di Pannella dica «giù giù». Per nobilitare il ragionamento scomoda Sofocle e l’Antigone, ben fatto. Poi si perde in un’articolessa e allora io tengo la barra. La disobbedienza civile così nobilmente da lei invocata: quel diritto umano alla resistenza per cui un uomo è disposto anche a pagare di persona onde affermare un bene più alto nel protestare contro una legge valida ma ingiusta.

 

Prescindo qui dal caso Lucano e dalla legge sull’immigrazione da lui contestata semplicemente perché non m’interessa. Mi preme infatti il fulcro del suo ragionamento, che è lo stesso svolto da Saviano, il quale scrive che «[…] Mimmo Lucano ha fatto politica nell’unico modo possibile in un Paese che ha leggi inique. Mimmo Lucano ha fatto politica disobbedendo». Anche lei, Saviano, parla di «disobbedienza civile» e la definisce perfettamente come «l’unica arma che abbiamo per difendere […] i diritti di tutti». Mi tornano alla mente i dissidenti, anzitutto l’eminentissimo Socrate, quindi la Rosa Bianca, san Massimiliano Kolbe, il samizdat, Andrej D. Sacharov, Aleksandr I. Solženicyn, i mille cinesi senza nome che vengono inghiottiti nei laogai in questo preciso istante.

Sono d’accordo con voi. Così d’accordo che vi domando, Travaglio e Saviano: queste vostre parole appassionate e assertive sulla differenza possibile fra ciò che è legale e ciò che è giusto su cosa si fondano? Volete, Travaglio e Saviano, riprendere cortesemente carta e penna a beneficio di noi semplici spiegandoci che ciò che è giusto e ciò che è sbagliato non sono alla mercé di maggioranze politiche, copie vendute, applausometri e ubbie? Che ciò che ci fa dire che una legge è immorale anche se vigente attiene alla coscienza e si appella alla parte più nobile di noi umani, esseri splendidi e terribili, basandosi sopra un criterio oggettivo, ubiquo, universale e atemporale, sempre precedente, superiore e ulteriore le opinioni umane, lecite ma non su ciò è parametro, parametro che nel corso della storia è stato chiamato ratio recta summi Iovis da Cicerone, ne hanno filosofato gli Stoici, è stato detto suprema lex, poi diritto naturale e infine higher law dal giurista statunitense Edwin S. Corwin (1878-1973)? Che insomma non sono Travaglio e Saviano il criterio di cosa sia morale e immorale davanti a ciò che per lo Stato è giusto anche se non lo è?

Quindi, per dimostrare che non siete voi, Travaglio e Saviano, il criterio della moralità capace di sfidare anche la legalità in nome di un bene superiore, supremo, siete, Travaglio e Saviano, disposti a firmare domani mattina un appello alla disobbedienza civile per proteggere e confortare tutti quegli obiettori di coscienza che, dall’aborto all’eutanasia, si rifiutano di accettare una legge vigente dello Stato che la loro coscienza giudica omicida e chiedono alla repubblica italiana, dove la legge è uguale per tutti, di tutelarne la libertà di dissentire civilmente, laddove invece oggi sono minacciati esattamente nel proprio sancta sanctorum intangibile da chi, riempiendosi la bocca di “è una legge dello Stato”, ergo va applicata magari coi gendarmi, ergo è una cosa buona a prescindere, ergo non esiste nient’altro, si sforza di cancellarne la cittadinanza strappandosi le vesti indignato?

Insomma, volete Travaglio e Saviano impegnarvi a difendere la disobbedienza civile dei medici, dei paramedici e dei farmacisti antiabortisti e antieutanasisti? Immagino di sì, altrimenti i vostri ragionamenti messi ieri su carta sarebbero solo chiacchiere e opportunismo.

Marco Respinti

Pubblicato con il medesimo titolo
sul sito Internet di Alleanza Cattolica il 14-10-2018

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E Tolkien pregava, in elfico, per invocare protezione

Pubblicato da Marco Respinti in 3 ottobre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana. Tag: abusi, abuso, accusare, Alessandria d’Egitto, angelo custode, apologetica, arcangeli, Arden R. Smith, Ave Maria, Canone della Messa, Carl F. Hostetter, Chiesa Cattolica, Christopher Tolkien, cielo, Collins, colpa, colpe, composizione di luogo, Concilio di Efeso, copto, creazione, culto, diavolo, dogma, Elfi, elfico, epica, errore, errori, esorcismo, eucatastrofe, evangelium, fantasia, favola, Fedeli, fiaba, filologia, Gesù, Giobbe, Gloria in Excelsis, Gloria Patri, grande accusatore, grandi santi, grazia divina, Ignazio di Loyola, Il Signore degli Anelli, Immacolata Concezione, immaginario, immaginazione, Incarnazione, inferno, J.R.R. Tolkien, John Ronald Reuel Tolkien, John Rylands Library, latino, latino elfico, Laudate Dominum, Laudate Pueri Dominum, letteratura, lingua, lingua elfica, lingue, linguistica, Litania di Loreto, Litania di Loretto, Litanie lauretane, madre, Magnificat, maligno, Manchester, mantello, manto, Maria, maternità divina, memoria liturgica, mese mariano, Milton Waldman, mistici russi, mito, mitologia, mondo reale, Morgoth, narrativa, nuova religione, Ortírielyanna, oscurità, Oscuro Nemico, ottobre, Papa Francesco, Papa Leone XIII, papiro egiziano, Pater noster, Patrick H. Wynne, pratica religiosa, pregare, preghiera, preghiere, protezione, Quenya, realismo fantastico, realtà, religione, Resurrezione, riforma liturgica, rito ambrosiano, rivelazione privata, Robert Murray, romanzo, rosario, salmo, san Michele Arcangelo, satana, Sauron, simbolismo, simbolo, sincretismo, Sub tuum praesídium, Sub tuum prasidium, Sulle fiabe, turbolenza spirituale, Vangeli, Vangelo, Vergine, Vinyar Tengwar, visione, Vittorio Messori. Lascia un commento

Sarebbe una bugia dire che Papa Francesco non abbia spiazzato tutti, conservatori e  progressisti, invitando i cattolici, sabato 29 settembre, giorno in cui la Chiesa Cattolica celebra la memoria liturgica degli arcangeli, a «[…] pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi». Lo ha fatto domandando di imitare «i mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni», che «consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione “Sub tuum praesídium”», per poi concludere la recita del Rosario con la preghiera scritta da Papa Leone XIII (1810-1903) appunto a san Michele.

L’intenzione di Papa Francesco, con il gesto del 29 settembre, è quella d’impetrare dal Cielo la grazia divina di preservare la Chiesa «[…] dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato, e impegnata a combattere senza nessuna esitazione affinché il male non prevalga». Infatti il diavolo, dice il Libro di Giobbe, al capitolo 1, versetto 7, «[…] gira per il mondo cercando come accusare».

Nel 1884, mentre celebrava la Messa, Leone XIII ebbe la visione dell’attacco scatenato dal diavolo contro la Chiesa. Fu per questo che scrisse la preghiera all’arcangelo Michele da recitarsi al termine di ogni Messa, cosa che è stata fatta fino alla Riforma liturgica e restando, da allora in poi, un efficace esorcismo di uso personale e quotidiano.

Quanto al Sub tuum praesidium, è la preghiera mariana più antica. Risale al secolo III ed è stata rinvenuta ad Alessandria d’Egitto nel 1917, scritta su un papiro egiziano, copto, acquistato nel 1917 dalla John Rylands Library di Manchester e pubblicato per la prima volta nel 1938. Lo scrittore cattolico Vittorio Messori ama descriverla come la madre di tutta l’apologetica, la preghiera apologetica per eccellenza: contiene l’affermazione della maternità divina di Maria, un dogma sancito dopo, nel 431, dal Concilio di Efeso, e (nella versione del rito ambrosiano, quella più vicina all’originale) anche un’allusione all’Immacolata Concezione, dogma proclamato solo moltissimo dopo, nel 1854, ma evidentemente due verità di fede professate dai cristiani da sempre.

Ora, questa preghiera originaria ha tra i propri amatori un personaggio illustre, lo scrittore e filologo inglese J.R.R. Tolkien (1892-1973). In una lettera datata 8 gennaio 1944 e indirizzata al figlio (e futuro erede letterario) Christopher, esordendo con un «ricordati il tuo angelo custode», Tolkien scriveva: «Se non lo fai già, prendi l’abitudine alle “preghiere”. Io le uso molto (in latino): il Gloria Patri, il Gloria in Excelsis, il Laudate Dominum, il salmo domenicale Laudate Pueri Dominum (al quale sono particolarmente affezionato), e il Magnificat. E anche la Litania di Loretto [sic] (con la preghiera Sub tuum prasidium). Se le conosci a memoria, non avrai mai bisogno di altre parole di gioia. È anche una cosa buona e ammirevole conoscere a memoria il Canone della Messa, cosi lo puoi recitare nel cuore se le circostanze ti impediscono di sentire la Messa».

Tolkien amava molto la preghiera, e molto le preghiere cattoliche canoniche. Le amava tanto da farci pregare anche gli Elfi della sua narrativa, detta, non a caso, “realismo fantastico”. Premesso che tutta la costruzione tolkieniana è definibile come una “composizione di luogo” atta a dare “cittadinanza” alle lingue che egli anzitutto inventò (cioè personaggi credibili che le parlassero credibilmente in luoghi credibili e ricchi di una storia credibile), assume significato particolare il fatto che il cattolicissimo Tolkien volle tradurre in elfico le preghiere cattoliche fondamentali. Tra queste appunto il Sub tuum praesidium, tradotto in Quenya, il “latino elfico”, negli anni 1950 con il titolo Ortírielyanna. Nel 2002 la preghiera è stata pubblicata in edizione critica – con il placet di Christopher Tolkien – sul n. 44 del periodico statunitense di filologia tolkieniana Vinyar Tengwar dagli studiosi Patrick H. Wynne, Arden R. Smith e Carl F. Hostetter. Non solo. Tolkien tradusse in tutto cinque preghiere cattoliche: il Pater Noster, l’Ave Maria, il Gloria Patri, le Litanie lauretane e appunto il Sub Tuum Praesidium, tutte pubblicate criticamente su Vinyar Tengwar nei numeri 43 e (il citato) 44.

Ora, al padre gesuita Robert Murray (1925-2018) ‒ l’amico che ebbe modo di leggere parte della sua narrativa prima che venisse pubblicata ‒ Tolkien scrisse, con parole più che note: «Ovviamente Il Signore degli Anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica; all’inizio lo è stata inconsciamente, ma lo è diventata consapevolmente nella revisione. È per questo motivo che non ho inserito, o ho eliminato, praticamente ogni riferimento a qualsiasi tipo di “religione”, culto o pratica religiosa, nel mondo immaginario. L’elemento religioso e infatti insito nella storia e nel simbolismo».

Un po’ per rispetto, un po’ per evitare incongruenze (sincretistiche), la narrativa tolkieniana sembra non parlare di fede. Perché allora dunque tradurre in elfico le preghiere della Tradizione cattolica? Tolkien non ce lo ha lasciato scritto, ma è lecito immaginarlo. Se la sua opera narrativa è intrinsecamente cristiana, e dunque a modo proprio esplicitamente cattolica, il bene e il male che vi si scontrano sono gli stessi della vita reale. Gesù e Satana.

L'”Ortírielyanna”, la versione in elfico Quenya della preghiera “Sub tuum praesidium” scritta di pugno da Tolkien

Nella famosa conferenza Sulle fiabe, del 1939, Tolkien afferma che la narrazione fantastica è «un lontano barlume o un’eco dell’evangelium nel mondo reale», aggiungendo subito che «l’uso di questa parola fa intravedere la mia conclusione». Questa: «I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe. I Vangeli contengono molte meraviglie, di un’artisticità particolare, belle e commoventi: “mitiche” nel loro significato perfetto, in sé conchiuso: e tra le meraviglie c’è l’eucatastrofe massima e più completa che si possa concepire. Solo che questa vicenda ha penetrato di sé la Storia e il mondo primario; il desiderio e l’anelito alla subcreazione [cioè la creazione artistica] sono stati elevati al compimento della Creazione. La nascita del Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo; la Resurrezione, l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione». Con «eucatastrofe» Tolkien intende la «[…] “buona catastrofe”, l’improvviso “capovolgimento” gioioso» della storia nel momento più buio quando tutto sembrerebbe invece perduto. La creazione narrativa, dunque, «[…] volge lo sguardo in avanti (oppure all’indietro: la direzione in questo caso è irrilevante), verso la Grande Eucatastrofe». Ebbene, rispetto alla narrazione fantastica, «la gioia cristiana, la Gloria, è dello stesso genere», ma il punto “di non ritorno” è che essa è «[…] preminentemente (infinitamente, se la nostra capacità non fosse finita) alta e gioiosa», e questo perché «[…] questa vicenda è suprema; ed è vera». E quindi «Dio è il Signore, degli angeli, degli uomini – e degli elfi».

Ne Il Signore degli Anelli, l’Oscuro Nemico ‒ il nemico della natura umana, direbbe sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) ‒ si chiama Sauron, emissario storico di Morgoth. In una lettera a Milton Waldman, editor della Collins, scritta probabilmente verso la fine del 1951, Tolkien annota: «Sotto Sauron sorge una nuova religione, e l’adorazione dell’Oscurità con il suo tempio. I Fedeli vengono perseguitati e sacrificati». Dunque, «Ortírielyanna rucimme, Aina Eruontari, alalye nattira arca·ndemmar sangiessemman ono alye eterúna me illume ilya raxellor alcarin Vénde ar manaquenta»: sì, anche gli Elfi pregano la Madre celeste affinché ponga la Creazione sotto il proprio mantello materno, anche gli Elfi pregano con il Papa per proteggere la Chiesa da Sauron e dal suo padrone “antico” Morgoth.

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 3-10-2018

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Vaticano e Pechino firmano un accordo provvisorio

Pubblicato da Marco Respinti in 23 settembre 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli su cartacei, I MIEI ARTICOLI, Libero. Tag: Accordo Provvisorio, appeasement, AsiaNews, Associazione patriottica cattolica cinese, Benedetto XVI, Bitter Winter, Chiesa Cattolica clandestina, Cina, comunismo, diocesi, distensione, Est europeo, fede, filocomunismo, gerarchia, Giuseppe Guo Jincai, Giuseppe Huang Bingzhang, Giuseppe Liu Xinhong, Giuseppe Ma Yinglin, Giuseppe Yue Fusheng, Giuseppe Zen Ze-kiun, Greg Burke, Hong Kong, Illuminismo, martirio, Massimo Introvigne, Medioevo, neo-post-comunismo, nomina, Ottocento, Paolo Lei Shiyin, Papa Francesco, Pechino, persecuzione, Pietro Parolin, Pontificio Istituto per le Missioni Estere, religione, riconoscimento, rivoluzioni, Sala stampa vaticana, san Giovanni Paolo II, Santa Sede, scisma, Segretario di Stato vaticano, Settecento, The Wall Street Journal, totalitarismo, vescovi, vescovo di Roma, Vincenzo Zhan Silu. Lascia un commento

Qualcosa di nuovo sul fronte orientale, e di portata storica: «Per la prima volta, dopo tanti decenni, oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il vescovo di Roma», ha detto il Segretario di Stato vaticano, mons. Pietro Parolin. Ieri, infatti, la Santa Sede ha riconosciuto sette vescovi validi per Roma ma ordinati illecitamente da Pechino, gli ultimi sette: i monsignori Giuseppe Guo Jincai, Giuseppe Huang Bingzhang, Paolo Lei Shiyin, Giuseppe Liu Xinhong, Giuseppe Ma Yinglin, Giuseppe Yue Fusheng e Vincenzo Zhan Silu. I cattolici cinesi sono infatti spaccati in due dal 1951, quando la Cina comunista ruppe con Roma: da un lato l’Associazione patriottica cattolica cinese creata e controllata dal regime dal 1957, dall’altra la Chiesa Cattolica clandestina, fedele, perseguitata, irta di martiri. Ma da ieri almeno la Chiesa gerarchica cinese torna a essere una.

© CNS photo/Wu Hong, EPA

L’evento storico è solo questo, non l’inesistente scoop del Wall Street Journal, smascherato su queste pagine domenica scorsa, quando Cina e Chiesa sembravano pronte a un accordo tombale di riconoscimento reciproco, con una delegazione vaticana in arrivo a Pechino. Fa testo il comunicato stampa ufficiale della Santa Sede, che definisce quello di ieri «un Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi». E basta. Per di più segreto, come ricorda il sociologo delle religioni Massimo Introvigne sul quotidiano internazionale specializzato Bitter Winter. Nessuna legittimazione vaticana, insomma, del regime neo-post-comunista cinese che fa guerra a ogni religione.

Del resto, già Papa Benedetto XVI stabilì che fosse Pechino a scegliere i vescovi cinesi e il Vaticano ad approvarli. O a bocciarli, come accaduto in diversi casi. Ora quindi, mentre la Chiesa filocomunista e quella romana restano nemiche, almeno le diocesi cinesi avranno ognuna un solo vescovo. Compromessi così la Chiesa li ha peraltro sempre conclusi, dal Medioevo al Settecento illuminista e all’Ottocento delle Rivoluzioni, quando in minoranza o minacciata. E l’esperienza dell’Est europeo con san Giovanni Paolo II dice che lavorare dall’interno alla fine paga. Come ha detto il portavoce della Sala stampa vaticana, Greg Burke, «questa non è la fine di un processo. È l’inizio!». Il via libera al regime non c’è, sette vescovi cattolici in più sì. E Taiwan (la Cina riconosciuta dalla Santa Sede) rilancia chiedendo che nella Cina continentale vi sia più libertà religiosa.

Non la pensa però così il cardinale Giuseppe Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong, simbolo vivente della resistenza a ogni compromesso, da sempre critico della gestione Parolin, di cui venerdì ha persino chiesto (esagerando) le dimissioni. In una dichiarazione fatta pervenire ad AsiaNews, l’agenzia di stampa ufficiale del Pontificio Istituto per le Missioni Estere, definisce l’accordo un «capolavoro» per «dire niente con tante parole». Provvisorio, non si dice che durata avrà; sarà valutato periodicamente, ma non si dice quando; e le due parti potranno modificarlo o anche annullarlo. Sul resto, silenzio. Più spaventata che adirata, è la voce di chi guarda in faccia il comunismo cinese tutti i giorni e teme di essere sacrificato sull’altare della distensione.

Marco Respinti

Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LIII, n. 262, Milano 23-09-2018, p. 10

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John McCain: conservatore, ma non «un conservatore»

Pubblicato da Marco Respinti in 27 agosto 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, conservatorismo (USA), I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, Trumplandia. Tag: aborto, Accademia navale, assoluti morali, Barack Obama, cancro, Casa Bianca, cattura, Coco Solo, comunismo, conservatore, conservatori, conservatorismo, Donald J. Trump, eroe, eroismo, Faith of My Fathers, gender, George W. Bush Jr., Grand Old Party. GOP, Guerra del Vietnam, Hanoi, John F. Kerry, John McCain, John Sidney McCain III, LGBT, marina, National Review, omosessualismo, omosessualità, Operation Rolling Thunder, Operazione Rombo di Tuono, Partito Repubblicano, Sarah Palin, socialcomunismo, suicidio, tortura, totalitarismo, tumore, unioni omosessuali, US Navy, USS Forrestal, Vietnam, Vietnam del Nord, William F. Buckley Jr., Zona del Canale di Panama. Lascia un commento

Al senatore John McCain (1936-2018) andavano strette tutte le definizioni. Repubblicano granitico, ha sempre trovato il modo per distinguersi. William F. Buckley Jr. (1925-2008), il fondatore storico di National Review, la casa comune giornalistica dei conservatori, ebbe a definire McCain «conservatore», ma non «un conservatore»: fra le due definizioni, solo apparentemente simili, Buckley, maestro di retorica pubblica, ci volle far passare la differenza fra un termine relativo e un termine assoluto, in specie riguardo agli assoluti morali.

McCain era sì contro l’aborto e contro le unioni omosessuali, ma, al lato pratico, per esempio quando l’aula doveva votare su questa o su quella specifica proposta di legge, trovava sovente il modo di fare la pecora nera. Era per esempio favorevole alla sperimentazione scientifica sugli embrioni umani al punto di volerne il finanziamento pubblico. Era contro i matrimoni omosessuali, ma non li voleva vietare a livello federale, preferendo che ci pensassero i singoli Stati dell’Unione: una posizione perfettamente in linea con la tradizione del federalismo americano, ma nel caso specifico a rischio boomerang. In una stagione, come quella attuale, dove la cultura conservatrice ha di fatto conquistato tutto il Grand Old Party (GOP, l’altro nome del Partito Repubblicano), e dove gli ultimi elementi liberal sono solo le classiche eccezioni che confermano la regola, McCain ha insomma rappresentato un tertium genus. Un genus più unico che raro. Oggi non c’è, infatti, un altro Repubblicano come McCain.

Nella sua lunga e movimentata carriera è riuscito a guadagnarsi il rispetto di tutti, amici e avversari. È stato un eroe di guerra, pluridecorato, abituato alla vita militare sin dalla culla. Letteralmente. Nacque infatti con il nome completo di John Sidney McCain III il 29 agosto 1936 nella base navale di Coco Solo nella Zona del Canale di Panama (cioè quella parte della repubblica panamense che dal 1903 al 1979 è stata soggetta alla sovranità degli Stati Uniti), figlio di un ammiraglio a quattro stelle della Marina, figlio anch’egli di un ammiraglio a quattro stelle della Marina. Dopo una laurea all’Accademia navale nel 1958, fu aviatore nella US Navy. Ovviamente finì in Vietnam a combattere il comunismo e nel 1967 quasi morì nel rogo della portaerei USS Forrestal per un guasto elettrico che aveva incendiato un missile. Accade in luglio. Fece appena in tempo a riprendersi che in ottobre venne abbattuto sopra il cielo di Hanoi durante l’Operazione Rombo di Tuono con cui la 2a Divisione Aerea degli Stati Uniti bombardava sistematicamente il Vietnam del Nord. Ferite gravi ovunque, due braccia e una gamba fratturate, a rischio di annegamento dopo essere finito in un lago con il paracadute, venne catturato dal nemico che con il calcio di un fucile gli fratturò una spalla per poi prenderlo a baionettate. I rossi si rifiutarono di curarlo. Solo in seguito gli badarono, ma fu acqua fresca. Fu torturato. Quando lo cambiarono di carcere i due commilitoni americani che lo videro arrivare non gli diedero una settimana di vita. Ma McCain, tempra d’acciaio, sopravvisse. Anche quando lo misero in isolamento, per due anni. A metà del 1968 suo padre diventò capo supremo di tutte le forze americane in Vietnam e Hanoi si offrì di rimandare a casa l’aviere McCain per farci bella figura. McCain disse che avrebbe accettato solo se con lui fossero stati mandati a casa anche gli altri americani suoi compagni di prigionia. Hanoi rifiutò la richiesta di McCain e McCain rifiutò l’offerta di Hanoi. Pensarono dunque bene d’intensificare le torture. Un giorno McCain pensò persino al suicidio, ma i comunisti non glielo permisero: volevano continuare il lorio gioco sadico.

La storia di McCain è però una storia vera, non un’americanata da film di cassetta. Giunse infatti il giorno in cui l’eroe cedette. “Confessò” chissà che cosa. Gli erano saltati i nervi, non era più lui. Se n’è sempre pentito, ma ha pure spiegato il fatto nell’unico modo lecito a un figlio dell’Occidente cortese e cristiano che è diversissimo da un samurai giapponese per il quale l’onore è dio al posto di Dio. Disse che tutti gli uomini, che sono uomini e non autonomi o fumetti, hanno un punto di rottura. Che anche gli eroi piangono, e che non c’è da vergognarsene.

Poi si rialzò, non mollando un millimetro ai pacifisti e alla propaganda, anzi benedicendo i bombardamenti americani. Il 14 marzo 1973 fu finalmente liberato. Il suo fisico piagato non è mai più stato capace di sollevare le braccia sopra la testa.

Queste cose e molte altre McCain ha saputo metterle in libri-verità che si leggono come romanzi d’appendice, a partire dal primo, un titolo che sembra una medaglia al valore, Faith of My Fathers, del 1999, divenuto nel 2005 anche un film per la televisione.

Tutti si sono inchinati a McCain. Persino Barack Obama, combattuto aspramente da McCain che non gliele ha mai mandate a dire. Tutti tranne Donald J. Trump, il quale, irritato da commenti pesanti di McCain sul suo elettorato (“pazzi”), nel 2016 toccò il fondo rinfacciandogli di essere stato catturato in Vietnam. Nemmeno l’onore delle armi, una vigliaccata che resta iscritta negli annali della vergogna.

Ritiratosi dalla Marina nel 1981 con il grado di capitano, si accasò in Arizona e nel 1982 fu eletto alla Camera federale dei deputati servendovi per due mandati. Nel 1987 venne eletto al Senato e poi ancora per altri cinque mandati. Pensò anche alla Casa Bianca. Accadde dapprima nel 2000, ma nelle primarie cedette a George W. Bush Jr., che divenne presidente e lo stesso di nuovo nel 2004. Una volta uscito di scena l’avversario, McCain fu di fatto l’unico a volere scendere in campo nel 2008. Ma fu una lotta impari. Da un lato stava la comunque ingombrante eredità di un presidente importante e controverso come Bush Jr., dall’altro il di fatto imbattibile Obama. McCain andò dritto filato contro l’iceberg e colò a picco. Scelse Sarah Palin per la vicepresidenza, e fu una mossa che salvò il salvabile. Sovente si legge il contrario, ma sono i numeri a dirlo. Nel 2004 Bush vinse con 62.040.610 voti, nel 2008 McCain e la Palin persero con 59.948.323. Uno scarto ridotto. E i numeri con cui allora McCain perse furono superiori a quelli con cui John F. Kerry perse nel 2004 contro Bush (59.028.444). Nel 2008 la differenza la fece davvero Obama in persona (cioè grazie alla sua persona) ottenendo ben 69.498.516. Il “disastro Repubblicano” però non ci fu. Fu merito della Palin, che portò a McCain una gran parte di quel mondo conservatore che invece McCain non lo ha mai amato, e fu merito di McCain, o di chi per lui, per avere scelto la Palin (che pure non amava).

La sua carriera McCain l’ha di fatto chiusa ponendo nell’urna il voto decisivo che ha bocciato la riforma sanitaria di Trump, e questo molti non gliel’hanno perdonato. Poi il cancro l’ho a divorato. Si è giocato la malattia in pubblico e alla fine ha deciso d’interrompere le cure. Il 25 agosto, a quattro giorni dall’82esimo compleanno, si è spento nella sua casa di Cornville, in Arizona. Verrà ricordato per le mille contraddizioni.

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Morto McCain, conservatore ma non “un conservatore”

in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 27-08-2018

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La svolta americana per difendere la libertà religiosa

Pubblicato da Marco Respinti in 28 luglio 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, conservatorismo (USA), I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, Trumplandia, TUTTO. Tag: Andrew C. Brunson, comunismo, Corea del Nord, cristianofobia, Daniel Ortega, Donald J. Trump, fede, Fondo per la libertà religiosa nel mondo, International Religious Freedom Fund, Iran, ISIS, libertà religiosa, marxismo-leninismo, Mike Pence, Mike Pompeo, Ministerial to Advance Religious Freedom, Nicaragua, persecuzione religiosa, Potomac Declaration, religiosa, Russia, Sam Brownback, sandinismo, Segretario di Stato, snadinisti, Turchia. Lascia un commento

Il mondo non sarà più quello di prima. Certamente non sarà più quello che è stato negli otto anni della presidenza di Barack Obama. Ciò che i tre giorni della “Ministerial to Advance Religious Freedom”, chiusasi giovedì 26 a Washington, suggellano è decisamente questo. Davanti a centinaia fra capi di Stato e di governo, ministri, esperti internazionali e scampati alla persecuzione religiosa raggruppati nelle 80 delegazioni che sono intervenute al primo incontro internazionale a difesa della libertà di credere e di vivere pubblicamente la fede, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo e il vicepresidente del Paese più importante del mondo, Mike Pence, hanno formalmente impegnato gli Stati Uniti, a nome e su mandato del presidente Donald J. Trump, a imprimere una svolta decisiva al nostro tempo.

«La mia fede personale ha per me la massima importanza», ha esordito il Segretario Pompeo solo dopo avere messo davanti a tutto il vicepresidente Pence: «So personalmente che è un uomo di fede profonda e la sua dedizione alla difesa alla libertà religiosa non ha eguali». Poi Pompeo ha continuato: «In quanto cittadino degli Stati Uniti d’America, godo della benedizione del diritto di vivere apertamente ciò in cui credo senza paura di persecuzioni o di rappresaglie da parte del mio governo. Voglio che tutti godano di questa stessa benedizione». Una benedizione per introdurre il concetto chiave: quello dell’Amministrazione Trump è un «[…] impegno irremovibile» a difendere la libertà religiosa. Ma c’è molto di più. L’idea di organizzare la prima convention mondiale attorno a questo ideale non è la decisione di un singolo, pur potente o autorevole, quindi contingente e momentanea, ma «è radicata nella storia degli Stati Uniti».

Il punto all’ordine del giorno è netto. Gli Stati Uniti vogliono ricoprire un ruolo preciso nello scenario internazionale, e quel ruolo è la difesa e la promozione del primo dei diritti umani: la libertà di ognuno di credere in Dio e di vivere di conseguenza, modellando su questo principio primo le proprie scelte di vita, i propri impegni, la propria visione del mondo, le proprie iniziative sociali, economiche, politiche, culturali ed educative. Non esiste alcun potere, privato o pubblico, non esiste alcuno Stato o regime che possa limitare, conculcare o negare questo diritto imprescindibile. E qualora vi fosse, sarebbe uno Stato che viola il proprio mandato, che viola la legge, che viola gli uomini.

libertà religiosa

Se il ruolo che gli Stati Uniti vogliono avere nel mondo è questo, e se questo non è semplicemente l’orientamento di una particolare Amministrazione politica, come dice Pompeo, significa allora che caso mai un’altra Amministrazione statunitense di diverso orientamento dovesse fare altrimenti, essa semplicemente tradirebbe l’essere americani. Tradirebbe sé stessa, il Paese e la sua storia.

Il motivo, infatti, per cui gli Stati Uniti mettono la libertà religiosa al primo posto della propria politica estera è semplicissimo: la libertà religiosa «[…] non è un diritto esclusivo degli statunitensi», bensì «un diritto universale dato da Dio a tutto il genere umano». Dio torna insomma in politica; torna a essere la pietra angolare dell’azione pubblica. Verranno i momenti di magra, verranno le dimenticanze e forse pure i voltafaccia. Ma questo è un momento senza precedenti. L’anno zero “costantiniano” dell’età, comunque gli storici la chiameranno, che viene dopo la postmodernità relativista, la quale ha travolto la modernità ideologica, la quale a propria volta ha preteso di cancellare le stagioni in cui l’uomo ha provato a prendere sul serio la fede. I media non lo hanno ancora capito.

Intervenendo dopo il Segretario Pompeo, il vicepresidente Pence ha vidimato e confermato ufficialmente questo impegno, «giacché, oggi, tragicamente, uno scioccante 83% della popolazione mondiale vive in Paesi dove la libertà religiosa è minacciata o addirittura bandita».

Pence ha elencato alcune situazioni gravi partendo però dal Nicaragua, dove il marxismo acre e aspro del governo sandinista ha ripreso nuovo vigore persecutorio e «il governo di Daniel Ortega sta praticamente facendo la guerra alla Chiesa Cattolica» con l’impiego di tagliagole che con machete e armi pesanti assaltano parrocchie e aggrediscono vescovi.

Poi ha posto l’accento sulla Cina, un Paese che sta letteralmente tornado al maoismo. C’è un collegamento netto e voluto fra quanto detto in conclusione giovedì da Pence e quanto detto martedì in apertura dall’ambasciatore statunitense per la libertà religiosa nel mondo, Sam Brownback: quanto avviene in Cina, nei famigerati “campi di rieducazione” dove finiscono migliaia e migliaia di persone di ogni fede colpevoli soltanto di avere una fede religiosa è una «situazione scioccante».

E poi ci sono la Corea del Nord, che nella «persecuzione dei cristiani […] non ha rivali sulla Terra», la Russia, l’Iran, l’ISIS (le cui atrocità non sono finite), ma pure la Turchia dove il pastore presbiteriano Andrew C. Brunson langue in carcere dal 2016, pur essendo un cittadino statunitense, con la falsa accusa di avere preso parte al tentativo di colpo di Stato.

Ma, dopo avere pronunciato parole importanti, l’Amministrazione americana è passata ai fatti. Non ci si può infatti limitare a denunciare senza fare nulla. A questo scopo Pompeo ha presentato la “Potomac Declaration” (dal nome del fiume che scorre a Washington) che urge i governi del mondo a porre la difesa della libertà religiosa senza “se” e senza “ma” in cima alle proprie priorità politiche, e Pence ha dato notizia della costituzione di un nuovo Fund per la libertà religiosa nel mondo. Con la Dichiarazione americana molti regimi ci si faranno aria, ma resta nero su bianco. E verrà come metro di giudizio per distinguere gli amici dai nemici. Così nettamente non era mai successo prima.

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in
La nuova Bussola Quotidiana, Monza 28-07-2018

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Hanno trovato l’acqua su Marte, ma non i marziani

Pubblicato da Marco Respinti in 27 luglio 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, De rerum natura, I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, TUTTO. Tag: aborto, acqua, acqua liquida, Agenzia Spaziale Europe, Alfred McEwen, alieni, astro, atmosfera, Cerere, Eric Hand, extraterrestri, Geologia planetaria, Giovanni Picardi, Luna, Mars Advanced Radar for Subsurface and Ionosphere Sounding, Mars Express, Mars in Motion, Marsis, Marte, marziani, Nature, pianeta, pianeta rosso, Planetary Image Research Laboratory, radar, satellite, Saturno, Science, Scientific American, sistema solare, sonda, Thales Alenia Space, Tucson, Università degli Studi La Sapienza, Università dell’Arizona, Venere, vita. Lascia un commento

Sul pianeta Marte c’è acqua. Salata. Addirittura un lago. Lo afferma Scienceperché lo dice un radar, tutto italiano, chiamato Marsis (Mars Advanced Radar for Subsurface and Ionosphere Sounding) e attivo dal 2005 sulla sonda Mars Express dell’Agenzia Spaziale Europea. Il radar è stato ideato da Giovanni Picardi dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma, è stato costruito dalla Thales Alenia Space e anche tutti gli altri autori della ricerca sono italiani. Mentre il lago ha un diametro di 20 chilometri e una forma vagamente triangolare. Ma è una non notizia.

Chi lo afferma, da anni, è Alfred McEwen, docente di Geologia planetaria nell’Università dell’Arizona a Tucson, ivi direttore del Planetary Image Research Laboratory, nonché membro dei team scientifici che hanno seguito e seguono missioni importanti verso la Luna, verso Saturno e verso, appunto, Marte. «Le scoperte di acqua su Marte sono oggi così comuni che gli scienziati planetari ci scherzano su: “Congratulazioni: avete scoperto l’acqua su Marte per la millesima volta!”». McEwan Lo ha scritto cinque anni fa (Mars in Motion, in Scientific American, vol. 308, maggio 2013, p. 60), chissà che conto farebbe se scrivesse oggi.

L’acqua infatti su Marte c’è. Ghiacciata ai due poli e adesso salata alla ragguardevole profondità, dice il radar, di un chilometro e mezzo sotto la calotta polare meridionale del “pianeta rosso”. Del resto l’intero nostro Sistema solare abbonda di acqua: l’acqua c’è sulle comete, negli anelli dei pianeti, sui satelliti dei pianeti di massa maggiore, su Cerere, c’è stata su Venere e c’è sulla nostra Luna. Il piccolo enorme problema è che quando l’acqua c’è, c’è in luoghi totalmente inospitali, oppure c’è ma mai allo stato liquido sulla superficie.

Perché su Marte l’acqua non sta liquida sulla superficie? Perché si dissolverebbe nello spazio per via della praticamente inesistente atmosfera del pianeta, incapace di trattenerla. Si dice che un tempo sulla superficie di Marte l’acqua liquida ci fosse. Se così è stato, significa che a un certo punto la rarefazione dell’atmosfera marziana ne ha causato il dissolvimento quasi totale nello spazio salvo quella parte che è invece filtrata sotto la crosta. Ora, questo è un processo irreversibile. Ovvero: se anche vi è stata, l’acqua liquida sulla superficie marziana non vi potrà più essere. Se cioè portassimo dell’acqua liquida sulla superficie di Marte, essa svanirebbe. Questo può parzialmente spiegare perché la sola acqua esistente su Marte sia ghiacciata oppure sprofondata nel cuore del pianeta. E bisogna accontentarsi di quella.

Qualcuno però dubita persino che sulla superficie marziana ci sia mai stata acqua liquida. Perché essa ci sia stata salvo poi dissolversi nel cosmo occorre ovviamente ipotizzare un tempo in cui l’atmosfera del pianeta sia stata totalmente diversa da quella attuale. La scienza dice però che non è mai stato così. Scrive su Nature il giornalista scientifico Eric Hand che Marte «è stato freddo e secco sin dal principio, al massimo punteggiato da qualche fuoriuscita di umidità» (Dreams of Water on Mars Evaporate, in Nature, vol. 484, 12 aprile 2012, p. 153).

Al netto di questo, dunque, acqua su Marte c’è, va bene, ma inservibile.

Ora, il sensazionalismo della non notizia del lago salato dentro il ventre del “pianeta rosso” è funzionale all’alimentazione di un sofisma che scatta pavlovianamente a ogni millesima (per usare le parole di McEwen) scoperta dell’acqua (calda) su Marte (o anche altrove). Acqua uguale vita, ovvero gli alieni esistono.

Ma è un trucco ignobile. Nessuno nega né mai negherà che l’acqua sia indispensabile alla vita, ma l’acqua in sé non genera la vita. Potremmo avere astri gonfi d’acqua, persino dolce, liquida e in superficie, e non incontrare la vita mai. La vita si serve dell’acqua, ma non è l’acqua. La notizia del secolo sarà, quando e se la si scoprirà, la presenza della vita su un corpo celeste diverso dalla Terra. Oggi anche solo dire che sono state trovate “condizioni favorevoli” alla vita sopra una palla gelida, polverosa e senz’aria solo perché c’è ghiaccio duro come acciaio ai poli e una pozza negli abissi bui e invivibili è barare spudoratamente. L’acqua è indispensabile sì, ma con essa vi devono essere decine di altre condizioni che Marte non presenta per accogliere la vita. Appunto accoglierla. Messa da qualcuno, concedo pure da qualcosa. Ma qui sta il nodo. Non basta innaffiare il nulla affinché esso germogli. Ci vuole il seme. Mai trovato, misterioso. Mi concedo una battuta (serissima) finale. Perché questa smania tanto grande e costosa di snidare la vita su Marte? Per esportarci l’aborto?

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in
La nuova Bussola Quotidiana, Monza 27-07-2018

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40 anni fa il primo essere umano in provetta

Pubblicato da Marco Respinti in 26 luglio 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, TUTTO. Tag: Alfie Evans, Anni di piombo, beato Papa Paolo VI, Charlie Gard, Comitato nazionale per la bioetica, Consiglio dei ministri, contro-rivoluzione, enciclica, fecondazione artificiale, feto, homunculus, Humanae vitae, in vitro, ivoluzione, Louise Joy Brown, molecola sintetica, ormone regolatore, placenta, princìpi non negoziabili, provetta, pubertà, sesso, sessualità, triptorelina, Università di Amsterdam, Viagra, vita. 1 Commento

50 anni fa esatti il beato Papa Paolo VI pubblicava contra mundum quel monumento indiscutibile di verità, bellezza e sapienza che è l’enciclica Humanae vitae. Dieci anni esatti dopo, il 25 luglio 1978, al culmine degli “anni di piombo”, nasceva il primo essere umano concepito in provetta. Contro-rivoluzione e Rivoluzione.

Oggi Louise Joy Brown festeggia con torta e candeline i suoi primi quarant’anni e dice: «Agli uomini e alle donne che stanno tentando la fecondazione in vitro dico: non abbandonate mai la speranza. Ai medici e agli embriologi: continuate così. A tutti coloro che sono impegnati per queste procedure: grazie, a nome di milioni di bebè, per tutto quello che avete fatto». È il paradosso surreale del diavolo che fa le pentole, ma non i coperchi.

Ovvio che Louise celebri la vita che vibra in lei, la sua chiamata all’essere dal nulla, il grande dono fattole da Dio. Ovvio, e buono e giusto. E noi siamo certamente con lei, celebrando sempre e comunque la vita, che è sempre e comunque un dono di Dio anche quando Dio lo abbiamo costretto a creare un’anima in vitro. È infatti sempre lui il re della storia.

Epperò si resta sbigottiti davanti al fatto. Nella sua orgia di onnipotenza, l’uomo, che non può strappare a Dio il potere misterioso e sublime della vita, colpisce come riesce. Oggi Louise consiglia a tuti la fecondazione artificiale. Lo sappiamo, un bel tacere non fu mai scritto. Non oso nemmeno entrare nel vortice dei pensieri, di cosa significhi essere concepiti in provetta eppure ringraziare (implicitamente) Dio del dono della vita. Mi astengo, non oso, non voglio. Epperò resta sempre quel fatto. Agghiacciante, angosciante benché Dio sappia scrivere diritto pure sulle righe storte.

Louise nacque con parto cesareo 40 anni fa nel General Hospital di Oldham, nell’area metropolitana di Manchester, in Inghilterra, seguita dopo pochi anni anche dalla sorella, in un Paese che dopo i tanti Charlie Gard e Alfie Evans sta colando a picco come un fuso. Oggi parrebbe che i nati in vitro nel mondo siano otto milioni.

Nello stesso giorno in cui il mondo celebra il primogenito di quell’esercito la stampa riferisce che il Comitato nazionale per la bioetica consulente della presidenza del Consiglio dei ministri di un governo che aveva promesso il silenzio in tema di prìncipi non negoziabili, quello italiano, ha dato parere favorevole alla triptorelina, il farmaco antitumorale composto da una molecola sintetica che, se somministrato in modo prolungato, inibisce l’ormone regolatore delle funzioni testicolare e ovarica bloccando la pubertà. Il semaforo verde del Comitato serve a trattare con la triptorelina gli affetti da disforia di genere, cioè a creare i trans in provetta nel tentativo prometeico di strappare a Dio, dopo la vita, anche la sessualità e l’identità di genere. E arriva pure la notizia che il Viagra, la pillola blu che forza ancora una volta la natura nella sfera dell’intimità sessuale, se somministrato a donne, rafforzerebbe la placenta favorendo la crescita dei feti, così dice una ricerca del Centro medico dell’Università di Amsterdam che ha convinto ben dieci nosocomi dei Paesi Bassi, ma che finora ha invece soltanto ucciso 11 bambini a pochi giorni dalla nascita per insufficienza polmonare.

È questo l’homunculus alchemico che il nostro mondo progredito sta preparando per i nostri figli?

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Prima nata in provetta festeggia. Ma c’è poco da esultare
in
La nuova Bussola Quotidiana, Monza 26-07-2018

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Libertà religiosa, stella polare della politica statunitense

Pubblicato da Marco Respinti in 25 luglio 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli sul web, conservatorismo (USA), I MIEI ARTICOLI, La nuova Bussola Quotidiana, Trumplandia, TUTTO. Tag: American Mideast Coalition for Democracy, aramaico, California, cattolici maroniti, Cina, cristiani israeliani, cristianofobia, discriminazione, Gebran Bassil, intolleranza, Iran, Libano, libertà religiosa, maoismo, maronitismo, Mike Pence, Mike Pompeo, Ministerial to Advance Religious Freedom, OSCE, Pakistan, persecuzione religiosa, politica estera, razzismo, religioni straniere, Ronald Reagan Presidential Library, Russia, Salvatore Martinez, Sam Brownback, san Charbel Makhlouf, Segretario di Stato, Simi Valley, Stati Uniti d’America, Vladimir Putin, Washington, xenofobia, Xi Jiping. Lascia un commento

A Washington si è aperta ieri, martedì 24 luglio, la convention sulla libertà religiosa voluta dal Segretario di Stato Mike Pompeo e dall’ambasciatore Sam Brownback. S’intitola “Ministerial to Advance Religious Freedom”, durerà fino a mercoledì 26, verrà approfondita da una serie di eventi collaterali che ne prolungheranno l’effetto per tutta la settimana (alcuni para-ufficiali, quelli ospitati in edifici federali) e raduna primi ministri, capi di Stato, leader religiosi (tra cui Salvatore Martinez, rappresentante personale della presidenza italiana in esercizio OSCE 2018 con delega alla lotta a razzismo, xenofobia, intolleranza e discriminazione dei cristiani e di membri di altre religioni), esperti, attivisti e testimoni per un totale di 80 delegazioni da tutto il mondo. Un evento così non si è mai visto, soprattutto sulla libertà religiosa, “costantinianamente” convocato da un leader politico e non da un capo ecclesiastico, e senza che si tratti di una melassa buonista per dire, falsamente, che le religioni sono tutte la stessa cosa ovvero nulla.

L’ambasciore statunitense per la libertà religiosa nel mondo, sam Brwonback alla convention “Ministerial to Advance Religious Freedom”

Un evento così sulla libertà religiosa è infatti un evento fondamentale: fonda la convivenza tra gli uomini e regola i rapporti internazionali. Organizzando e ospitando la convention, Pompeo e Brownback danno al mondo un segnale forte e chiaro. Dicono a tutti che il criterio per stabilire i rapporti internazionali sarà ed è guidato dalla libertà di esprimere in pubblico la propria fede traendone tutte le conseguenze concrete (libertà di associazione, questione educativa, missione, etc.) e dicono che la politica estera del Paese più importante del mondo sarà ed è guidata da questo criterio.

Ancora una volta, non significa dire che tutte le religioni sono la medesima cosa. Significa dire che il fatto religioso, l’esperienza religiosa, il senso religioso, il rapporto fra uomo e Dio è e non può non essere il primo punto all’ordine del giorno sempre, la prima norma della politica, il parametro basilare dei rapporti internazionali e che i governi altro non possono fare che portare rispetto.

Ciò implica per esempio che se perseguita i propri cittadini a motivo della fede che essi professano un Paese dovrebbe essere messo in mora. Visto chi governa oggi gli Stati Uniti, e visto il gabinetto di ministri che si è scelto, dopo le parole non dovrebbero affatto mancare i fatti.

Nel mondo la libertà religiosa è conculcata in moltissimi luoghi e ambiti. C’è una libertà religiosa impedita con la violenza, la tortura e la morte, e c’è una libertà religiosa ostacolata attraverso i tribunali, i media e il politicamente corretto. I cristiani sono le prime vittime.

Tra i luoghi dove la libertà religiosa e i diritti umani che ne derivano è impedita con la violenza ci sono Paesi ambigui come il Pakistan. Oppure l’Iran che in queste ore fa inutilmente la voce grossa e di cui ha annunciato tratterà Pompeo prendendo la parola domenica nella Ronald Reagan Presidential Library a Simi Valley, nella California meridionale. Ma ci sono anche giganti come la Cina e come la Russia con cui una quadra bisognerà trovarla. Impensabile prendere di petto Paesi così per la loro rilevanza e per la loro possanza economica, politica, militare, ma al contempo non si può tacere del fatto che, quanto a politica verso le fedi (e non solo), il regime di Xi Jiping sta di fatto tornando ai tempi cupi del maoismo né che Vladimir Putin, con la scusa di colpire le “religioni straniere” (ma è lo stesso linguaggio che usa Xi Jiping per il quale il primo straniero è da sempre il cristianesimo), decida lui cosa è buono e cosa non lo è in tema di religione (anche perché così tutto ciò che non è ortodossia diventa in fretta nemico).

Il Segretario di Stato Mike Pompeo (AP Photo/Amr Nabil)

Per tre giorni a Washington il tema è questo. Come ha detto Pompeo alla vigilia, gli Stati Uniti sono pronti a discuterne anche con i Paesi con cui, sul tema, c’è disaccordo profondo: quelli citati, ma per esempio anche il Libano (martedì 24, quando la convention si è aperta era san Charbel Makhlouf) il cui ministro degli Esteri, Gebran Bassil, partecipa all’evento. Il 19 luglio, infatti, l’American Mideast Coalition for Democracy ha scritto a Pompeo affinché chieda conto a Bassil dell’arresto, all’inizio del mese, di due cattolici maroniti accusati di avere avuto contatti con dei cristiani israeliani durante un convegno sul ricupero della lingua e della cultura aramaiche.

Giovedì, in chiusura, prenderà la parola il vicepresidente Mike Pence, sensibilissimo al tema. In ottobre aveva promesso un’azione politica decisa in favore dei perseguitati per la fede, specialmente cristiani. La sensazione è quella di essere solo all’inizio di una svolta forse epocale.

Marco Respinti

Versione originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Libertà religiosa, stella polare della politica Usa
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 25-07-2018

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Padre Gianfranco Chiti a Radio Maria

Pubblicato da Marco Respinti in 22 luglio 2018
Pubblicato in: RADIO, Radio Maria, TUTTO. Tag: beatificazione, campagna di Russia, esercito, Flavio Ubodi, francescanesimo, francescani, Gianfrano Chiti, granatieri, guerra, militari, Radio Maria, Repubblica Sociale Italiana, Seconda guerra mondiale, Vincenzo Ruggero Manca. Lascia un commento

Stasera, alle 21,00, su Radio Maria, conduco la trasmissione

Gianfranco Chiti, un generale dei granatieri verso la santità

Ospiti:
il generale Vicenzo Ruggero Manca, autore del libro Il generale arruolato da Dio
(Ares, Milano 2018), e padre Flavio Ubodi OFM Cap,
vicepostulatore della causa di beatificazione di p. Chiti

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Il Pakistan fondamentalista tollera i trans, ma non i cristiani

Pubblicato da Marco Respinti in 22 luglio 2018
Pubblicato in: articoli qui pubblicati in versione originale, articoli su cartacei, I MIEI ARTICOLI, Libero, TUTTO. Tag: ’hijrà, ’khawaja sirà, bisex, carta d’identità, Chingiz Iqbal, cristianofobia, elezioni, Faisalabad, Fatf, Financial Action Task Force, finanziamento, fondamentalismo, gay, gender, Harsa Kot Thesil Samundri, Imran Khan, Inter-Services Intelligence, ISI, ISIS, islam, islamismo, Jawad Iqbal, jihad, jihadismo, Khatija Iqbal, Khyber Pakhtunkhwa, lesbiche, LGBT, libertà religiosa, Maria Khan, Money laundering, Nadeem Kashih, Nayyab Aliò, Pakista, Pakistan, parlamento, passaporto, persecuzione religiosa, riciclaggio, Shahid Khaqan Abbasi, talebani, terrorismo, terzo sesso, trans, transgender, Yousaf, Zulkarnain. Lascia un commento

Terroristi armati hanno assalito la chiesa cattolica del distretto di Harsa Kot Thesil Samundri a Faisalabad, città di 7 milioni di abitanti nel Pakistan un po’ islamista e un po’ filoccidentale.  Volevano farne un rogo, ma la polizia è intervenuta. E allora, come fanno i ladri quando non trovano i contanti e sfasciano tutto, hanno picchiato la ventina di fedeli che vi stavano pregando e dissacrato gli oggetti di culto. È successo il 13 luglio, verso le sette di sera, ma la notizia filtra ora. Gli attentatori sono cinque: tal Zulkarnain, tal Yousaf, i fratelli Jawad e Chingiz Iqbal più la sorella Khatija, cui spettava lanciare la molotov che avrebbe compiuto l’opera. Il motivo non è chiaro, ma pare fosse una rappresaglia per una denuncia presentata da un cattolico contro gli scalmanati fratelli Iqbal.

Non poteva accadere in un frangente peggiore. Mercoledì 25 luglio 90 milioni di pakistani voteranno nelle elezioni generali in un Paese percorso da faccendieri e talebani, diviso in clan rivali, da sempre seduto sul coperchio di un pentolone ribollente dove la libertà di religione, di espressione e di associazione è un vaso di vetro fra vasi di coccio. In più c’è la spada di Damocle dell’esercito e dei servizi segreti, storicamente potentissimi. Il mese scorso il Pakistan è stato inserito nella «grey list» della Fatf, l’organismo intergovernativo ufficiale di lotta al riciclaggio e prevenzione del finanziamento al terrorismo. E poco più di una settimana c’è stato l’attentato più sanguinosi nella storia del Paese: 149 morti rivendicati rivendicato dall’ISIS.

Ci mancavano dunque solo i transgender. Se ne candidano diversi. Tra loro, “Nayyab Aliò”, sfregiato con l’acido da un ex; “Maria Khan” per l’assemblea provinciale del Khyber Pakhtunkhwa, zona talebana; e il presentatore radio “Nadeem Kashih”, che sfida l’aspirante primo ministro, Imran Khan, e il capo del governo uscente, Shahid Khaqan Abbasi, al parlamento.

La comunità trans, cioè ’hijrà o ’khawaja sirà, si lamenta, ma in Pakistan il “terzo sesso” è legalmente riconosciuto, inserito sulla carta d’identità da 10 anni e sul passaporto dall’anno scorso. I primi candidati alle elezioni sono del 2013. E da maggio una legge ne garantisce i diritti. Sarebbero mezzo milione. Com’è allora che i fondamentalisti lanciati contro ogni peccato, impurità e scandalo se la prendono invece con i cattolici che pregano in chiesa?

Marco Respinti

Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
L’islam tollera i trans, non i cristiani
in Libero [Libero quotidiano], anno LIII, n. 200, Milano 22-07-2018, p. 12

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